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7. Dall’espansione fordista alla rivoluzione microelettronica

Nell’epoca che va dalla fine della prima guerra mondiale alla fine degli anni Settanta, la crisi strutturale delle "spese generali" sistemiche attraverso il lavoro improduttivo, le finanze statali e l’inflazione si presentava solo come problema collaterale; era cioè limitata a crisi temporanee, oppure strutturalmente a basso livello. La causa di questo apparente superamento del problema, che fa di quest’epoca solo il periodo d’incubazione del disastro sistemico vero e assoluto, è da cercare nelle caratteristiche dell’espansione fordista. L’espansione – anch’essa un risultato della prima guerra mondiale – delle nuove industrie, con la produzione automobilistica in posizione centrale, ha coperto per più di mezzo secolo la crisi strutturale nata dalla contemporanea espansione del lavoro improduttivo.

A dir meglio, siamo qui di fronte a un intreccio paradossale di espansione simultanea del lavoro produttivo e di quello improduttivo. Da un lato, il fordismo ha mobilitato nuove masse di lavoro produttivo, in dimensioni ritenute fino ad allora impensabili; dall’altro, proprio questo sviluppo era reso possibile solo dalla repentina estensione della logistica sociale, delle condizioni infrastrutturali e così via; dunque dall’incremento del lavoro improduttivo. La sproporzione nell’espansione dei due fattori opposti ha posto più volte all’ordine del giorno il problema della crisi strutturale (soprattutto a livello delle finanze statali); ma in fin dei conti, l’espansione del lavoro improduttivo poteva ancora venir "alimentata" sul lungo periodo con l’espansione contemporanea del lavoro produttivo nelle industrie fordiste; in altre parole, la crescita assoluta della reale sostanza di valore compensava l’aumento assoluto e relativo dei settori improduttivi.

A livello fenomenologico, l’espansione fordista del lavoro produttivo e della reale sostanza-valore può essere descritta su più piani che si sovrappongono. Da una parte, l’estensione interna ed esterna della valorizzazione del capitale, e quindi della razionalità aziendale, ha aperto nuovi campi della produzione reale di plusvalore. Verso l’esterno, questa estensione è retta sul continuo coinvolgimento – menzionato già nel Manifesto comunista – di regioni della terra fino ad allora non capitalistiche nella forma capitalistica di riproduzione, e sulla connessa esportazione di capitali (un elemento importante nella teoria di Lenin, anche se accolto in forma riduttiva); lo stesso effetto verso l’interno è stato garantito dalla trasformazione di forme di riproduzione fino allora non capitalistiche (contadine, artigiane e di economia della sussistenza) in settori di valorizzazione del capitale, resa possibile dai nuovi metodi fordisti. All’opposto di quanto riteneva Rosa Luxemburg, la trasformazione di ex-"persone terze" in salariati capitalistici ha accresciuto inizialmente la creazione di plusvalore a partire dal livello di produzione, invece di rappresentare un limite proveniente dal livello di mercato e quindi di realizzazione. Infatti, insieme all’espansione della reale creazione di valore, venivano generati anche più redditi capitalistici reali.

Ma la vera espansione era dovuta alla combinazione di nuove industrie e di nuovi bisogni di massa. La semplice espansione in settori produttivi già esistenti non avrebbe mai reso possibile il secolare boom fordista, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Nella base energetica, nei carburanti fossili, il passaggio dalla macchine a vapore alimentata a carbone al motore a scoppio alimentato a petrolio ha reso possibile, in combinazione con la razionalizzazione fordista ("organizzazione scientifica del lavoro", catena di montaggio), un salto nello sviluppo sociale che ha fatto entrare nel grande consumo di massa prodotti riservati fino alla prima guerra mondiale agli strati superiori della società. Vi si sono aggiunti nuovi prodotti come radio e televisione, che fin dall’inizio sono esistiti sotto forma di produzione di massa per il consumo di massa. I prodotti di massa fordisti, tutti creati direttamente o indirettamente sulla base del petrolio, hanno condotto al capitalismo fordista con il suo consumo energetico mostruoso e dilatato fino alla demenza, e poi, dopo la seconda guerra mondiale, alla democrazia basata sul consumo energetico, che, nonostante il suo carattere storicamente effimero, ancora oggi, nei paesi centrali dell’OCSE (e nei ceti medi di tutto il mondo), viene vissuta come la normalità.

Decisiva per la riproduzione in forma di merce è, però, l’espansione della reale sostanza di valore e delle sue forme sociali di mediazione, celate dietro la fenomenologia del fordismo. Ha ovviamente una sua importanza qui il problema della famosa "caduta tendenziale del saggio di profitto" che il dibattito marxista, ormai quasi dimenticato, ha rimuginato sempre di nuovo senza risultati. La "composizione organica del capitale" (Marx) che storicamente aumenta con la crescente scientifizzazione e che nel calcolo capitalistico appare come aumento dell’intensità di capitale, cioè come aumento dei capitali necessari per ogni posto di lavoro, rimanda a un movimento in senso contrario all’interno del processo di creazione di valore (e dunque di produzione di plusvalore).

Il rapido incremento di scientifizzazione, tecnicizzazione e razionalizzazione era diventato necessario solo dopo che l’espansione del "plusvalore assoluto" tramite l’allungamento illimitato della giornata lavorativa e l’illimitato logoramento della forza-lavoro ha incontrato, nel corso del Ottocento, dei limiti naturali e sociali (movimento operaio, interventi statali). Al posto del "plusvalore assoluto" come mezzo principale di accumulazione, è subentrato il "plusvalore relativo", cioè la riduzione dei costi della riproduzione della forza-lavoro rendendo più economici i mezzi di sussistenza, il che da parte sua era reso possibile dalle scienze naturali applicate; solo il fordismo ha accelerato e generalizzato questa tendenza.

La produzione del plusvalore relativo conduce però a una contraddizione logica. Essa aumenta la quota di plusvalore per ogni forza-lavoro, ma allo stesso tempo, a causa degli effetti della razionalizzazione prodotti dallo stesso sviluppo, possono venir impiegate sempre meno forze-lavoro per ogni somma di capitale (proprio questo fa aumentare, come si è visto, i costi preliminari per ogni posto di lavoro, cioè l’intensità di capitale o la quota di capitale fisso nella "composizione organica"). Questo secondo effetto, di tendenza contraria, a lungo andare sovracompensa il primo effetto. Ciò significa che l’aumento del complessivo saggio di plusvalore relativo a ogni forza-lavoro viene ottenuta al prezzo di una caduta concomitante del saggio di profitto per ogni somma di capitale anticipato. Questo effetto può venir sovracompensato solo e unicamente se cresce la massa assoluta di forza-lavoro (produttiva!) utilizzata e dunque, insieme con la massa assoluta di plusvalore, la massa assoluta di profitto; ma ciò è possibile solo tramite un’estensione permanente del modo di produzione in quanto tale. Tale estensione è stata effettivamente realizzata, in certo misura, nella forma dell’espansione fordista.

