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intrasformazione

Alla ricerca della Rivoluzione nella società di massa

di Tommaso Baris

socdimas2Dopo aver dato alle stampe nel 2012 Vita e pensieri di Antonio Gramsci, prima biografia sul leader comunista ad avvalersi delle lettere tra Gramsci e i suoi interlocutori nel periodo carcerario raccolte nel corso degli ultimi anni dalla Fondazione Gramsci di Roma, Giuseppe Vacca torna ancora una volta sul politico sardo, esaminando però questa volta soprattutto la formazione e l’articolazione del suo pensiero politico.

Il suo ultimo saggio, Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Gramsci, apparso quest’anno, sempre per la casa editrice Einaudi, è infatti una riflessione sulle categorie di analisi ed intervento politico elaborate dal dirigente comunista, dalla sua ascesa alla guida del Pcd’I sino alla riflessione elaborata all’interno del carcere fascista. Riflessione che il dirigente comunista portò avanti nonostante le condizioni di grandi difficoltà materiali prima, e poi, progressivamente, anche di salute, via via più gravi, in cui si trovò ad operare, essendo sottoposto ad un duro regime carcerario impostogli dal fascismo. Si tratta di un dato da non dimenticare, che complicò non di poco lo stesso lavoro di stesura delle riflessioni e note raccolte nei Quaderni e che si attenuò soltanto nell’ultima fase della sua vita dinanzi ad un evidente peggioramento delle condizioni di salute che portarono di lì a poco Gramsci alla morte.

La difficile situazione generale non va mai dimenticato, incidendo non poco sul carattere frammentario e fluido del lavoro gramsciano, frutto anche della condizione di prigioniero politico del fascismo in cui l’autore si trovava.

Il nuovo lavoro di Vacca, pur profondamente diverso nell’impostazione dalla biografia del 2012, conserva una continuità evidente con il precedente volume, riscontrabile nel mantenimento di un metodo rigorosamente filologico di avvicinamento ai testi gramsciani. Da questo punto di vista risalta anche l’attenzione alla più recente riflessione storiografica sul giovane Gramsci e la particolare insistenza sulla collocazione storico-temporale dei testi gramsciani, letti ed interpretati come strumenti insieme di analisi ma anche di battaglia politica, riprendendo il più volte ricordato invito di Togliatti a pensare a Gramsci per quel che lui stesso aveva scelto di essere, cioè un dirigente politico rivoluzionario del movimento operaio e non un mero e semplice operatore culturale.

In questo quadro metodologico, l’Introduzione del volume, dedicata agli Studi gramsciani oggi in Italia, non appare tanto la riproposizione di una semplice rassegna bibliografica, ma si presenta invece come una sorta di irrinunciabile punto della situazione per chi voglia approcciarsi a Gramsci in maniera scientifica e filologicamente avvertita. Vacca torna infatti sulla centralità dell’edizione critica dei Quaderni di Gerratana, strumento indispensabile per iniziare a lavorare diacronicamente su quei testi, ma anche sottolinea al contempo la necessità di superarla, sia nel senso di meglio definire la cronologia della stesura dei testi al fine di confrontarne le variazioni, sia, su un altro versante, al fine di ritornare più puntualmente su tutto il lavoro svolto da Gramsci in carcere per leggerlo in chiave unitaria e non separata.

In questa prospettiva il lavoro di progressiva pubblicazione della Edizione Nazionale degli scritti gramsciani appare sempre più l’ulteriore e cruciale passaggio per tornare a riflettere sulla formazione ed elaborazione politica del pensatore sardo, come dimostrano alcuni dei volumi già usciti. In particolare proprio la recente pubblicazione dei Quaderni di traduzioni, tralasciata a suo tempo da Gerratana, ci mostra come quel lavoro fosse strettamente correlato alla riflessione politica del leader comunista. In Gramsci il ritorno a Marx in carcere passava infatti per la rilettura e traduzione dal tedesco di alcuni scritti importanti scritti del pensatore tedesco, proprio “per rendersi conto della correlazione tra i testi prescelti e i cardini della “filosofia della praxis” che andava elaborando” (p. 16). Ne deriva da questa impostazione una ulteriore stringente affinità tra i due lavori dedicati a Gramsci da Vacca, tanto da apparire all’autore come il frutto di “un unico programma di ricerca” (p. VII): il politico sardo nei due saggi appare infatti sempre al contempo come un teorico della politica le cui riflessioni impegnano il dirigente politico “pratico”, essendo queste due dimensioni, quella teorica e quella pratico- politica, ovviamente intrecciate ed unificante nella sua persona.

