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Che cos’è il lavoro oggi

di Nicole Siri

amazon magaWorks di Vitaliano Trevisan e Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco (Einaudi, rispettivamente 2016 e 2017) sono due mémoires che, apparentemente, condividono intento e impianto architettonico: raccontare una formazione di scrittore attraverso il resoconto cronologico dei lavori svolti. Addentrandosi in queste due costruzioni, però, ci si accorge subito che l’atmosfera che si respira è profondamente diversa: le due opere a confronto testimoniano, anzitutto, della faglia storica che le separa.

Vitaliano Trevisan è nato nel 1960, Giorgio Falco nel 1967. I due autori condividono, grossomodo, la classe sociale di provenienza, le prime esperienze lavorative (un lavoro estivo in fabbrica durante gli studi superiori), l’altezza cronologica dell’ingresso a tempo pieno nel mondo del lavoro — poco dopo l’esame di maturità, dopo una breve parentesi universitaria che si conclude per entrambi con l’abbandono degli studi.

Gli anni che li separano, però, sono anni cruciali. Trevisan inizia a lavorare a tempo pieno nel dicembre del 1979, Giorgio Falco (cercando di ricostruire la cronologia: i riferimenti temporali espliciti sono meno frequenti nel suo romanzo) all’incirca nel 1988: sono gli anni in cui il lavoro inizia a smaterializzarsi, si compie il passaggio dal capitalismo novecentesco al capitalismo flessibile di impronta sempre più marcatamente neoliberista, inizia a prendere forma il precariato cognitivo.

La prima, fondamentale differenza che informa le due opere è proprio questa: Trevisan ragiona secondo le logiche tradizionali della classe operaia, Falco secondo quelle del precariato cognitivo; Ipotesi di una sconfitta può rientrare sotto l’etichetta di “letteratura sul precariato”, Works no (o non altrettanto pacificamente). Le ragioni di questa differenza non sono, chiaramente, da attribuire ad un fattore rigidamente cronologico: sicuramente rilevante per il diverso posizionamento dei due autori è anche, per esempio, il fatto che Falco abbia studiato al liceo e Trevisan all’istituto per geometri, o che il primo sia cresciuto a Milano e il secondo nel Nord Est. “Nelle epoche di totale sconvolgimento”, scriveva Nadežda Mandel’štam in riferimento ai poeti russi degli anni dieci, “le generazioni si osservano non solo secondo l’età, ma anche secondo l’appartenenza a questa o quella formazione.

Già da un confronto tra le narrazioni del primo lavoro ci si accorge di questa prima differenza tra i due autori. Nel descrivere il proprio lavoro estivo in una fabbrica di gabbie per uccelli a quindici anni, Trevisan ragiona secondo la logica della classe operaia negli anni del benessere economico: studiare è un’alternativa che si è miracolosamente aperta, una possibilità di emanciparsi dal destino, altrimenti segnato e indiscutibile, della fabbrica (“eravamo fortunati, ripeteva mio padre […] perché potevamo studiare, fare le scuole medie, che né lui né mia madre avevano potuto fare, e dopo le medie pure le superiori, e finite le superiori addirittura l’università, cosa che ai suoi tempi era possibile solo per i figli dei ricchi; e se poi non avevamo voglia di studiare, pazienza, si può sempre andare a lavorare”).

Non così Falco. Il primo lavoro raccontato in Ipotesi di una sconfitta è — in maniera apparentemente del tutto assimilabile a Works — un lavoro estivo, svolto durante le scuole superiori, in una fabbrica di spille tonde. Eppure, qualcosa si è già compiuto: Falco, studente liceale, percepisce e racconta già una frattura insanabile tra gli “operai veri” e gli studenti. Il racconto del suo lavoro in fabbrica è il racconto di una non-appartenenza (“loro erano operai veri e operaie vere, confezionavano le merci che poi sarebbero state esposte nei supermercati; noi eravamo studenti, giocavamo a fare gli operai, potevamo occuparci del futile”; i corsivi sono dell’autore); le fantasticherie cui si abbandona il protagonista in fabbrica suggeriscono che l’appartenenza a una classe intellettuale — per quanto non riconosciuta, per quanto non retribuita — è per lui da subito un dato in una qualche misura acquisito (“Fumava Gauloises già alle otto di mattina, la barba era impregnata dell’odore che identificavo, nelle mie fantasie liceali, con fumosi bar parigini in cui sembrava di restare giovani per sempre, bar dove si beveva vino rosso parlando di letteratura, arte, cinema, rivoluzione, di assalto al lavoro tramite il suo sabotaggio, anche non violento”). Il mondo della cultura verrà, al contrario, percepito sempre come sostanzialmente estraneo da Trevisan, anche dopo l’affermazione come scrittore (“Decisamente non è il mio ambiente; al massimo sono i miei dintorni, o meglio quelli della mia scrittura, un territorio che frequento”).