Ma già nella dinamica dell’espansione fordista della massa assoluta di plusvalore e profitto c’è un grosso problema: questa espansione era possibile solo a causa della concomitante espansione delle condizioni infrastrutturali capitalisticamente improduttive. Una parte sempre più considerevole dei prodotti industriali fordisti supplementari veniva consumata da lavoratori improduttivi: presupposto di ciò era un cambiamento fondamentale del regime di accumulazione. Proprio per questo motivo, fin dall’inizio, il deficit spending keynesiano non era una semplice misura d’avviamento né una misura transitoria, bensì la condizione strutturale d’esistenza e lo strumento politico di regolazione dell’espansione fordista, che su scala globale è cominciata solo dopo la seconda guerra mondiale. Ma ciò significa che l’espansione fordista, insieme con il suo "miracolo economico", già non era più, in linea di principio, un grande balzo secolare dell’accumulazione autonoma del capitale, ma in parte doveva già venir alimentata ipotecando masse future di valore. Ciò che era veramente "autonomo" nell’era fordista e nel suo "modello di accumulazione", era solo il pagamento regolare degli interessi per la sempre più grande massa creditizia, tramite un reale allargamento della massa assoluta di profitto. Questa estensione della massa assoluta di profitto era tuttavia già più piccola del concomitante, inevitabile allargamento delle "spese generali" improduttive del sistema di mercato in via di totalizzazione.

Ne segue che, fin dall’inizio, l’espansione fordista non poteva essere che un processo storico circoscritto. Anzi, poiché il capitalismo e la sua razionalità aziendale avevano costituito, fino alla prima guerra mondiale, solo un segmento della riproduzione sociale, bisogna considerare l’era dell’accumulazione fordista un irripetibile stadio di passaggio nella storia interna del capitalismo, invece di presentarla come un’astratta "condizione strutturale". Il capitalismo è un processo storico di generalizzazione dei propri criteri, che deve proseguirsi su un livello sempre più alto, senza poter mai tornare indietro. Perciò è erroneo concepire la sua storia come una mera successione di strutture, senza tener conto della dinamica autodistruttiva del processo complessivo. Si potrebbe anche metterla così: nella misura in cui il capitalismo "vince", diventando la forma onnipresente di riproduzione della società (infine anche della società mondiale) – un fenomeno, questo, inaugurato solo dal fordismo -, esso dimostra anche la sua impossibilità logica. La sua vittoria assoluta deve perciò coincidere storicamente con il suo limite assoluto, anche se di ciò non vuole sentir parlare proprio la sinistra marxista, che non ha mai analizzato a fondo il problema dei settori della riproduzione (e dunque il problema della "rivoluzione terziaria"), autoconvincendosi sempre di più della capacità immanente del modo di produzione capitalistico di perpetuarsi.

L’espansione del modo di produzione capitalistico come presupposto dell’espansione fordista della massa di profitto, e quindi della compensazione della diminuzione del saggio di profitto, comporta la necessità di allargare in permanenza la produzione e, dunque, i mercati. Ma ciò ha funzionato soltanto finché gli investimenti per lo sviluppo di nuovi prodotti e per l’allargamento superavano in misura sufficiente gli investimenti finalizzati allo sviluppo di nuove procedure e alle razionalizzazioni: infatti, solo in tal modo è stata impiegata, nonostante la razionalizzazione, una massa crescente, in termini assoluti, di forza-lavoro industriale e sono stati creati crescenti redditi monetari basati sulla produzione. Solo finché questa relazione è stata mantenuta, almeno in una certa misura, si è potuta tenere in vita l’espansione fordista "a palla di neve", nonostante la presenza di una quota sproporzionata di settori improduttivi, e pagare con una reale massa di valore gli interessi sulla montagna di crediti che cresceva in concomitanza.

Questa decisiva differenziazione manca nella maggior parte dei discorsi, sia borghesi che marxisti, relativi alla "teoria della crescita": quasi sempre, l’"incremento della produttività" o la crescita della produttività sono identificati immediatamente con la crescita dei mercati, della creazione di valore e dunque dell’accumulazione del capitale. Ma questo vale solo a una condizione ben determinata e assai precaria: che l’aumento della produttività sia minore dell’allargamento dei mercati interni ed esterni che rende possibile. Il salto di produttività nell’industria automobilistica, organizzato da Henry Ford, ha fatto sì che per ogni automobile bisognava impiegare molto meno forza-lavoro; ma la susseguente trasformazione dell’automobile in un prodotto del consumo di massa ha sviluppato la produzione automobilistica in modo tale che complessivamente, nonostante la razionalizzazione e l’incremento di produttività, molto più forza-lavoro poteva venir impiegata produttivamente nell’industria automobilistica, aumentando dunque così anche la reale produzione di valore. E’ però evidente che questa condizione non esiste automaticamente e che non può permanere indefinitamente. Al contrario, è inevitabile arrivare al punto in cui il rapporto si rovescia: in presenza di mercati relativamente saturi, nuovi salti nella crescita della produttività hanno l’effetto inverso, ovvero superano l’allargamento dei mercati del lavoro e delle merci che rendono possibile.

L’intero meccanismo di compensazione doveva dunque arrestarsi a mano a mano che la forza dell’espansione fordista stava venendo meno. Riguardo all’espansione esterna, questo punto critico era già stato raggiunto poco dopo la seconda guerra mondiale; la bilancia delle esportazioni di capitali indicava saldi non più positivi, o addirittura negativi; si trattava sempre meno di un allargamento della produzione e sempre più di semplici spostamenti della produzione per motivi di costi. Oggi, grazie alla globalizzazione della produzione, questo processo sta entrando nella sua fase di maturazione (lo si poteva comprendere già per tempo dal fatto che il commercio mondiale stava crescendo più rapidamente della produzione mondiale). Su tutta la faccenda, dimostra una sostanziale correttezza la teoria della crisi di Rosa Luxemburg, giacché la qualità compensatoria dell’espansione esterna viene meno e ridiventa visibile la sua immediata qualità di crisi in quanto limite del modo di produzione.

Essenziale è stato però il crollo del meccanismo di compensazione a livello dell’espansione interna, che ha raggiunto uno stadio critico con la rivoluzione microelettronica. Alla fine degli anni Sessanta, l’espansione fordista si era esaurita anche sul piano interno. L’agricoltura, la piccola distribuzione e produzione di merci ecc. erano ormai completamente integrate nella razionalità aziendale, e industrializzate fordisticamente; inoltre, le innovazioni fordistiche dei prodotti, così come i mercati del consumo di massa, ormai non più così nuovo, stavano raggiungendo lo stadio di saturazione. Da allora in poi, le innovazioni (per esempio la sostituzione del disco con il CD e simili prodotti nuovi) non potevano più generare importanti progressi sul piano della creazione reale di valore; per i vecchi prodotti fordisti (automobili, elettrodomestici, apparecchiature audiovisive ecc.) c’erano solo le sostituzioni (tutt’al più accelerate dall’"usura artificiale", cioè dal rapido logoramento del materiale, scientemente predisposto, e quindi dal deterioramento della qualità), non più nuovi e vasti mercati di consumatori.

La stagnazione del fordismo pienamente evoluto poteva ancora essere prolungata per un poco mediante l’espansione dell’industria dei beni d’investimento. Ma verso l’interno, questi investimenti erano già, in misura crescente, meri investimenti di razionalizzazione che cominciavano a scalzare il reale potenziale complessivo di creazione di valore; all’esterno, erano i ritardatari fordisti nella periferia capitalistica e nel Terzo mondo a offrire un certo potenziale supplementare per le esportazioni. Ma si è ben presto constatato che l’espansione fordista non è universalizzabile, bensì rimarrà circoscritta a pochi paesi. Tanto i costi preliminari del capitale fisso aziendale quanto i costi dell’infrastruttura sociale necessaria sono saliti dopo la seconda guerra mondiale a livelli talmente astronomici, da diventare proibitivi per la stragrande maggioranza dei paesi già all’inizio degli anni Settanta. In molti casi, dunque, l’espansione fordista si è interrotta all’inizio o a metà del cammino. Le importazioni di beni d’investimento aziendali o infrastrutturali dovevano venir finanziate in anticipo tramite crediti, senza che i processi produttivi messi così in moto bastassero a pagare almeno gli interessi di tali crediti. La conseguenza è stata la famigerata crisi dei debiti del Terzo mondo, che continua tuttora e che ha ormai raggiunto un volume di 1800 miliardi di dollari. In molti casi si trattava comunque fin da principio di progetti totalmente insensati (dighe, centrali nucleari ecc.), frutto esclusivo della collaborazione tra politici corrotti e imprese internazionali (come per esempio la Siemens) per procacciarsi rapidi guadagni.