Il lavoro di Vacca parte allora, come del resto direttamente rivendicato nell’Introduzione, dall’impossibilità, filologica e metodologica prima di tutto, di liberare il pensiero di Gramsci dalla relazione con il mondo della politica, che ne fu anzi il contesto e la matrice. Lo stesso interesse per la linguistica, ricorda Vacca citando soprattutto i lavori di Giancarlo Schirru e Alessandro Carlucci1, nasceva da una esigenza politica e non genericamente culturale, essendo il problema della lingua non solo intimamente legato a quello delle nazionalità, ma anche e soprattutto collegandosi con il rovello di Lenin, fatto proprio da Gramsci nel giugno del 1923, sul come tradurre “in linguaggio storico nazionale” la parola d’ordine del “governo operaio e contadino” lanciata in quel periodo dal Komintern (p. 18), per limitarsi a citare uno dei tanti esempi possibili della relazione tra riflessione culturale e azione politica.

Alla luce di questa ribadita consapevolezza, il lavoro di Vacca si ripropone di tornare sulla genesi, lo sviluppo e le relazioni delle principali categorie di riflessioni gramsciane, ricollocandole nel loro contesto storico e leggendo come strumenti insieme teorici ma anche di azione pratica. Stabilite queste premesse, non può certo sorprendere la scelta tematica operata dall’autore. I primi due capitoli sono dedicati al concetto di “egemonia” e di “rivoluzione passiva”, mentre gli ultimi due, più brevi, a quelli della questione del “soggetto” nella “filosofia della praxis” e della relazione tra egemonia e democrazia. Si tratta di concetti chiave, vere e proprie architravi, del pensiero gramsciano, ed anche per questo oggetto di non poche distorsione, non ultima quella di Bobbio, contro cui Vacca concentra la sua critica contestandone il tentativo di riassorbire Gramsci all’interno della tradizione del pensiero liberale2.

Nell’approcciare il tema della genesi e dello sviluppo del concetto di egemonia, Vacca opera una puntuale ricostruzione storica della biografia di Gramsci, ricordando il valore dirimente della Grande Guerra e della Rivoluzione d’Ottobre nel suo pensiero politico, anche sulla scia dell’importante lavoro sul tema di Leonardo Rapone3. La natura di massa e totale del conflitto accelerano i cambiamenti delle società coinvolte nella guerra e le masse popolari mobilitate, a livello mondiale, assumono un ruolo nuovo ed un protagonismo inedito che, in contraddizione con la scolastica della tradizione socialista della II Internazionale, pongono in primo piano la questione della presa rivoluzionaria del potere. Il bolscevismo è visto da Gramsci in quest’ottica ed è letto come il tentativo della classe operaia di farsi Stato, svolgendo ed esercitando una funzione di guida e attivazione anche del mondo contadino per creare una alternativa al sistema capitalistico. Nel quadro di questa adesione al bolscevismo, opportunamente Vacca ricorda però come la lettura del conflitto mondiale in Gramsci non si leghi all’adesione alla concezione dell’imperialismo di Lenin ma appaia invece, per lui, come il frutto di un insanabile contrastato tra la dimensione nazionale in cui agiscono gli Stati e la dimensione strutturalmente connessa in cui invece si costruisce il processo economico mondiale, ponendo sempre in sollecitazione la dimensione “nazionale” su cui si muove lo stato ottocentesco con quella “internazionale” del sviluppo economico capitalistico, visione che spiega anche l’attenzione iniziale dell’allora giovane giornalista socialista per il presidente americano Wilson, la cui proposta politica all’indomani della prima guerra mondiale sembra cogliere questo nesso cruciale.