Se si osserva, poi, la successione dei lavori svolti dai due autori a partire dal momento dell’ingresso a tempo pieno nel mondo del lavoro, ci si accorge che le loro esperienze sono in una certa misura speculari. I lavori svolti dal protagonista di Ipotesi di una sconfitta sono, nella stragrande maggioranza dei casi, i lavori tipici del precario cognitivo, o comunque lavori collocabili nei settori della vendita e dei servizi: collaboratore di una rivista, venditore porta a porta di abbonamenti, attacchino di locandine, impiegato in un’azienda di telefonia. I lavori tradizionalmente manuali (facchino alla fiera di Milano, magazziniere) non sono assenti ma, nell’architettura complessiva dell’opera e nel loro peso temporale, sono esperienze parentetiche. Per il protagonista di Works vale il contrario; la maggior parte dei lavori descritti dal muratore al geometra al lattoniere — sono manuali e hanno a che vedere con la costruzione: lavori, soprattutto, di cui è possibile percepire un risultato tangibile.

Non seulement que l’homme sache ce qu’il fait — mais si possible qu’il en perçoive l’usage — qu’il perçoive la nature modifiée par lui. Que pour chacun son propre travail soit objet de contemplation”: questa una preghiera che Simone Weil formulava nella Condition ouvrière; questa, probabilmente, la differenza più importante tra l’esperienza del lavoro narrata da Trevisan e quella narrata da Falco: per il primo la preghiera si esaudisce, per il secondo no. Senza mai cadere in retoriche celebrative cieche alle dinamiche dello sfruttamento — sempre ben presenti all’autore —, in Works si compie una delicata alchimia che consiste nel rendere conto allo stesso tempo dell’ingiustizia, della fatica e della gioia, di quel particolare piacere che è possibile trovare, malgrado tutto, nella soddisfazione per un lavoro ben fatto, per un problema cui si è trovata una soluzione brillante. (Equilibrio che si ritrova, del resto, anche in altre opere dotate di particolare finezza psicologica all’interno della letteratura sul lavoro: penso, per esempio, ad Amianto di Alberto Prunetti, in cui pagine e pagine di cupa denuncia delle condizioni del lavoro in fabbrica sono interrotte da intervalli luminosi sul gusto del protagonista Renato per i piccoli lavori manuali svolti a casa, nel tempo libero).

Il lavoro può così, per Trevisan, farsi parte della vita (“Come se le due cose si potessero scindere! Intendo il lavoro e la vita. Chissà, forse per qualcuno sarà anche così. Di certo non è stato così per me.”), appassionare (“In quel lavoro così teso, pieno di trabocchetti, in cui non bisognava mai abbassare un momento la guardia, c’era anche qualcosa di entusiasmante”), avere un valore esperienziale; il lavoro ripetitivo può avere, come sosteneva Diderot agli albori della rivoluzione industriale, lo stesso potenziale creativo che è inscritto nel gesto del musicista che deve passare per la ripetizione per arrivare alla padronanza.

Il lavoro può ancora essere un luogo in cui è possibile creare legami secondo una qualche forma di solidarietà (“Eppure, a quel tavolo notturno, in qualche modo, eravamo «noi»”) e comprensione: nei soprannomi usati per indicare i colleghi brilla sempre un’ironia bonaria che al di là della formula lascia intravvedere la persona, con le sue debolezze e le sue idiosincrasie — così, per esempio, per l’architetto un po’ narciso chiamato semplicemente “Lui”; così per il collega un po’ insofferente e indisciplinato soprannominato “il Riottoso”. Ancora, per Trevisan il lavoro permette di pensare la vita come una traiettoria dotata di una qualche forma, per quanto sgangherata, di coerenza: “Pensando alla mia storia lavorativa nel suo complesso, potrei ben dire che di altro non si sia trattato se non di una lunga successione di false partenze, di strade imboccate senza sapere bene perché, e tutte presto o tardi lasciate. Ciò nonostante, almeno da un certo punto in poi, una sorta di progressione, più che una vera e propria carriera, cominciò a configurarsi. Non una parabola. Nemmeno un arco. Niente linee curve nella mia vita, ma una spezzata, i cui segmenti si tengono a quel titolo di studio che non avrei mai voluto conseguire […]” .

Nel romanzo di Falco tutti questi orizzonti sono irrimediabilmente perduti. Il lavoro è, per definizione, un mondo a parte, tempo rubato alla vita e che ad essa si contrappone (“Ecco il motivo per cui ripetevamo e ripetiamo mondo del lavoro, diamo per scontato che sia un mondo a parte, dove ogni crudeltà è possibile proprio perché è lavoro”; “l’insofferenza di restare già chiuso […] dentro l’ufficio di collocamento, quando fuori c’era una giornata da vivere”), che non può suscitare interesse (“non mi interessava la carriera, nessun tipo di carriera”) perché non può mai farsi portatore di senso; il lavoro ripetitivo per Falco, come per Adam Smith, non può che ottundere e istupidire l’individuo.