L’arresto, generalmente catastrofico, dell’espansione fordista nella periferia capitalistica ha annunciato però la crisi finale anche nei paesi centrali. Già la crisi petrolifera, a metà degli anni Settanta, dimostrò che la stagnante creazione reale di valore delle industrie fordiste sopportava male, ormai, i costi aggiuntivi. Cominciò allora un movimento in senso contrario, il cui fenomeno più visibile è la strutturale disoccupazione di massa in tutti i settori fordisti; una disoccupazione che cresce da un ciclo all’altro. Il motore centrale di questo processo è stato, a partire dai primi anni Ottanta, la rivoluzione microelettronica che fece sciogliere come neve al sole il nucleo occupazionale nell’industria. L’occupazione industriale è diminuita, in più ondate, nella solo Germania federale tra il 1980 e il 1995 di diversi milioni. Lo stesso vale per gli altri paesi industrializzati. Questa diminuzione non è affatto stata compensata, e tanto meno sovracompensata, dall’espansione fordista in Asia e altrove, come invece crede un certo discorso, anche di provenienza marxista, del tutto ingenuo sul terreno della teoria dell’accumulazione. L’elenco delle cifre, a prima vista impressionanti, sull’espansione industriale, per esempio, in India, in Cina o nelle "piccole tigri" sudestasiatiche, trascura però due cose. In primo luogo, nel caso di grandi Stati come la Cina si tratta ancora del vecchio modello di industrie-fantasma (dal punto di vista del mercato mondiale) sovvenzionate dallo Stato, un modello che diventa ogni anno più precario e che non si potrà preservare in caso di un’apertura crescente al mercato mondiale, qual’è imposta dalla nuova industrializzazione per le esportazioni. Facendo le somme, nei settori industriali orientati verso le esportazioni viene creata molto meno occupazione supplementare di quanto se ne perda a medio termine nello stesso processo presso le vecchie industrie statali.

In secondo luogo, maggiore occupazione industriale in alcuni (complessivamente pochi) paesi giunti in ritardo al fordismo non significa affatto maggiore creazione reale di valore, il cui standard, con la crescente globalizzazione, viene dettato dal livello produttivo del mercato mondiale, e quindi dai sistemi industriali più evoluti. Siccome tali standard aziendali e infrastrutturali sono inaccessibili su larga scala anche per i newcomer asiatici, questi ultimi cercano di bilanciare il proprio svantaggio soprattutto con salari bassi, pessime condizioni di lavoro, distruzione sfrenata dell’ambiente. A lungo termine, ciò è insostenibile anche sul piano aziendale: ma, a breve termine, si può così compensare parzialmente la superiorità che hanno i principali paesi industriali sul piano della disponibilità di capitale. Nelle condizioni della globalizzazione, sono sempre più le stesse imprese occidentali ad approfittare, attraverso investimenti flessibilizzati in tutto il mondo, del dislivello nei salari e nelle leggi. Ma tutto ciò avviene solo nell’ambito aziendale e sulla superficie del mercato. La reale creazione di valore da parte del capitale mondiale non viene affatto allargata. Misurato sullo standard globale di produttività, è ben possibile che 100 o 1000 operai a salario basso e con relativamente poco capitale fisso producano meno valore di un unico operaio dotato di alta tecnologia e di molto capitale fisso nello stesso settore. Ciò che si presenta come vantaggioso per il calcolo particolare del capitale singolo – che deve per sua natura essere cieco di fronte al processo complessivo della valorizzazione – non ha niente a che fare con la creazione sostanziale di valore a livello della società (oggi della società mondiale). Il problema della reale sostanza di valore si farà naturalmente sentire, alla fine, anche alla superficie del mercato, con delle crisi e sotto forma di limitazione apparentemente esterna e inaspettata per il calcolo aziendale.

Facendo le somme, si può dire che con la rivoluzione microelettronica, il cui potenziale è lungi dall’esser esaurito, si è arrestato, a partire dai primi anni Ottanta, insieme con l’espansione fordista anche l’allargamento del lavoro produttivo e quindi della reale creazione di valore; ormai, anzi, il lavoro produttivo retrocede su scala globale. Ciò significa che già oggi non esiste più il meccanismo storico di compensazione che ha sorretto l’espansione simultanea del lavoro capitalisticamente improduttivo. In verità, la base della riproduzione capitalistica ha già incontrato il suo limite assoluto, anche se il collasso (in senso sostanziale) ancora non si è realizzato sul livello fenomenico formale. Tuttavia, questa realizzazione non si presenta più solo come diminuzione accentuata del saggio di profitto. Quest’espressione indica in effetti solo il modo in cui appare il limite relativo della riproduzione capitalistica nelle condizioni di una massa assoluta di profitto ancora in aumento (allargamento del modo di produzione). Quanto a ciò, ha ancora ragione Rosa Luxemburg nella sua Anticritica, anche se questa limitazione relativa non si protrarrà di certo "fino al giorno in cui il sole si estingue". Il limite assoluto non apparirà perciò nella forma di una semplice accelerazione lineare della "caduta tendenziale", di modo che il capitalismo venga magari abbandonato con rassegnazione dal management per mancanza di redditività. Con il raggiungimento del limite assoluto termina piuttosto l’accumulazione assoluta di "valore" reale in generale. In termini sostanziali, il saggio di profitto allora non "diminuisce", ma, con la sparizione di masse supplementari di valore, esso smette del tutto di esistere. Il concetto diventa privo di senso. Nel frattempo, il processo di accumulazione continua formalmente ancora per un certo tempo (e vengono dunque conseguiti ancora dei profitti): ma, ormai, senza alcun legame con la reale sostanza di valore (in diminuzione), guidato solo dalle creazioni, ormai incontrollate, del "capitale fittizio" e del denaro senza sostanza nelle loro diverse forme fenomeniche.

Negli anni Ottanta, le istituzioni capitalistiche non hanno mancato di reagire a questa evoluzione. Da un lato, nel corso dell’ondata ideologica neoliberale, trionfante in tutto il mondo, i mercati finanziari sono stati "deregolamentati" in una misura mai vista (vale a dire "liberati" da tutti i dispositivi di sicurezza ancora esistenti) per creare sufficiente liquidità globale per l’accumulazione-fantasma senza base reale. Dall’altro, si è lanciata un’offensiva contro il consumo statale (soprattutto contro lo Stato sociale) per abbassare la quota statale e ripristinare presunte condizioni "regolari"; in questo il monetarismo è da considerarsi, per così dire, una specie di cupo presentimento e di reazione istintiva da parte delle istituzioni capitalistiche. La speranza di un ritorno all’accumulazione "regolare" del capitale è però vana, giacché al posto del consumo statale non subentra un segmento di capitalismo privato con la stessa dimensione, ma viene alla luce solo il vuoto sostanziale della riproduzione, cioè il fatto che una parte troppo grande della produzione capitalistica dipende già da tempo dal "capitale fittizio" del consumo statale e non potrebbe sopravvivere a uno Stato veramente "snello". L’offensiva "reaganomica" e "thatcherista" contro il consumo statale si è perciò arenata perfino negli USA e in Gran Bretagna. Il nodo della grande crisi, che anche empiricamente si fa sentire più di prima, viene inevitabilmente al pettine a livello dei mercati finanziari disgregati.