L’adesione alla Rivoluzione d’Ottobre di Gramsci si caratterizza quindi per l’idea che quell’esperienza abbia un carattere universale e possa fondare su altre basi una unificazione mondiale anche politica, a partire proprio dall’integrazione economica internazionale in atto. Nondimeno in un processo pensato come possibile ma mai meccanicamente dato, si pone il problema di riformulare e tradurre nei contesti nazionali l’esperienza bolscevica sempre mantenendo però una prospettiva internazionale, colta quale elemento essenziale del momento politico: è questo dunque il quadro della nascita del concetto di egemonia, che significativamente, nota Vacca, appare già in uno scritto gramsciano del 1920 La Russia, potenza mondiale, vale a dire in una analisi di carattere geopolitico (p. 31). Viene poi sviluppato a partire dall’esperienza bolscevica ed attingendo alla riflessione politica di Lenin sulla necessità di una alleanza con le masse contadine da parte della classe operaia, basata sulla disponibilità di concessione economiche che non intaccassero però la questione della guida politica da parte del partito operaio.

Con grande attenzione filologica, Vacca dimostra invece come Gramsci pensasse, pur partendo dalla riflessione di Lenin, ad uno Stato operaio e contadino insieme, privilegiando la dimensione dell’influenza rispetto a quella della coercizione sul mondo contadino, la cui mobilitazione veniva considerata indispensabile per la realizzazione di una “rivoluzione popolare che reimmettesse l’Italia nel circuito europeo da cui il fascismo l’aveva isolata” (p. 37). La riflessione gramsciana si sviluppa quindi all’interno dei problemi con cui si stava confrontando l’Internazionale comunista spentasi l’idea di una rapida estensione del processo rivoluzionario nell’Europa occidentale: la nuova organizzazione che doveva organizzizare il partito mondiale della rivoluzione si trovò infatti a confrontarsi il persistere del legame delle masse popolari con i partiti socialisti e i sindacati riformisti, aprendo un dibattito sulla questione della ripetibilità dell’Ottobre, e quindi della possibilità di una fase di “transizione” verso la presa del potere, e conseguentemente, delle parole d’ordine da usare in quella prospettiva, tanto più dinanzi all’affermarsi della reazione fascista che vince in Italia nel 1922 ma attraversa l’intera Europa, specie centro-orientale, per tutto il decennio.

Questo scenario in cui Vacca colloca l’inizio della riflessione sull’egemonia di Gramsci ci aiuta a situarla dentro l’esperienza storica del primo comunismo terzointernazionalista, ma l’autore evidenzia chiaramente come, partendo dal problema della “traducibilità” dell’esperienza dell’Ottobre, si profili in Gramsci un percorso di superamento delle coordinate ideologiche e culturali maggioritarie all’interno del movimento bolscevico. L’articolazione e la complessità delle società industrializzate di massa, il ruolo che i corpi intermedi dello Stato e della stessa società civile svolgono nella vita sociale e politica, il loro essersi attivatisi in funzione antirivoluzionaria con il fascismo in Italia, spingono Gramsci, alla fine del 1926, a rivelare i limiti del concetto da lui stesso proposto, sulla scia di Lenin, di “egemonia del proletariato”, analizzando la questione della relazione con le masse contadine e gli strati politicamente più attivi delle classe medie, gli intellettuali. Sono queste le questioni abbozzate nel noto saggio incompiuto “Alcuni temi della questione meridionale”, letto da Vacca soprattutto come primo momento di confronto con il problema degli intellettuali, interpretati come la chiave per comprendere la passività e l’uso reazionario delle masse contadine del Mezzogiorno. In questo senso la riflessione di Gramsci appare a Vacca trascendere la specificità dell’Italia meridionale per assumere un carattere più generale, paradigmatico del nesso tra egemonia culturale ed egemonia politica. Non solo dunque il tema della relazione tra classe operaia e mondo contadino ma anche quella con gli intellettuali, da pensarsi in senso lato e non identificabili con le figure umanistiche o giornalistiche. Il tema dell’egemonia culturale si lega inoltre sia alla riflessione sui compiti dei partiti comunisti a livello nazionale che all’analisi della situazione sovietica, rispetto alla quale comincia a farsi strada in Gramsci - siamo ormai nell’ottobre 1926, al tempo della nota lettera di monito circa le gravi e dannose rotture all’interno del gruppo dirigente bolscevico storico - l’idea non solo di un ritorno al “nazionalismo russo” ma anche di un deficit creativo della leadership russa nel suo complesso, che non si pone il problema di rendere espansivo il potere sovietico attraverso appunto una azione egemonica, di tipo direttivo-culturale, e non solo coercitivo-repressiva nei confronti del mondo contadino e non solo.

