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Divisione del lavoro

di Valerio Bertello

Le due divisioni del lavoro

Nella prima parte si è considerato lo sviluppo della divisione del lavoro ponendo la produttività come l’unico fattore che determina l’affermazione storica di una forza produttiva. Ciò è in ultima analisi vero, ma tale sviluppo è strettamente intrecciato con fattori sociali, innanzitutto i rapporti di produzione, che non possono essere trascurati. Quindi occorre riprendere il discorso ponendo tali rapporti in primo piano.


1. Le due divisioni del lavoro e la contraddizione fondamentale


Il capitalismo sviluppa la divisione cooperativa del lavoro, cioè la cooperazione manifatturiera, come proprio modo specifico di produzione, conferendo al lavoro sociale un nuovo livello di sviluppo che ne fa una forza produttiva integralmente nuova.

Tale evoluzione si pone in opposizione alla precedente divisione del lavoro, quella sociale o dei mestieri, che nasce e si sviluppa spontaneamente nella società prima di essa, inizialmente come scambio di eccedenze tra comunità autosufficienti, poi come risultato della specializzazione, indotta dallo scambio stesso.

La cooperazione è una forma di divisione del lavoro che costituisce di per sè un grado superiore di sviluppo delle forze produttive, quindi di socializzazione. Infatti, trattandosi di divisione del lavoro, in entrambe le forme si tratta di un fenomeno sociale, ma vi è tra di esse una differenza sostanziale. La cooperazione è fondata su una socialità reale, sebbene sotto il capitale solo oggettiva, in quanto esiste sulla base di un piano di produzione. Nell’altro caso la socialità fra i produttori non solo è casuale ma lo è in linea di principio. Infatti in questo modo di produzione la socialità si afferma contro la volontà dei produttori, che vi si oppone soggettivamente in quanto essi si considerano e intendono essere produttori individuali indipendenti. Ma l’ostacolo esiste anche oggettivamente in quanto l’assenza di socialità, cioè la concorrenza, come avviene nella piccola produzione mercantile (ma anche per il modo di produzione capitalistico, limitatamente alla circolazione), è condizione essenziale della realizzazione di tale tipo di divisione del lavoro, in quanto in assenza di un piano diviene necessaria al fine di determinare l’allocazione delle risorse. Per cui è opportuno denominare tale divisione del lavoro mercantile, in quanto finalizzata necessariamente alla produzione di merci.

Finchè si pone come classe portatrice del lavoro sociale la borghesia svolge storicamente un ruolo progressivo, sviluppando la divisione del lavoro come modo di produzione consapevole, che è tale in quanto attuato come esecuzione di un piano di produzione, sebbene accettato passivamente. Infatti il capitale induce, - più esattamente, obbliga, - i singoli produttori isolati a lavorare per il capitalista, - quindi a collaborare fra loro, - rendendo manifesta la superiorità della cooperazione rispetto alla produzione di merci da parte di singoli produttori indipendenti, cioè in confronto alla piccola produzione mercantile. Però nel capitale tale modo di produzione è realizzato solo parzialmente in quanto la cooperazione viene applicata limitatamente all’interno di ciascuna unità produttiva. All’esterno, nelle sfera della circolazione, vale il principio del mercato, che caratterizza la produzione mercantile, importante non tanto riguardo la commercializzazione del prodotto finito, dove la ripartizione è un fatto compiuto, quanto per lo scambio forza lavoro contro salario. Perciò il fine del modo di produzione capitalistico, la produzione di merci, sta in contraddizione con il modo di produzione stesso in quanto cooperativo.


In realtà considerando la questione da vicino, la contraddizione si sdoppia. Accanto a quella ora menzionata vi è la contraddizione tra cooperazione nella produzione e appropriazione privata del prodotto. Tra le due vi è evidentemente un nesso, quale ? Occorre distinguere tra la contraddizione principale e il modo in cui questa viene non superata ma aggirata, modo che può essere altrettanto contradditorio ma in forme socialmente compatibili. Infatti la prima contraddizione è il modo in cui la seconda viene gestita dal capitale attenuandone il carattere di incompatibilità assoluta. Infatti la prima contraddizione compare nella circolazione e pone capitale e lavoro in un rapporto di scambio, cioè li pone nel mercato, mentre la seconda, che compare nella produzione, li pone in un rapporto di sfruttamento.