 

8. Le strutture globali del deficit e la breve estate del capitalismo da casinò

Per la memoria notoriamente breve di uomini il cui orizzonte è il mercato (e ne fanno parte, da molto tempo, anche i teorici della sinistra ed ex-sinistra), tutto ciò può sembrare fantasioso, poiché essi "credono" alla crisi assoluta solo quando loro stessi mangiano dalla pattumiera o sono sotto i tiri d’artiglieria; e poiché sono specialisti della rimozione, probabilmente neppure allora. Ma dove lo vedete un crollo da queste parti? chiedono con un sorriso più o meno accentuato. Certo, abbiamo a che fare con dei processi storici; sul piano storico sono comunque processi piuttosto brevi, benché possono sembrare lunghi alla coscienza formata dal mercato e dalla politica. Se l’estate siberiana del boom fordista nel dopoguerra era già breve, l’epoca seguente del "capitalismo da casinò" sarà ancora più breve. Dopo la metà degli anni Ottanta, l’accumulazione fittizia si è tramutata in un boom puramente speculativo, che negli anni Novanta mantiene un livello alto, benché lo "scoppio della bolla" si sia già ripetutamente annunciato.

Quali saranno le conseguenze, se scoppia la bolla globale? Gli spiriti ingenui credono: nessuna o minime; e alcuni citano addirittura Marx, che ha effettivamente scritto: "In quanto la diminuzione o l’aumento di valore di questi titoli sono indipendenti dal movimento di valore del capitale reale che essi rappresentano, la ricchezza di una nazione non varia in conseguenza di tale diminuzione o aumento". Ma ciò vale naturalmente solo nella misura in cui il "capitale fittizio" si muove esclusivamente nella sovrastruttura finanziaria e creditizia, senza feedback sulla riproduzione reale. Già Marx ha fatto perciò certe riserve: "In quanto la loro svalorizzazione non esprimeva un effettivo arresto della produzione e del traffico sulle ferrovie e sui canali, né l’interruzione di imprese in corso, o lo sperpero di capitale in imprese assolutamente senza valore, la nazione non risultava impoverita di un centesimo in seguito allo scoppio di queste bolle di sapone di capitale monetario nominale".

Ma quanto sia veramente ricca "la nazione", se essa si sia arrichita "sulla carta" e abbia finanziato fittiziamente la produzione e i redditi, o se al contrario il crollo si svolga veramente solo nell’olimpo finanziario, impoverendo unicamente "gli speculatori": questoa, appunto, è la questione. Già ai tempi di Marx, gli shock svalutativi del "capitale fittizio" non hanno affatto mancato di recare ferite può o meno gravi alla produzione industriale; per esempio nel grande tracollo della speculazione ferroviaria in Germania negli anni Settanta del secolo scorso, seguito da un periodo di stagnazione durato quasi venti anni. Ma nell’Ottocento, quando il capitalismo era ancora solo un segmento della società, e quando inoltre la sua riproduzione dipendeva molto meno dal sistema creditizio, il movimento del "capitale fittizio" era in effetti relativamente limitato, sia per il volume che per i riflessi sulla produzione reale. La situazione odierna, invece, non se la sarebbe potuta immaginare probabilmente neppure Marx. Infatti, dopo la fine dell’espansione fordista, il rapporto si è addirittura ribaltato: la riproduzione reale è diventata l’appendice di una gigantesca bolla di "capitale fittizo" nelle sue diverse forme fenomeniche e nei suoi diversi stati d’aggregazione, anziché produrre dal suo interno questa bolla come una sua mera emanazione.

Qual è, precisamente, la situazione? Il credito statale e il capitale monetario speculativo sono intrecciati tra di loro in molti modi, e una svalutazione drammatica della sovrastruttura finanziaria trascinerebbe perciò con sé, in un modo o nell’altro, anche i titoli di Stato, distruggendo la capacità dello Stato di rifinanziarsi. In tal caso, il sovvenzionamento di interi settori dell’industria e dell’agricoltura, già oggi crollati in molti paesi dell’ex-Terzo mondo, dovrebbe perciò cessare anche negli altri paesi: in Russia, in India e in Cina come negli stessi paesi OCSE. Questa massa di sovvenzioni, ancora rilevante su scala globale, è di fatto, per la logica del mercato, nient’altro che "sperpero di capitale in imprese assolutamente senza valore"; e va da sé che questo fattore oggi ha un peso ben diverso che ai tempi di Marx, quando era infatti piuttosto trascurabile o limitato a una parte relativamente piccola degli investimenti privati.

Ormai il capitale speculativo privato supera, nelle sue fantasiose creazioni derivative, di gran lunga il credito statale. Ciò significa solo che, dall’inizio del "capitalismo da casinò" in poi, una massa sempre più grande di capitale monetario fordista non più reinvestibile in attività reali si è riversata nella sovrastruttura finanziaria (la "sovraccumulazione" delle industrie fordiste a partire dagli anni Settanta), e che essa nella sua accumulazione fittizia (D-D’) ha ormai riunito una massa senza precedenti di valori fittizi che vengono allibrati e trattati come reali redditi monetari. E’ sicuro che una certa parte di questi soldi commerciali fittizi torna, o direttamente o tramite prestiti (il che naturalmente gonfia ulteriormente la bolla), nella riproduzione come domanda apparentemente reale. Così vengono dunque alimentati processi di produzione che non hanno più nessuna base sostanziale e che si debbono interrompere nel caso di una grande svalutazione. Anche questo fattore è sicuramente molto più importante oggi che ai tempi di Marx.

Paragonata alla massa complessiva del "capitale fittizio" commerciale, la ripercussione sulla riproduzione reale sotto forma di immissione di domanda senza reale sostanza di valore è però finora minima, a differenza del consumo statale. Se invece l’intera montagna dei valori commerciali fittizi si mettesse oggi in moto come reale domanda, ciò significherebbe l’iperinflazione immediata anche in’Occidente. Tuttavia, anche questa parte – la principale – dei valori fittizi, che attualmente non viene immessa come domanda nella riproduzione reale, ma rimane nella sovrastruttura speculativa, può sorreggere indirettamente grandi settori della riproduzione apparentemente reale e produttiva. La soluzione di questo enigma si trova sul livello dei bilanci. Non si deve mai dimenticare che un bilancio è sempre qualcosa di truccato che bisogna prima decifrare. Tuttavia, per un bilancio positivo, o almeno in equilibrio, è naturalmente sempre necessario un "avere" effettivo ("effettivo" nel senso di depositi in qualsivoglia forma), se non si intende operare una falsificazione pura e semplice (il fatto che anche queste aumentano rapidamente è un indizio che ci si avvicina al limite dell’accumulazione fittizia). Ma da dove venga questo "avere" e in quale forma sia aggregato, è un’altra questione.