Nessuna solidarietà è possibile tra colleghi (“esprimevano una rabbia mai indirizzata contro il potere più vicino — il proprio capo, l’azienda — ma sempre verso un collega di pari livello”); lo stesso dispositivo del soprannome serve, invece che a delineare con un solo tratto di pennello una personalità irripetibile, ad indicare la perfetta fungibilità degli individui: così a Solo Cattiveria seguirà Solo Cattiveria 2, personaggi intercambiabili e resi gusci vuoti dalla loro funzione. (Ma si faccia attenzione: Falco è troppo accorto per pensare che questa prospettiva, in cui il suo protagonista sembra così spesso imprigionato, sia necessaria e atemporale. A questo serve tra le altre cose, nel romanzo, il lungo primo capitolo, che racconta la storia lavorativa del padre del protagonista e il legame che, sul lavoro, si crea tra di lui e il socio Nino, che finirà per diventare il suo amico più sincero: a ribadire che l’atomizzazione dell’individuo è il prodotto di un’epoca e di una politica).

Infine, la storia lavorativa di Falco non offre prospettive di coerenza; tutto al contrario l’individuo si sfalda in ciò che gli è esterno e da cui è sopraffatto. La scrittura serve così a rendere conto, ancora più che di un individuo-cavia, di un’epoca: “Non è solo autobiografia, è materia differita, la biografia di ciò che è impersonale e mi circonda e compone”. Viene in aiuto, per spiegare questi mondi così diversi, molta della letteratura critica sul precariato, e su tutti The Corrosion of Character. The Personal Consequences of Work in the New Capitalism di Richard Sennett: che la principale conseguenza sull’individuo dell’avvento del tardo capitalismo sia l’incapacità di pensare la propria vita come una vita coerente è una delle tesi portanti del libro.

Tutto questo per quanto riguarda Works e Ipotesi di una sconfitta come testimonianze di un cambiamento epocale esterno alla letteratura: resta da chiedersi, allora, come reagisce la letteratura di fronte a questa faglia, quali forme e modi si esauriscono e quali restano possibili — come, per esempio, una vita lavorativa di cui non si percepisce più la coerenza riesca a farsi romanzo di formazione.

Entrambi gli autori si raccontano come dei sostanziali misfits rispetto al mondo in cui sono immersi (la malattia mentale è peraltro apertamente tematizzata in entrambe le opere): ancora, però, lo fanno in maniera opposta. Trevisan si pone costantemente in posizione di inferiorità rispetto al mondo e ai lettori, ci invita a ridere con lui e di lui: all’interno di Works sono possibili frasi come “Guardare nell’abisso della mia stupidità mi tolse il respiro”. La forma a cui l’autore ricorre è dunque, prima di tutto, quella del romanzo picaresco: il protagonista riesce sempre a cavarsela con una trovata; le condizioni svantaggiose di partenza sono bilanciate anzitutto dalla sua straordinaria intelligenza, ma anche dalla sua capacità di cogliere le occasioni e di non disdegnare i metodi propri, per l’appunto, del picaro: si pensi per esempio ai capitoli dedicati, nell’elenco dei lavori, allo spaccio di stupefacenti, o all’episodio della vendetta sul Prete Mancato (“Tutto nacque dall’improvvisazione del momento, da un incrocio dovuto al caso, l’uomo giusto, io, e l’uomo sbagliato, lui, nello stesso posto alla stessa ora. E il lampione naturalmente. […] uno non sa mai quando e dove e se si presenterà mai l’occasione di saldare i conti perciò, quando detta occasione si presenta, è bene non lasciarsela sfuggire”).

Niente di tutto questo è pensabile nell’universo di Falco: al contrario, la posizione in cui si pone il protagonista di Ipotesi di una sconfitta rispetto al mondo circostante è di superiorità. Non è il protagonista ad essere inadeguato ma il mondo, e più in particolare l’Italia, con le sue piccole e grandi miserie (per esempio: “Rinunciare era un atto di presunzione, di orgoglioso distacco, il compiacimento di me e delle mie vere o presunte qualità, che potevano dispensarmi dagli studi universitari”; “Ma non avevo un problema con l’alcol o l’hashish: ne avevo uno con l’Italia”; “Avrei pubblicato tre libri nell’arco di quindici mesi. I medici avevano ragione, le mie risorse progettuali erano davvero limitate, quando ti rifugi così nella scrittura, dubiti della vita. […] Soffrivo, dall’età di diciassette anni, di una nevrosi politica ed economica, più che individuale”). La formazione del protagonista di Ipotesi di una sconfitta — che ha luogo attraverso l’opposizione, il rifiuto — diventa così funzionale al recupero di una postura umanistica: che espone la sconfitta di un individuo per trascenderlo e denunciarne la sopraffazione da parte di una società ingiusta.

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