La prima contraddizione, quella tra cooperazione e la forma di merce del prodotto, è materializzata nella duplice natura del capitale: capitale monetario, dove si presenta come denaro e capitale produttivo, dove appare come processo di lavoro. Che il capitale debba apparire come denaro e quindi abbia bisogno come condizione di tale esistenza di una società mercantile sviluppata è ovvio, innanzitutto perché il capitale monetario deve poter trovare sul mercato come merci i fattori di produzione.  Ma questo non è il solo motivo del carattere duale del modo di produzione capitalistico, e nemmeno quello più importante. Infatti il capitale è essenzialmente valore che si valorizza, e per essere tale deve poter appropriarsi del lavoro. Il capitale realizza tale passaggio nella forma che gli è peculiare, cioè comprando il lavoro come forza lavoro, ciò che gli consente di acquisirla al di sotto del suo valore. Ma perché il lavoro divenga merce e anche merce che possa essere acquistata al di sotto del suo valore, occorre che il lavoro esista separato dai fattori di produzione, in modo che, per lo stato di necessità in cui si trova il suo proprietario, possa essere acquistato al prezzo minimo, quello della semplice sopravvivenza del lavoratore, o comunque inferiore a quello che il lavoro produce come lavoro salariato.

In tal modo non solo il capitalista realizza un plusvalore, ma, finalità altrettanto importante, può riprodurre la condizione di spossessamento del lavoratore, cioè la sua condizione di salariato. Quindi il rapporto di produzione tra capitalista e lavoratore viene definito nel mercato, sebbene si realizzi nella produzione come comando del capitale sul lavoro.


Potendo appropriarsi della forza lavoro attraverso il suo acquisto sul mercato il capitalismo può giustificare l’appropriazione privata del prodotto con il diritto di proprietà. Ma nel modo di produzione capitalistico l’appropriazione privata del prodotto nega il principio del lavoro libero, secondo il quale il produttore, libero per definizione, ha diritto ad appropriarsi tutto il prodotto. L’obiezione che viene avanzata dal capitale circa la validità di tale principio si fonda sulla distinzione tra libertà e proprietà. Infatti nel capitalismo vale il principio della libertà d’impresa, da cui discende che nella società borghese il lavoro è libero. Ma questa libertà d’impresa, quindi la libertà del lavoro, rimane una astrazione senza la proprietà dei mezzi di produzione. Questa circostanza viene ignorata scindendo libertà e proprietà. Infatti per il capitale l’individuo è sempre libero per definizione, per cui può essere o non essere proprietario senza per questo cessare di essere libero. Ma è la conseguenza di questa separazione ciò che ne costituisce la motivazione profonda e non dichiarata, il vero nocciolo della questione. Cioè il lavoro diviene una fattore della produzione e può essere alienato dal lavoratore, per cui il principio del lavoro libero viene ad essere modificato e la proprietà del prodotto attribuita non al produttore ma al proprietario dei fattori di produzione. Quindi il libero produttore potendo non essere proprietario dei fattori della produzione, compreso il lavoro, perde il diritto di appropriazione sul prodotto.

Il principio del lavoro libero ha un’ altra conseguenza. Cioè detratti i costi di produzione il plusprodotto appartiene al produttore. Questo significa che il lavoro è l’unico fattore che aggiunge valore ai fattori. Invece il principio di proprietà viene giustificato affermando che il prodotto, essendo il risultato dell’interazione dei fattori, è equivalente alla loro somma, più un prodotto eccedente, cioè C = c + v + pv, valore dei fattori e plusvalore. Quindi il prodotto deve prima reintegrare i fattori consumati nel processo di produzione, ciò che rimane è il plusprodotto che va ripartito tra i proprietari dei fattori. Se il proprietario è uno solo a lui va tutto il plusprodotto: è il caso della produzione mercantile semplice. Ma se il lavoro è stato venduto il lavoratore perde il diritto al plusprodotto e deve limitarsi a percepire il prezzo a cui è stato venduto il suo lavoro, che è pari alla reintegrazione del lavoro come fattore della produzione. Mentre il capitalista, in quanto proprietario di tutti i fattori si appropria tutto il plusprodotto, ma non può farlo come tale, in quanto non può dichiararsi acquirente e proprietario del lavoro, non può smentire il principio secondo il quale la libertà è indipendente dalla proprietà. Quindi dichiara che il profitto è la remunerazione del capitale, ammettendo così implicitamente che il lavoro è privo di remunerazione. Qui si può constatare come sotto il capitalismo libertà e proprietà siano due principi inscindibili.