Come si presenta allora a livello dei bilanci lo spostamento dal capitalismo industriale reale al capitalismo speculativo, "da casinò"? La risposta deve essere: trasferendo il peso, presso i guadagni e i depositi, dai redditi derivati dall’accumulazione industriale reale (D-M-D’) ai redditi derivati dalla sovrastruttura finanziaria speculativa. In altre parole: il fattore decisivo non è più costituito dalla produzione reale e dai suoi successi sul mercato, ma da un’abile contabilità in grado di far quadrare il bilancio tramite operazioni speculative. In altre parole: oggi la difesa di quote di mercato riesce, totalmente o parzialmente, solo attraverso l’afflusso di guadagni speculativi. Ovviamente, non è così in ogni singolo caso; ma decisivo è il peso bilanciante che il "capitale fittizio" ha nella società complessiva. Anche senza apparire come domanda reale di investimenti o di consumo, questi depositi possono sorreggere una parte notevole della riproduzione reale e tenere in vita imprese, produzione e occupazione, semplicemente facendo quadrare i bilanci. Se il "capitale fittizio" venisse svalutato su larga scala, ciò avrebbe per conseguenza la rapida bancarotta di un numero sorprendentemente alto di imprese in apparenza "sanissime".

Non si tratta di semplici ipotesi, come dimostrano negli ultimi anni gli scandali, i mega-fallimenti e le "azioni di salvataggio", improvvisamente divenute necessarie, che rappresentano solo la punta di un iceberg. Che si tratti della Metallgesellschaft di Francoforte, della bancarotta da miliardi di marchi del costruttore Schneider o del fallimento della antica banca londinese Barings: in tutti questi casi c’è stato un passaggio, apparentemente improvviso, da bilanci prosperi all’insolvenza, perché la contabilità aveva fatto speculazioni sbagliate nell’ambito di immobili, valute, transazioni a termine e altre forme derivate di speculazione. Le banche sono diventate il centro non tanto delle reali operazioni capitalistiche di credito, quanto della speculazione globale; e sembra del tutto credibile Schneider, il latitante ex-star degli imprenditori tedeschi, quando accusa la Deutsche Bank di aver favorito con tutte le forze e coscientemente la deriva pericolosa dei suoi affari. Sintomatico è anche il caso di Barings. Il 4 febbraio 1995, un articolo lusinghiero della Frankfurter Allgemeine Zeitung lodava la banca come un’impresa eccellente e come "una delle più forti in Asia", con il 54% di guadagno nel 1994. Del suo capo Peter Baring si citavano le parole: "Non abbiamo bisogno di seguire ogni moda. Sappiamo pensare a lungo termine". Veramente un caso di cui i "guaritori" di sinistra del capitalismo possono servirsi per dimostrare quanto "il capitale" sta bene. Neanche una settimana più tardi, Barings aveva fatto bancarotta a causa delle speculazioni sbagliate fatte alla borsa di Tokio da un broker 29enne. Un tale esito non sarebbe stato possibile se il capitalismo fosse, secondo i propri criteri, un capitalismo "reale" in cui il sistema bancario serve veramente a finanziare la produzione reale per il mercato.

Ma non sono affatto solo le banche e le contabilità delle imprese a essere diventate associazioni gangsteristiche per arrischiare puntate nel casinò globale. Anche istituti pensionistici, erari statali, tesorieri comunali da Tokio fino all’ultimo paesino, cassieri di partiti, associazioni e società private si lanciano a "puntare" sempre più disinvoltamente; in parte spinti dalla necessità, non bastando assolutamente più i redditi reali. Il caso somiglia a quello dei bilanci d’impresa: situazioni finanziarie più o meno disastrose vengono "aggiustate" speculando con le forme derivate. In alcuni casi può anche darsi che i diversi responsabili finanziari non resistano alla tentazione e vogliano fare qualcosa di buono per le loro istituzioni, essendo apparentemente così facile, con poste abbastanza alte, creare dal nulla grosse riserve finanziarie. Che così si possa naufragare, l’ha sperimentato, per esempio, nel 1994 un tesoriere del Partito del socialismo democratico in Germania, che si era giocato alla borsa, con le migliori intenzioni, una cassa regionale del suo partito. Quando nel 1994 il distretto californiano di Orange County ha dovuto dichiarare fallimento a causa delle speculazioni errate della sua amministrazione finanziaria, i ministri regionali delle finanze in Germania e i portavoce delle amministrazioni si sono precipitati ad assicurare che qualcosa di simile non potrebbe succedere in Germania. Un’affermazione assai poco credibile, giacché proprio allora si è venuti a sapere che alle amministrazioni finanziarie è consentito far "investimenti" finanziari di tipo derivato.

Nelle formazioni del "capitale fittizio" finora considerate, e nelle loro ripercussioni sulla riproduzione reale, si manifesta la condizione generale della globale "sovraccumulazione strutturale", che in modo più o meno netto ha fatto nascere in tutte le economie nazionali, anche in quelle in via di disfacimento, il "capitalismo da casinò", privo di una reale solidità basata sulle rispettive valute nazionali. Finché l’assurda creazione globale di liquidità da parte del "capitale fittizio" continua a espandersi (e oggi si espande più sfrenatamente che mai), le catastrofi svalutative possono limitarsi a significativi casi singoli, che si generalizzeranno solo in occasione dell’inevitabile contrazione. Le dimensioni sono ormai diventate folli, come si può capire dalle stime degli analisti finanziari, che soltanto per le nuove forme derivative della speculazione suppongono un volume tra 10 e 50 mila miliardi di dollari. Le oscillazioni si spiegano col fatto che nessuno riesce più a tener i conti e che l’abolizione delle valvole di sicurezza internazionali ha annulato anche il controllo statistico. E’ comunque chiaro che simili dimensioni fanno apparire i "miseri" 1800 miliardi di dollari di debiti del Terzo mondo quasi come una grandezza trascurabile. Solo con questa creazione smisurata di liquidità, non garantita dall’economia reale, si potevano dichiarare risolte le diverse crisi debitorie: "risolte" attraverso l’illimitato accumulo di nuovo materiale esplosivo (mentre quasi nessuno parla più delle conseguenze sociali delle crisi debitorie, che continuano a covare).

Il "capitalismo da casinò" non è però solo diventato, a partire dagli anni Ottanta, una condizione strutturale all’interno delle singole economie nazionali, ma questa struttura, a un secondo livello, si è anche internazionalizzata; non solo come globalizzazione dei mercati finanziari speculativi, ma anche come creazione di circuiti deficitari internazionali tra le diverse economie nazionali che la globalizzazione sta dissolvendo. Un tale circuito deficitario può aver luogo su due piani, e in ambedue i casi l’economia reale viene alimentata con capitale monetario introdotto dall’esterno. Da una parte si finanzia il debito pubblico non più con risparmi interni (o con l’inflazione interna da cartamoneta), ma con capitale monetario estero; lo stesso può avvenire anche a livello dell’indebitamento delle imprese. La crisi debitoria del Terzo mondo è solo un caso speciale, già diventato precario, di questo indebitamento estero. L’aspetto scottante della questione è che il continuo ricorso a capitale estero deve essere pagato in valuta: esso è possibile, dunque, solo attraverso continue eccedenze nelle esportazioni, che comporterebbero l’insorgenza di deficit altrove. Questo indebitamento estero agisce sull’economia reale nel modo seguente: il denaro preso in prestito altrove ricompare all’interno come domanda statale o privata, per poi essere o sprecato nei consumi o investito in modo sbagliato (armamenti, "cattedrali nel deserto", sovvenzionamento di settori non redditizi ecc.).

