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Sulla gig economy

intervista a Riccardo Staglianò

Intervista a Riccardo Staglianò sulla gig economy 640x315Le recenti mobilitazioni dei ciclofattorini in diverse città d’Italia hanno attirato l’attenzione dei media e della politica sulle problematiche della gig economy. Del tema Pandora ha parlato in diverse occasioni con articoli e interviste, inquadrandolo nella questione più generale della digitalizzazione e dei suoi rischi. Riccardo Staglianò, giornalista de La Repubblica, si è a lungo occupato di questi temi, che ha affrontato nel suo recente libro Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri (da noi recensito su questo sito) e anche nel precedente Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, entrambi editi da Einaudi. Abbiamo deciso di intervistarlo per approfondire il complesso di questioni che lega gig economy, sharing economy, automazione e digitalizzazione, polarizzazione sociale e concentrazione delle aziende del settore tecnologico. L’intervista è a cura di Giacomo Bottos, Raffaele Danna e Luca Picotti.

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Nel discorso pubblico, per parlare di alcune delle recenti trasformazioni economiche, si impiega spesso il termine “sharing economy” che, nell’immaginario collettivo, viene generalmente associato ad un insieme di significati positivi. In una seconda fase si è invece iniziato a parlare di “gig economy”, termine che viene generalmente usato con un’accezione critica, associato a lavori malpagati, scarsità di tutele e sfruttamento. Secondo lei esiste una reale distinzione tra “sharing economy” e “gig economy”? Insomma, esiste un “volto buono” e uno negativo delle trasformazioni che stiamo vivendo, o viceversa si tratta di processi complessivamente negativi, nei quali la retorica della condivisione nasconde una realtà diversa?

Riccardo Staglianò: Sì, esiste. Provo a tagliare con l’accetta. Il car sharing è una cosa buona: emancipa dal bisogno del possesso di un’auto e riduce l’impatto ambientale. Uber una cosa molto meno buona: punisce e disciplina gli autisti, fingendo che siano totalmente autonomi ed è una campionessa olimpionica di elusione fiscale. Però, nel “vendere” il prodotto gig economy le migliori menti del marketing della Silicon Valley l’hanno camuffato con il ben più desiderabile appellativo di sharing economy. È un trucco ricattatorio: chi è contro la condivisione? Solo un egoista, una cattiva persona. Purtroppo, spesso, le cattive persone sono gli stessi fondatori delle piattaforme.

 

Nel suo ultimo libro “Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri”, pubblicato da Einaudi, lei legge le trasformazioni più recenti inserendole in un quadro storico di trasformazione che ha inizio con gli anni Ottanta. Quali sono le diverse fasi di questo processo di lungo periodo, che porta, tra i suoi effetti, alla svalorizzazione del lavoro?

Riccardo Staglianò: Non pretendo che il mio idiosincratico riassunto di quarant’anni di smottamento del valore del lavoro sia ecumenicamente accettato. Io individuo tre date spartiacque. Il 1979 che segna l’inizio della globalizzazione, con un sistematico recupero di redditività delle industrie al prezzo di tagli al lavoro. Il 2000, ovvero lo scoppio della bolla della new economy e l’irresponsabile reazione che ne è seguita: invece di fare autocritica e capire cosa era andato storto, la soluzione trovata è di creare un web 2.0 la cui geniale intuizione è stata di far lavorare gratis gli utenti. Infine il 2008…

 

Qual è stato il ruolo della crisi economica del 2007-2008 nel creare i presupposti per l’affermarsi e il diffondersi dell’economia dei lavoretti?

Riccardo Staglianò: La crisi è stata la grande levatrice dell’economia delle piattaforme. Ha sdoganato il bisogno di arrotondare. E ha fornito una pseudo-soluzione tecnologica a un problema che la tecnologia aveva largamente contribuito a creare. Otto anni prima Facebook monetizzava la nostra vita nella sua dimensione sociale, di svago. Oggi il cazzeggio era diventato un lusso che non potevamo più permetterci e così le piattaforme fornivano direttamente una maniera per arrivare a fine mese. A patto, però, di vivere come se non ci fosse un domani. Perché il domani della gig economy, se diventerà una modalità dominante, sarà più povero per la società nel suo complesso.