La precedente posizione è insostenibile. Essa si può riassumere in due principi che sostituiscono il fondamento del modo di produzione capitalistico sono due. In sintesi, che è possibile oggettivare, quindi mercificare, i fattori della produzione; che il plusvalore va ai loro proprietari. Questi appaiono principi formalmente equi, ma significano nient’altro, - come si è visto, - che chi possiede un capitale monetario può acquistare i fattori di produzione, mezzi di produzione e forza lavoro, e così acquisire il diritto a tutto il plusvalore. Ma qui ci troviamo di fronte ad una situazione paradossale, poiché tale conseguenza non è enunciata come norma giuridica, ma appare come risultato di un libero accordo stipulato contrattualmente tra le parti. Anzi, in realtà tale clausola non viene nemmeno esplicitata ma appare come cosa ovvia. Quindi il prodotto è per definizione capitale, cioè capitale nella forma di merce, il quale, convertito nuovamente in capitale monetario deve solo trasformarsi nuovamente nei fattori della produzione. Cioè, remunerati i fattori della produzione, quindi il lavoro e i mezzi di produzione, mediante il salario e l’ammortamento, fattori in realtà solo reintegrati per quanto sono stati consumati nel processo produttivo, il prodotto netto, cioè il sovrappiù creato ex novo dal lavoro, è appropriato dai detentori dei fattori di produzione e suddiviso in profitto, rendita, interesse e imposta. Ora, che tale appropriazione abbia luogo mediante un accordo contrattuale formalmente libero è ciò che permette di occultare la violazione del principio fondamentale del lavoro libero, cioè che al produttore appartiene tutto intero il prodotto del proprio lavoro. Ma così non solo viene infranto un principio che risale all’economia “naturale” ma viene creata una ulteriore contraddizione con la cooperazione nella produzione.

La questione quindi si presenta nei seguenti termini: non è più il lavoro che crea la proprietà, ma la proprietà che si sostituisce al lavoro. Ma è lecita tale inversione ? Il problema si pone a due livelli. Sul piano oggettivo la risposta dipende dal significato che si attribuisce al termine produzione, cioè da che cosa si ritiene determini il processo di produzione. Mentre sul piano soggettivo la questione è se la proprietà dei fattori di produzione si estenda o meno al prodotto stesso. La risposta alla prima domanda determina quella alla seconda.

Infatti questo problema può essere posto oggettivamente in quanto il giudizio può essere fatto dipendere da ciò che determina il processo di lavoro quindi da ciò che determina la produzione. Il processo produttivo è l’interazione tra i fattori della produzione: forza lavoro e mezzi di produzione (strumenti e materie prime). Ma i mezzi di produzione sono a loro volta prodotti dal lavoro e vanno considerati come prodotti intermedi. Quindi i fattori si riducono a due, che si distinguono essenzialmente per la loro origine, rispettivamente naturale e storica:

- oggetto di lavoro, frutto di processi naturali;
- forza lavoro, risultato di processi sociali.

Che il primo enunciato sia vero è evidente, mentre per il secondo occorre notare che lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale rende il contributo del singolo sempre meno determinante allo svolgimento del processo produttivo. Ciò si riflette anche nel processo di lavoro dove l’interazione tra forza lavoro e oggetto di lavoro si riduce sempre più alla realizzazione di configurazioni di oggetti che interagiscono fra loro in modo determinato a priori, sfruttando a tal fine la conoscenza delle leggi naturali. Infatti Marx notava come “… la forza valorizzante della singola forza lavoro scompare come qualcosa di infinitamente piccolo.” (Grundrisse, p.392 ). Per cui è proprio il capitalismo a realizzare al massimo livello la socializzazione della forza lavoro.


Ma ciò che è prodotto della natura è proprietà collettiva, cioè universale. La proprietà privata è successiva, cioè una costruzione sociale, quindi un atto di appropriazione: occupazione, lavoro, compravendita, donazione, etc. regolato da convenzioni. Con la divisione del lavoro la stessa forza lavoro diviene un prodotto sociale e storico. Quindi anch’essa è proprietà collettiva essendo prodotta collettivamente dalla società, proprietà che successivamente il mercato mondiale rende anch’essa universale.

Quindi entrambi i fattori sono proprietà universale. Se ne deduce che anche il prodotto è proprietà universale, ma si deduce anche l’inalienabilità dei fattori di produzione, in quanto tale è il carattere della proprietà collettiva.

Pertanto il prodotto avrà il carattere di proprietà collettiva come conseguenza del carattere eminentemente sociale della divisione cooperativa del lavoro. Se tale conseguenza viene aggirata dal capitale mediante quella istituzione fondamentale della società borghese che è il contratto fra due individui giuridicamente liberi è perché il valore politico di tale modo di determinare il rapporto di produzione è decisivo. Ciò spiega perché il modo di produzione cooperativo venga realizzato contradditoriamente nell’ambito di un sistema di divisione sociale del lavoro, cioè di produzione mercantile.


Ma la questione può essere considerata dal punto di vista del singolo lavoratore giungendo alle medesime conclusioni. Cioè la questione può essere posta nei termini seguenti: il lavoro è qualcosa di oggettivo in sé che possa essere distinto dalla sua fonte, cioè il lavoratore stesso ? Nel contratto di lavoro tutto procede supponendo il carattere oggettivo del lavoro. Lo si quantifica in ore, lo si qualifica in mansioni, lo si valuta secondo una scala di categorie. Ma l’attribuzione di tale carattere di oggetto che appare insostenibile, poiché proprio il carattere storico ne denuncia l’origine sociale, cioè convenzionale.