Si tratta inoltre di un modo di finanziare i saldi commerciali negativi tramite debiti; vale a dire che le eccedenze, più o meno alte, delle importazioni vengono pagate non con i risparmi interni, ma con capitale monetario straniero. In verità, una tale costruzione rappresenta, dal punto di vista economico, un’impossibilità logica: o si prende denaro in prestito all’estero, e allora bisogna restituirlo attraverso eccedenze nelle esportazioni, o si hanno delle eccedenze nelle importazioni, e allora bisogna pagarle con riserve finanziarie interne e con depositi in valuta guadagnati prima; le due cose non possono andare di pari passo. Tuttavia, se indebitamento estero e bilancia commerciale negativa coincidono, si tratta fin da principio di una costruzione precaria nel contesto del "capitale fittizio" e/o del risultato di strategie politiche che cercano di eludere con irregularità di vario tipo il sistema economico e le sue leggi. In ogni caso, questa impossibilià economica non può essere mantenuta a lungo.

Naturalmente non è la prima volta che si verificano deficit nelle bilance sia commerciali che dei capitali, ma qui vale quanto già detto per l’indebitamento statale e l’espansione del credito in generale: in epoche passate si è trattato di deficit comparativamente modesti, che non venivano accumulati per periodi prolungati, ma dovevano presto venir estinti (il che nel corso della espansione capitalistica concomitante poteva accadere abbastanza facilmente). Oggi invece abbiamo a che fare non solo con dimensioni molto maggiori dell’indebitamento estero, ma anche con veri e propri circuiti deficitari strutturalmente irrigiditi, che crescono già da dieci o vent’anni e che non sono più sotto il segno dell’espansione economica reale, limitandosi piuttosto a simularla.

Esistono diversi circuiti deficitari, sparsi sul globo intero, ma i due più importanti sono quello europeo e quello asiatico. In Europa, è il capitale finanziario della Germania federale, accumulato nei tempi dell’espansione fordista del secondo dopoguerra, a essere al centro dei circuiti deficitari a tutti i livelli. I paesi dell’Unione europea, più o meno tutti deficitari nei loro scambi con la Germania, prendono in prestito da quest’ultima il capitale monetario necessario, a interessi di mercato; tramite i diversi fondi di compensazione dell’UE (di cui la Germania paga la parte maggiore), le economie nazionali più malandate ricevono, inoltre, i fondi di risanamento a gettito continuo; in terzo luogo, la Germania deve dirigere masse crescenti di capitale monetario, in gran parte a fondo perduto, nei paesi dell’Europa orientale e soprattutto in Russia (che agita la clave atomica diventata incontrollabile), per ritardarne l’inevitabile secondo crollo, che questa volta sarà rigorosamente da economia di mercato; in quarto luogo, è diventato necessario un trasferimento di capitale netto nell’ex-RDT di 150-200 miliardi di marchi all’anno, per far respirare artificialmente a tempo indeterminato l’economia della Germania orientale, clinicamente morta dopo l’annessione. La sovrastruttura finanziaria della Germania, che secondo l’opinione corrente è ancora un paese relativamente serio in termini capitalistici, è perciò molto più traballante di quanto non sembri a prima vista, non solo a causa della struttura interna – che anche in Germania è ormai caratterizzata dal "capitalismo da casinò" -, ma anche a causa della forte integrazione nel complesso dei circuiti deficitari europei.

Il record di sfacciataggine e smodatezza economica appartiene, probabilmente, al circuito deficitario tra l’Est asiatico e gli USA. Siamo di fronte, qui, a un intreccio particolarmente delicato. Dall’angolo visuale del Giappone e delle diverse "piccole tigri", il circuito deficitario pacifico si presenta così: dapprima, la costituzione specifica dei mercati finanziari giapponesi e del loro intreccio paternalistico, largamente informale, con l’industria delle esportazioni ha reso possibile negli anni Ottanta una performance finanziaria senza pari. Il Giappone ha finanziato l’equipaggiamento completo (altrove diventato quasi inaccessibile) della sua industria delle esportazioni con alta tecnologia praticamente senza pagare (almeno in apparenza): è stato l’unico paese industrializzato a trasformare buona parte del gigantesco incremento fittizio di valore verificatosi durante l’era speculativo in domanda reale di beni di investimento estremamente costosi; lì, ha dunque realmente avuto luogo il feedback immediato del "capitale fittizio" con la produzione reale, per giunta senza un effetto inflazionistico altrettanto immediato sull’economia interna giapponese, giacché questo feedback ha preso la forma di una valanga di esportazioni, diretta soprattutto negli USA.

Le "piccole tigri" si sono aggianciate in modo precario al rullo compressore delle esportazioni giapponesi. Ovviamente, nessuna "piccola tigre" poteva finanziare la sua industrializzazione per le esportazioni con risparmi interni, ma solo mediante un indebitamento crescente nei confronti del Giappone. E’ in Giappone che si prendeva e si prende in prestito il denaro per gli investimenti necessari, e lì che si compra gran parte dei beni d’investimento (in parte si tratta direttamente di esportazioni di capitale da parte di imprese giapponesi e, per una quota molto minore, occidentali). In certo modo si può dunque parlare di un circuito deficitario intrasiatico: il Giappone presta alle "piccole tigri" il denaro perché esse possano comprare beni d’investimento in Giappone. Ciò funziona solo perché questi paesi, proprio come il Giappone, esportano poi a più non posso, anche loro soprattutto negli USA (il cui ruolo è quello della spugna). Si può riconoscere questa dinamica, destinata a esiti disastrosi, dal fatto che le "piccole tigri" hanno tutte dei saldi commerciali molto positivi verso l’Europa (già però in via di diminuzione) e gli USA, mentre le loro bilance commerciali e di capitale sono altamente deficitarie verso il Giappone (e di regola anche in termini assoluti!).

Il piccolo circuito deficitario intrasiatico si nutre poi del grande circuito deficitario del pacifico, che diventa visibile dal lato degli USA. Per effetto del consumo improduttivo da potenza mondiale, di gran lunga superiore a quello degli altri paesi industrializzati fordisti, la potenza economica relativa degli USA – che dopo la seconda guerra mondiale dominavano incontrastatamente in tutti i settori – è diminuita a vista d’occhio già dagli anni Sessanta. La base industriale si è assottigliata fin quasi a sparire in modo più radicale che altrove: non tanto nella forma di una flessione dell’occupazione industriale causata da razionalizzazioni tecnologiche con contemporaneo allargamento della produzione, ma come abbandono completo di interi settori industriali, il cui prodotto è stato sostituito da importazioni. Poiché al contempo si è abbassato sempre più fortemente la quota di risparmio dei cittadini statunitensi, oltremodo propensi ai consumi ( questa quota è diventata oggi una delle più basse al mondo), in aggiunta all’esorbitante indebitamento interno, si è dovuto far ricorso in misura crescente a capitale monetario straniero.

Gli USA sono in grado – benché questo fatto dovrebbe essere economicamente impossibile – di indebitarsi all’estero e di avere contemporaneamente alti deficit nelle bilance commerciali, per il solo motivo che il dollaro aveva, e parzialmente ha ancora oggi (in forma indebolita) la funzione di valuta mondiale. Ciò significa che gli USA possono pagare il loro debito estero con la propria valuta, invece di dover prima guadagnare divise tramite eccedenze commerciali per poter pagare gli interessi sul debito estero e per estinguerlo. In verità, fanno addirittura pagare all’estero una parte dei loro debiti attraverso gli alti e bassi del cambio del dollaro, anche se questo metodo oggi sembra aver perso gran parte della sua efficacia e finirà per condurre prima o poi a una fuga generalizzata dal dollaro, la qual cosa avrà per conseguenza una caduta drastica del dollaro e la crisi del commercio mondiale. La decadenza del dollaro e la crisi del sistema monetario internazionale nel corso degli ultimi anni hanno chiaramente dimostrato che lo sviluppo va in questa direzione.