 

Tecnologia e diseguaglianze economiche

Un fattore che ha molto aiutato il diffondersi di queste nuove forme economiche è stato un diffuso atteggiamento favorevole verso la tecnologia e l’innovazione, che spesso ha portato ad un’accettazione delle nuove trasformazioni che prescindeva da un vaglio critico. Quale ritiene dovrebbe essere l’atteggiamento corretto nei confronti del progresso tecnologico?

Riccardo Staglianò: Banalmente un atteggiamento adulto. Se un importante politico italiano di sinistra va nella Silicon Valley, gli presentano il fondatore di Airbnb e ne rimane abbacinato, viene da ricordargli che Airbnb ha pagato 83 mila euro di tasse in Francia nel 2014 contro 3,5 miliardi di euro pagati dal settore alberghiero che sta attivamente distruggendo. Idem se incontri il Chief financial officer di Apple e ti sembra di aver visto la Madonna. Lì, la domanda politica sarebbe stata: com’è che in Irlanda pagavate soltanto lo 0,005% di tasse? Cito questo caso solo perché è quello che mi ferisce di più, ma molti altri politici subiscono la medesima fascinazione adolescenziale per tutto quel che viene dalla California.

 

L’atteggiamento a cui abbiamo accennato, insieme all’altro, opposto e speculare, di rifiuto aprioristico, è anche da ricollegare ad una conoscenza spesso sommaria e superficiale dei processi in corso e all’insufficiente attenzione che spesso è stata dedicata loro nel dibattito pubblico. Ritiene che questo sia un problema rilevante? Come si potrebbe cambiare la situazione?

Riccardo Staglianò: Certo che è rilevante. Non è un caso che, generalmente, più uno ha studiato il fenomeno e se ne occupa da molto tempo, più tende a capire gli effetti collaterali negativi che con gli anni esso ha evidenziato. Penso, tra tutti, a gente come Jaron Lanier, tra i padri della realtà virtuale, che è diventato uno dei critici più forti del lato oscuro della forza digitale. Per non dire di Tristan Harris, ex ingegnere Google. A Martin Ford, imprenditore informatico che mette in guardia dal furto di lavoro da parte dei robot. Ma la lista sarebbe troppo lunga. Purtroppo da noi siamo ancora nella fase dell’incantamento.

 

L’“economia dei lavoretti” va letta congiuntamente ad un insieme complesso di cambiamenti, di cui fanno parte processi come l’automazione e la robotizzazione, la quarta rivoluzione industriale, il crescente diffondersi dei Big Data, il processo di concentrazione delle principali aziende tecnologiche. In uno sguardo d’insieme, in che modo tutto questo sta cambiando la nostra economia e il volto della globalizzazione?

Riccardo Staglianò: A questo mi sono dedicato nel prequel di Lavoretti, ovvero Al posto tuo. Detto brutalmente, tutto ciò ci sta consegnando un mondo in cui è già possibile, e lo sarà sempre di più, produrre immense quantità di ricchezza con pochissimi lavoratori. Una ricetta per approfondire ulteriormente le diseguaglianze economiche, problema numero uno del mondo in cui viviamo.

 

Il mercato occidentale dell’informatica e della tecnologia appare sempre più dominato da un numero ristretto di aziende americane (in primo luogo ovviamente Google, Facebook, Amazon, Microsoft, Apple) che operano in un sistema, per lo meno, oligopolistico. Questa situazione può essere considerata come un fallimento del mercato? C’è un deficit di regolamentazione del settore? Vi sono altri fattori? Come è stato possibile lasciare che una tale massa di capitale, e di potere, si concentrasse nelle mani di così poche aziende? Come mai questo stato di cose non genera una reazione?

Riccardo Staglianò: No, può essere considerato come un fallimento della politica piuttosto che del mercato. Il mercato, al di là delle sue descrizioni nei manuali di economia, tende ai monopoli. Gli Stati però possono intervenire per evitarli o regolamentarli. È sempre successo, anche e soprattutto negli Stati Uniti dire. Quando Standard Oil o At&t stavano diventando troppo grandi per il bene dell’economia sono state spezzettate. Perché non farlo con Google e gli altri? La recente multa della UE contro l’abuso di posizione dominante su Android va in questa direzione.