L’arresto da parte della polizia fascista, provocando una inattività politica pratica, viene allora usato da Gramsci per sviluppare la sua riflessione a livello teorico che, senza diventare mai mero esercizio intellettuale, tende tuttavia ad assumere una portata più generale. Vacca insiste su questo punto, notando come, nella riflessione sviluppata nei “Quaderni”, il “concetto di egemonia non è più coniugato con quello di proletariato, ma si riferisce alla conquista e all’esercizio del potere da parte di qualunque classe o gruppo sociale” (pp. 66-67). Sottolinea altresì come il riconoscimento a Lenin del merito dell’introduzione della “dottrina dell’egemonia” implichi contemporaneamente il superamento del leninismo a suo avviso confermato dalla centralità del concetto di “egemonia civile”, (termine però che, come nota Guido Liguori in un suo recente intervento, nei Quaderni compare solo due volte)4. In altre parole per Gramsci a questo punto “è la politica come tale, tutta la politica che si declina come lotta per l’egemonia” (p. 75).

È in questo quadro concettuale che si sviluppa il concetto di “rivoluzione passiva” che ha come sfondo la consapevolezza della politica come lotta per l’egemonia. Si tratta dunque di capire come questa, la lotta per l’egemonia, si sia declinata concretamente in determinati passaggi storici, dal momento che nella visione gramsciana, per Vacca, l’“egemonia”, la “rivoluzione passiva” e l’idea dello Stato “come impalcatura di ‘un certo equilibrio di compromesso’ fra le classi e i gruppi sociali” (p. 97) vanno insieme. In questa prospettiva prima la riflessione sulla restaurazione europea e poi quella sul Risorgimento italiano sono funzionali a dimostrare come sia maturata la capacità egemonica dei soggetti vincitori, impostisi non solo e soltanto per l’uso della forza ma anche per la capacità di assorbimento e disgregazione degli sconfitti, ma sempre all’interno di una visione dialettica in cui le classi egemoni, per essere vincitrici devono comunque incorporare al proprio interno alcune esigenze sociali e politiche rappresentate da quelle sconfitte. Proprio la mobilità della relazione è funzionale in Gramsci a formulare in termini analitici la sconfitta della classi subalterne. Questo significa però anche ricordarne il carattere storicamente determinato e quindi reversibile. La riflessione di Gramsci dunque, come nota l’autore, è pensata in relazione alle classi dominate, al fine di “renderle più consapevoli delle ragioni della loro soggezione e a prepararne il riscatto” (p. 99). Questi motivi rendono meno convincente la successiva proposta interpretativa di Vacca che legge la riflessione gramsciana su queste due categorie concettuali via via meno legata all’idea della lotta di classe, la quale ci pare in realtà, nella riflessione gramsciana, assumere casomai sempre più consapevolezza del carattere più articolato e complesso che la questione rivoluzionaria, intesa come ribaltamento del rapporto dominanti-dominati nella società capitalistica moderna, inevitabilmente comportava rispetto alla riflessione sviluppata sino ad allora dal movimento operaio e socialista nelle sue varie forme.