Attraverso il doppio deficit dell’indebitamento estero e della bilancia commerciale negativa, gli USA sono diventati negli ultimi 15 anni anche la doppia "spugna" dell’economia mondiale: da un lato aspirano il capitale monetario straniero, dall’altro pagano con questo denaro avuto in prestito le loro gigantesche eccedenze nelle importazioni, succhiando una grande massa di prodotti industriali esteri. Questa sproporzione grottesca si concentra quasi interamente nella regione del pacifico. Tutti i discorsi sul presunto "secolo del pacifico" prossimo venturo sono campati in aria, perché basati sul circuito deficitario tra l’Asia orientale e gli USA. I giapponesi prestano agli USA i fondi per poter realizzare eccedenze commerciali negli scambi con gli USA; e con le eccedenze commerciali guadagnano i fondi che possono prestare agli USA. E’ evidente che questa situazione economica paradossale, cui ormai partecipa l’intera Asia sud-orientale, dovrà andare in frantumi nel giro di pochi anni.

L’industrializzazione asiatica che ha per scopo le esportazioni, fondata sui bassi salari e sullo sfruttamento selvaggio di tutte le risorse, stimola dunque solo poca creazione supplementare di valore e condanna a morte le industrie statali nazionali, prodotte dalla passata "industrializzazione di ricupero"; inoltre, molti milioni dei posti di lavoro così creati dipendono dai deficit esteri statunitensi. L’industrializzazione asiatica per le esportazioni dunque non solo è troppo piccola, in quanto volume assoluto, per poter produrre un’altra espansione fordista, ma fin dall’inizio è stata completamente priva di serietà, prendendo come parametro gli stessi criteri capitalistici. Si tratta solo di un’espansione fordista simulata attraverso il mega-circuito deficitario del pacifico; senza poter replicare lo sviluppo occidentale, precipita piuttosto verso una catastrofe improvvisa.

 

9. Verso lo shock svalutativo

Se si bada all’autentica e reale produzione di plusvalore e alla connessa necessità di accrescerla, bisogna concludere che il cuore del capitale mondiale ha già smesso di pulsare. Da almeno dieci anni, non si fa altro che simulare con espedienti monetari l’accumulazione capitalistica. Sicché il capitale dipende dal polmone d’acciaio dei processi fittizi di creazione di valore: a livello delle economie nazionali, mediante l’indebitamento statale e il "capitalismo da casinò"; a livello dell’economia mondiale, mediante l’estensione del "capitalismo da casinò" ai mercati finanziari divenuti incontrollabili e mediante i grandi circuiti deficitari internazionali. E’ logico prevedere che presto o tardi la riproduzione capitalistica sarà ricondotta, attraverso una contrazione violenta delle masse di denaro senza sostanza, alla sua base reale; si constaterà allora che il capitalismo è, da tempo, un cadavere che cammina. In altre parole: la liquidità fittizia, creata senza un fondamento nella produzione di capitale, sarà svalutata in un modo o in un altro, prima o poi.

Non si può prevedere come questo processo di svalutazione si svolgerà nei dettagli; se avverrà in tempi differenziati sui diversi livelli o se coinvolgerà tutti i livelli allo stesso tempo; se si svolgerà sul lungo periodo o se avrà la forma di un grande crac svalutativo globale, per cosi dire di un’esplosione atomica monetaria. La "massa critica" è stata accumulata da tempo, e la scintilla che innesca l’esplosione può brillare in qualsiasi momento tramite crisi economiche o politiche. Un indiziato è senza dubbio il circuito deficitario del pacifico; un punto nevralgico è il mercato finanziario giapponese. Il fatto che il Giappone è stato, negli anni Ottanta, l’unico paese che ha utilizzato la gigantesca bolla speculativa per fare investimenti reali altrettanto giganteschi, ha finito per conferire al "capitalismo da casinò" in Giappone una particolare forma di evoluzione.

Mentre il grande crac della borsa nel 1987 e il tracollo della speculazione immobiliare alla fine degli anni Ottanta hanno rappresentato negli USA e in Europa solo un incidente di percorso nell’accumulazione di valori fittizi (che infatti continua sfrenata, rinfocolata con nuova liquidità), il Giappone invece è stato sull’orlo della grande catastrofe finanziaria. In Occidente, la mediazione dei valori speculativi fittizi con l’economia reale è rimasta largamente indiretta, e le enorme perdite nella contabilità sono state compensate, dopo un periodo critico di passaggio, mediante nuove impennate della speculazione, e addirittura sono state superate con ripetuti incrementi fittizi di valore (l’indice Dow Jones, il barometro di Wall Street, ha più che raddoppiato d’allora il suo valore). In Giappone invece, i valori fittizi sono stati investiti in gran parte nell’economia reale, di modo che il crac ha aperto una voraggine non più colmabile. La bolla doveva scoppiare, e i corsi delle azioni e degli immobili giapponesi fino a oggi non si sono più ripresi (l’indice Nikkei, il batrometro della borsa di Tokio, da allora è caduto di più della metà).

Perché allora non si è ancora prodotta un’aperta catastrofe finanziaria in Giappone? La risposta deve essere cercata ancora una volta nella specifica struttura paternalistica dell’economia giapponese, nei suoi tratti arcaici. L’unione informale tra governo, banche e grandi imprese è riuscita a fondare una società nazionale di compensazione, in cui sono stati raccolti i crediti inesigibili, evitando così i mega-fallimenti in verità avviati. Una cosa simile non sarebbe stata possibile in nessun paese occidentale. Ma, naturalmente, neanche i giapponesi sono abbastanza furbi per poter aggirare le leggi del denaro a furia di astuzia paternalistica. Nessun trucco può far sparire dal mondo la massa di crediti inesigibili; anzi, essa si accresce per il semplice fatto che bisogna pagarne gli interessi, anche se la Nippon S.p.a. cerca disperatamente di ridimensionarla mediante ammortamenti a piccole dosi che il sistema bancario può sopportare. Ogni tanto si sacrifica un partner di medie dimensioni, per diminuire un po’ la pressione; per esempio, la cooperativa di credito di Tokio Cosmos Credit Corp., una delle più grandi del paese, nell’agosto 1995 è dovuta passare sotto amministrazione fiduciaria, e i risparmiatori hanno assalito, con scene drammatiche, la banca per ritirare i loro soldi.

Secondo indicazioni del ministero delle finanze giapponese dell’estate 1995, il volume dei crediti inesigibili ammonta a circa 650 miliardi di dollari. Tenendo conto del linguaggio abituale della diplomazia finanziaria, se ne possono dedurre due cose: la massa reale deve essere ancora più grande, e di molto; e incombe, inoltre, una rottura degli argini, annunciata con gentilezza e sorrisi pieni di discrezione. Il vortice creato dalla marea di bancarotte in arrivo potrebbe essere abbastanza grande da trascinare la montagna di deficit statunitensi e da soffocare il circuito deficitario del pacifico. Già adesso il Giappone è costretto a sopportare i costi necessari per limitare la palude di crediti interni inesigibili, e contemporaneamente deve continuare a comprare titoli di credito statunitensi per non mettere in pericolo le sue esportazioni negli USA. Ma non si potranno mantenere per sempre eccedenze commerciali di tali dimensioni; il permanente aumento del cambio del yen nei confronti del dollaro indica la correzione inevitabile; da parte loro, le esportazioni giapponesi si sono già ridotte. In un futuro non molto lontano, si romperanno tutti gli argini, e dietro ai continui contenziosi commerciali tra gli USA e il Giappone, incatenati l’uno all’altro dai loro deficit, sta in verità la questione di chi dovrà pagare la parte maggiore dello shock svalutativo in arrivo sul fronte del pacifico.