 

La necessità di invertire la rotta

Un problema molto rilevante in relazione alle piattaforme digitali, ma non solo, è quello dell’elusione fiscale. Oltre ad ogni considerazione di giustizia, gli effetti economici di queste pratiche sono molto pesanti: il mancato contributo in termini di gettito delle piattaforme rischia di mettere a dura prova la sostenibilità del welfare e inoltre rende più complesso ad attori pubblici e istituzioni gestire gli effetti di questa transizione. Come è possibile agire, concretamente e con efficacia, su questo versante? E quali sono gli attori che possono agire? Occorre un’azione a livello europeo? È possibile fare qualcosa anche sul piano nazionale? Che lezioni si possono trarre dal tentativo fallito di introdurre la web tax in Italia?

Riccardo Staglianò: A questo ho già accennato. Questo problema è il proverbiale elefante nella stanza. E non c’entra neanche la faglia destra/sinistra se già un anno fa Philip Hammond, conservatore ministro delle finanze britannico, avvisava che se non si fosse messo mano alla gig economy il Paese si sarebbe trovato con un ammanco di 3,5 miliardi di sterline di tasse non riscosse. Quanto alla web tax italiana, ci sono stati molti tentennamenti. Il governo Renzi era contrario, poi ci ha ripensato e quello Gentiloni ha provato a rimediare, ma il tempo non è bastato. Aspettiamo fiduciosi.

 

Il grande squilibrio di potere che si crea tra piattaforme digitali e protagonisti dell’economia tecnologica da un lato, e lavoratori e cittadini dall’altro, sembra rendere complicata l’organizzazione di forme di mobilitazione in grado di ottenere cambiamenti strutturali. Eppure abbiamo assistito ad alcuni risultati significativi, come ad esempio nel caso – che ha ricevuto grande attenzione mediatica – dei rider. Che indicazioni si possono trarre da queste esperienze? È possibile bilanciare questa sproporzione? Quale può essere il ruolo delle istituzioni e della politica?

Riccardo Staglianò: Di nuovo, guardare fuori dai confini patri induce all’ottimismo. In Gran Bretagna si assiste a nuove forme sindacali dal basso che hanno ottenuto vari successi. In Spagna i giudici hanno smentito le pretese più ridicole di certe piattaforme. In Germania le stesse aziende che da noi pagano i fattorini a cottimo lì li assumono. Brandelli di speranza arrivano dalle rivendicazioni dei ciclofattorini che hanno portato a pionieristiche iniziative cittadine a ad alcuni promettenti incontri al nuovo ministero del lavoro.

 

Luciano Gallino scriveva agli inizi degli anni 2000 che l’idea di rendere permanente, quale elemento naturale dell’economia globalizzata, un tasso elevato di lavori temporanei/precari è pericolosa, data l’insicurezza per il destino individuale e l’angoscia collettiva che ne derivano. Il mondo del lavoro, con il nuovo modello di business della gig economy e più in generale con l’imperativo della flessibilità, sta andando in questa direzione? O è possibile immaginare il ritorno di forme di maggiore stabilità lavorativa, che permettano di progettare il futuro in una situazione di più solida stabilità esistenziale?

Riccardo Staglianò: Il lavoro intermediato dalle piattaforme è il più flessibile che si possa immaginare. Al fondatore di Crowdflower scappò detto, qualche tempo fa con malcelato entusiasmo: «Da noi è possibile assumere uno in dieci minuti e licenziarlo 10 minuti dopo». Maggiore stabilità? Sì, a patto che si faccia sul serio per rendere più vantaggiosi i contratti a tempo indeterminato rispetto a quelli a tempo.

 

In conclusione, quali ritiene che potrebbero essere le proposte da mettere in campo per evitare che le tendenze negative evidenziate si dispieghino fino in fondo? È possibile invertire la rotta?

Riccardo Staglianò: Sì, si può e si deve, se non vogliamo arrenderci a un futuro di stenti, con lavoratori alla spina, disattivati perché il punteggio che ottengono è al di sotto delle aspettative della piattaforma. Per farlo bisogna intanto avere consapevolezza dei rischi, compito che mi era molto chiaro scrivendo il libro. Poi smettere di credere che la tecnologia sia inesorabile come la calamità naturali. E infine rimettere al centro dell’agenda politica il lavoro, non più dal punto di vista delle imprese ma da quello troppo a lungo negletto dei lavoratori.

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