La stessa analisi degli anni Trenta e il confronto tra fascismo, americanismo e Unione Sovietica sembra invece alimentarsi dall’idea che nessun regime possa in qualche modo cancellare le proprie interne contraddizioni sociali e che queste siano destinate a riemergere anche dinanzi alla pretesa dei diversi “totalitarismi” di aver cancellato i differenti interessi sociali dalla scena della rappresentanza politica. Tale pretesa non può che rivelarsi in ultima istanza sempre infondata e proprio questa consapevolezza, unita alla riproposizione del tema del superamento della frattura considerata persistente tra governanti-governati, tra dirigenti-diretti, mi pare resti un nocciolo duro del pensiero gramsciano, alla luce del quale si sottolineano le fragilità intrinseche del dirigismo fascista, connaturate alla sua natura di regime di classe, la potenza del modello americano incentrato sul fordismo ma anche le resistenze sociali che quel sistema ingenerava, nonché il perdurare dei limiti della Russia sovietica la cui ribadita natura di cesarismo progressivo per certi versi non aveva affatto risolto i limiti, internazionali ed interni, di capacità egemonica, ponendola in una posizione subalterna rispetto a nuovi scenari geopolitici maturati nel corso del decennio.

Lo stesso programma di ricerca sulla “filosofia della praxis” e il ritorno a Marx che Gramsci cerca di operare in carcere, letti da Vacca come tentativi di uscire dai limiti sia della tradizione marxista di stampo secondo-internazionalista che dal dogmatismo dottrinario della Terza, cercano di rispondere al problema della costruzione del “soggetto” rivoluzionario, del passaggio dall’analisi meramente sociologica e descrittiva della composizione della società alla creazione di una organismo politico collettivo capace appunto di superare il presunto naturalismo dell’ineguaglianza tipico del liberalismo. Significativamente lo stesso Vacca insiste sulla importanza per Gramsci della Prefazione del 1859 alla Critica dell’economia politica di Marx nella sua rivisitazione del marxismo, giocata in chiave critica contro Croce e la sua “filosofia della libertà”, considerata funzionale in realtà alla difesa dell’individualismo economico proprio della tradizione liberale. Revisione del marxismo scolastico, centralità del partito nella formazione di un nuovo tipo di società, che non può che passare per la creazione di una propria “una visione generale del mondo, d’una teoria generale della politica e della storia”, sono tutti elementi che contraddicono l’idea di un progressivo disancoramento dall’idea del conflitto sociale come motore del processo storico in nome della necessità di evitare una crisi di carattere e natura distruttiva tra le diverse parti sociali.

Vacca invece insiste su questo punto, collocandolo dentro l’espansione del fordismo in Europa e nel mondo e quindi dentro la necessità di governare con strumenti nuovi società industrializzate di massa. In questa prospettiva, come scrive l’autore, “l’“americanizzazione” impone alle economie nazionali europee una prospettiva produttivistica , alla quale sono interessante tanto la borghesia quanto il proletariato industriale”, (p. 221) anche se ciò comporta declinare in termini originali il processo in atto e il passaggio all’economia mista. Nella lettura di Gramsci proposta da Vacca tale fase diventa storicamente cruciale: pone infatti anche al partito comunista, se capace di esprimere e formare la “volontà collettiva” delle classe popolari nella contesa per l’egemonia, il problema di farsi classe dirigente, di assumere cioè la direzione della nazione per ripensare e governare il problema dello sviluppo insieme agli altri partiti espressione delle varie classi sociali. Ne deriva nella lettura di Vacca la convinzione che, secondo Gramsci, il compito del partito comunista fosse diventato, teoricamente e in prospettiva, quello di raccogliere e selezionare le spinte delle masse, il cui carattere rivoluzionario, per esprimersi necessitava della trasformazione in “un programma di nuovi ordinamenti economici e statali”, senza passare quindi più per una distruzione del “regime parlamentare” ma per una “una sua radicale riforma e la creazione di nuovi partiti, rappresentativi della nuova ‘situazione’ e dei nuovi ‘rapporti di forza’” (pp. 219-220). Da qui la rivendicazione del carattere democratico del pensiero gramsciano sia per la natura intrinsecamente plurale della dimensione dell’egemonia che per l’esplicita trasposizione sul piano politico dell’assunzione di una funzione dirigente del partito comunista in collaborazione con altre forze politiche rappresentative di interessi sociali plurimi.