Un tale shock non potrà più essere limitato a una regione del mondo; esso costituirà il segnale per il processo di svalutazione non solo dell’intero "capitalismo da casinò", ma probabilmente anche del "capitale fittizio", maturato da tempo sotto forma di crediti statali, nei quali quantità di lavoro astratto sono state ipotecate fino a un futuro lontano. Una tale contrazione globale non significherebbe altro che l’annullamento di tutto il denaro e di tutte le forme monetarie che non derivano dal processo originario D-M-D’, ma dal fittizio processo di creazione di valore D-D’. Quest’annullamento può assumere la forma dell’inflazione o della deflazione (ma forse anche di un ibrido di entrambe).

Per comprendere questa logica, è necessario fare astrazione dalle forme fenomeniche, puramente esteriori, del forte aumento o della forte diminuzione dei prezzi, come normalmente vengono caratterizzate l’inflazione e la deflazione. In verità non si tratta di un movimento dei prezzi delle merci causato dallo sviluppo immanente degli stessi mercati dei beni – che, come è noto, vengono regolati, alla superficie, dal gioco della domanda e dell’offerta -, bensì di uno sviluppo autonomo a livello del denaro, cioè della sua svalutazione. In quanto svalutazione del denaro, inflazione e deflazione sono identiche, si distinguono solo nei modi. Nel caso dell’inflazione, il denaro continua formalmente a circolare; la sua svalutazione si manifesta come un improvviso aumento dei prezzi delle merci fino a dimensioni astronomiche, del tutto indipendentemente dalla domanda e dall’offerta. Nel caso della deflazione, invece, grandi masse di denaro, oppure certe forme di denaro in quanto tali, vengono annullate e spariscono dalla circolazione; la svalutazione appare allora come riduzione improvvisa del potere d’acquisto o della solvibilità sociali, il che può (ma non sempre deve) assumere l’aspetto di una generale riduzione dei prezzi.

Se la dimensione del processo di svalutazione è abbastanza grande, è lecito immaginare che inflazione e deflazione si presentino contemporaneamente, su diversi piani: per esempio inflazione dei prezzi dei beni di consumo e dei beni d’investimento, contemporanea svalutazione di depositi bancari, titoli di Stato, azioni e immobili. Questa combinazione di ambedue le forme di svalutazione del denaro è possibile quando la speculazione crolla e lo Stato cancella con un atto di forza il debito che esso ha contratto con i suoi creditori, mentre il governo continua a emettere carta-moneta per non far cessare del tutto il consumo di massa e evitare ribellioni (i contorni di una tale situazione sono diventati visibili, per esempio, in Jugoslavia e poi in Serbia-Montenegro).

Ma comunque si realizzerà nei dettagli la svalutazione globale del denaro – i cui prodromi si lasciano avvertire nella maggior parte del mondo come ciclo iperinflazionistico -, essa costituisce la fine storica del modo di produzione basato sul denaro. E’ un’illusione credere che dopo il grande shock svalutativo e/o ciclo svalutativo del denaro globale, il gioco capitalistico possa ricominciare di nuovo, su un terreno divenuto "sgombro". Diversamente dal passato, l’attuale svalutazione non è più una mera interruzione momentanea dell’ascesa del lavoro astratto nel capitalismo industriale, ma indica uno stadio irriversibile della scientifizzazione nel "ricambio organico con la natura": da un lato, la rapida diminuzione della creazione di valore nel capitalismo industriale a causa della razionalizzazione e della globalizzazione mediate dalla microelettronica; dall’altro, l’estensione, altrettanto rapida, del lavoro capitalisticamente improduttivo (che, dal punto di vista del sistema, media solo consumo per le condizioni infrastrutturali): la combinazione di questi due processi rappresenta uno stadio in cui il capitalismo non può più seguire i propri criteri. La sua contraddizione logica è giunta storicamente allo stadio di maturità.

In queste nuove condizioni, i processi svalutativi del capitale non preparano più il terreno per una nuova fase di accumulazione, come ancora dovrebbe essere secondo la teoria di Joseph Schumpeter. La svalutazione di "vecchie" forme del capitale porta alla formazione di nuove forme del capitale solo quando queste ultime aprono la possibilità di un ulteriore utilizzo di lavoro astratto all’altezza del livello vigente di produttività; solo l’espansione fordista ha costituito un caso del genere. Ma se questo potenziale allargamento non è più dato, perché il livello di produttività è diventato troppo alto e la razionalizzazione cresce più velocemente dell’estensione dei mercati, allora la semplice svalutazione di denaro, macchinari o edifici non serve a niente. Nessuna svalutazione riporta a uno stadio anteriore (ossia inferiore) della scientifizzazione, poiché il livello di produttività è immagazzinato, in ultima analisi, nel sapere della società e nelle teste delle persone, e non nelle sue forme esteriori, quali macchinari, impianti ecc. Una mera svalutazione o una distruzione bellica di questi impianti non basterebbe a creare una nuova base di partenza per una fase secolare di accumulazione.

La concezione primitiva, secondo cui il capitale brucia periodicamente se stesso per poi risorgere come la fenice dalle sue ceneri, passando così dall’eterna autodistruzione all’eterno autorinnovamento, fa parte del pensiero mitologico, non di quello storico e analitico. Una svalutazione in quanto tale, alla quale non segua una reale, e maggiorata, produzione di valore ad alta intensità di lavoro (che non è solo produzione di beni, ma, appunto, utilizzo di quantità di lavoro astratto), rimane una semplice svalutazione; una ripresa della riproduzione capitalistica sulla presunta nuova base di partenza reitererebbe dunque molto velocemente la crisi e il crollo. Nei cicli d’iperinflazione e di crollo periodico dei sistemi finanziari, si può già riconoscere in molte regioni del mondo una tale situazione.

Il vecchio marxismo ha sempre legato tutte le sue idee di critica e di emancipazione alle forme immanenti della riproduzione capitalistica (lotte ridistributive in forma monetaria, regolazione o "pianificazione" nel quadro della forma-merce ecc.) e aveva ridimensionato la teoria marxiana della crisi, digerita a metà, secondo questi bisogni immanenti. Esso non può dunque offrire una risposta ai nuovi sviluppi della crisi: lo può tanto poco, quanto la teoria economica borghese diventata insostenibile da tempo. La crisi della produzione di merci in quanto assurdo scopo tautologico, implicata nel carattere di feticcio di un "modo di produzione basato sul valore" (Marx), non può più essere risolta sul suo stesso terreno.

Lo shock svalutativo del denaro non è però solo uno shock svalutativo del pensiero scientifico (in forma-merce) esistito fino ad oggi, ma uno shock svalutativo della coscienza sociale in generale. Al termine definitivo di un fase paranoica di sviluppo nella forma irrazionale del valore, durata più di 200 anni, arriva una prova decisiva per la società umana: la questione se essa, senza impazzire completamente, può andare oltre le radicate strutture feticistiche delle relazioni denaro-merce, o se ricadrà nella "barbarie". Ma una cosa è certa: non potrà più continuare nella sua forma attuale.


(pubblicato sul web da Nino Caliendo su El Niño Blog di cultura, politica, attualità, problematiche sociali

Originale: Robert Kurz: Die Himmelfahrt des Geldes, Krisis 16/17, Horlemann Verlag, Bad Honnef, 1995
In Italiano: Robert Kurz: la fine della politica e l’apoteosi del denaro, manifesto libri, Roma 1997

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