Tale riflessione, pur non mancando spunti interpretabili in questa direzione nei testi, ci sembra però assumere come quadro di riferimento complessivo processi sociali e politici sviluppatesi dopo la nuova guerra mondiale, nel lungo secondo dopoguerra. Gli esiti e risultati finali maturati dalla fine degli anni Quaranta apparivano in verità alquanto incerti e indecifrabili nella seconda metà degli anni Trenta, anche se ovviamente erano intuibili alcune linee di tendenza la cui affermazione era però lungi dall’apparire certa e sicura. Spunti e suggestioni, mutati di quadro e contesto, rischiano quindi di definirsi retrospettivamente in maniera certo più chiara ma anche più unilaterale di quanto il loro carattere frammentario e oscillante originariamente consentisse. In altre parole c’è il rischio di riferire a Gramsci il quadro politico e sociale nato dal secondo conflitto mondiale in cui invece si ritrovò ad operare politicamente Togliatti.

In verità lo stesso Vacca sembra attenuare la radicalità della sua proposta interpretativa finale tornando nella pagine conclusive sulla persistenza in Gramsci di un universalismo comunista in opposizione a quello liberale. Il confronto con questo versante manterrebbe l’idea di un suo superamento e la creazione di una democrazia differente da quella storicamente creata dalla società borghese. Come ricordato dallo stesso autore nel già citato Vita e pensiero di Antonio Gramsci, nonostante il comunista sardo avesse maturato un profondo dissenso dalla politica di Stalin tra il 1930 e il 1935, e i Quaderni stessi costituiscano “l’analisi forse più acuta dei limiti del bolscevismo, dei caratteri dell’Urss staliniana e della sua politica internazionale”, Gramsci “non mise mai in forse la sua lealtà verso il paese dei Soviet, né generò mai un distacco dal movimento comunista; al contrario, alimentò una ricerca tesa ma disincantata di una profonda revisione, che avrebbe dovuto costituire la bussola della sua lotta per mutarne gli indirizzi, una volta conquistata la libertà”5.

Al di là della illusorietà di una simile prospettiva, resta dunque il fatto della “connessione sentimentale” gramsciana con il movimento comunista, tanto più nel periodo della svolta dei Fronti popolari, interpretata in qualche maniera dal dirigente sardo come un avvicinamento, per quanto insufficiente, alle sue posizioni. Rimane insomma la sensazione che Gramsci si stesse muovendo teoricamente nel tentativo di ripensare la relazione tra socialismo e democrazia in un direzione nuova, alla ricerca di un innervamento della seconda nel primo che non si esaurisse nella riproposizione della democrazia liberale ma realizzasse l’“arrovesciamento” dei rapporti sociali in una nuova forma di egemonia delle classi un tempo dominate finalmente pronte a svolgere una funzione di direzione e guida.


Note
1 G. Schirru, I “Quaderni del carcere” e il dibattito su lingua e nazionalità nel socialismo internazionale, in G. Vacca (a cura di), Gramsci e il Novecento, vol. II, in «Annali della Fondazione Istituto Gramsci», Carocci, Roma 1999, pp. 53-61; Id., Filosofia del linguaggio e filosofia della prassi, in F. Giasi (a cura di), Gramsci nel suo tempo, Roma, Carocci, 2008, vol. II, pp. 767-792; A. Carlucci, Gramsci and Languages. Unification, Diversity, Hegemony, Brill, Leiden-Boston, 2013.
2 A partire dal noto saggio: N. Bobbio, Gramsci e la concezione della società civile, in P. Rossi (a cura di), Gramsci e la cultura contemporanea, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 75-100.
3 Cfr. L. Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo (1914-1919), Carocci, Roma 2012.
4 Cfr. G. Liguori, “Gramsci conteso”: vent’anni dopo, relazione al convegno internazionale Egemonia e modernità. Il pensiero di Gramsci in Italia e nella cultura contemporanea (Roma, 18-20 maggio).
5 G. Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci, Einaudi, Torino 2012, pp. 312-313.

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