Già la separazione tra lavoratore e mezzi di lavoro è una pratica sociale che nasce con il capitale, che permette ad esso di dominare il lavoro attraverso il possesso dei secondi. Già questa è una prevaricazione. Infatti, in precedenza la proprietà comprendeva di norma entrambi i fattori, considerati inscindibili. Il servo legato alla terra, l’artigiano alla sua bottega. Quindi il lavoro appariva o libero insieme alle sue condizioni di esistenza o asservito insieme ad esse. Non esistevano situazioni intermedie, salvo eccezioni. Il lavoro salariato era una pratica marginale, considerata umiliante, praticato solo in caso di estrema necessità e saltuariamente. Inoltre la sua esistenza era ostacolata dall’assenza di un mercato che fornisse con continuità le merci salario. Infatti fino a tempi recenti si produceva per l’autosufficienza, non per il mercato, salvo qualche eccedenza casuale.

Ma la vera prevaricazione costituita dalla separazione dei mezzi di produzione dal lavoratore sta nelle sua conseguenze. Prima di tutto nel fatto che essa produce necessariamente anche la separazione dal lavoro dal lavoratore. Poi nel fatto che questa seconda separazione riproduce la prima su scala crescente. Il mercato è la forma necessaria a tale riproduzione allargata, quindi alla conferma del diritto al plusprodotto reclamato dal capitalista. Naturalmente questo vale per il regime normale del ciclo capitalista, il capitale originario ha nasce da altre forme di accumulazione: il commercio, l’usura fino alla rapina pura e semplice, attività che vediamo unite spesso nella stessa persona.

Dunque, come si è visto, la proprietà dei mezzi di lavoro determina per il capitalista la proprietà del lavoro, la proprietà dei fattori della produzione determina la proprietà del prodotto. Il primo di questi trasferimenti di proprietà è essenzialmente scambio di lavori, di tempi di lavoro astratto, cioè socialmente necessario, di lavoro oggettivato (morto) contro lavoro soggettivo (vivo). Infatti qui il capitalista compra tempo di lavoro del lavoratore al prezzo di un tempo di lavoro inferiore, quello che il lavoratore impiegherebbe mediamente a produrre, se ne fosse capace, i beni necessari al proprio livello minimo di sopravvivenza. Questo primo passaggio ha luogo nella circolazione, cioè nel mercato del lavoro, dove vale la legge dello scambio tra equivalenti, che determina la prima forma di appropriazione, per trasferimento del diritto di proprietà mediante accordo tra le parti. Che ciò possa aver luogo in violazione della legge è spiegato, come si è visto, dalla differenza tra le forze contrattuali dei contraenti.

Il secondo passaggio avviene nella sfera della produzione, dove si ha la metamorfosi dei fattori della produzione nel prodotto finale. Ora vale la legge di trasferimento del valore, per cui il valore dei mezzi di produzione consumati si trasferisce nel prodotto finale. Per quanto riguarda il lavoro vale la legge della valorizzazione, per cui nel prodotto accanto al valore precedente compare quello del lavoro erogato, superiore a quello con cui è stato scambiato. Le leggi di trasferimento dei valori, determinate da quelle della metamorfosi dei fattori, determinano a loro volta la proprietà del prodotto. Per la prima legge la proprietà dei mezzi di lavoro partecipa alla proprietà del prodotto nella misura del loro consumo produttivo. Per la seconda legge tutto il resto deve andare al lavoro.

Questo è il punto cruciale. Il capitalista afferma di aver comprato il lavoro dei produttori: tot ore, non importa se pagate al giusto prezzo (che in un mercato non esiste). Quindi il risultato del lavoro è sua proprietà. Ma questa pretesa confligge con il secondo modo di appropriazione: la proprietà sorge dalla produzione, in particolare dal lavoro impiegati. Infatti per la legge del valore solo il lavoro (astratto) aggiunge valore ai mezzi di lavoro. E il lavoro è quello del produttore, anche se il capitalista afferma che si tratta del suo(!) lavoro. Cioè il lavoro è inseparabile dal lavoratore nella stessa misura in cui è inseparabile dalle condizioni della produzione, cioè della sua stessa esistenza. Se si pone questo come principio, ne segue un rovesciamento dei ruoli delle classi nel processo di produzione. La classe dominante diviene la classe del lavoro, non quella dei proprietari. Da questa ottica la proprietà del prodotto è incontestabilmente del lavoro, meno gli anticipi forniti dal capitalista. Cioè il prodotto totale detratto il consumo produttivo dei mezzi di lavoro e sottraendo anche il consumo individuale dei produttori. Cioè il plusprodotto è proprietà del lavoro, perchè lo ha prodotto.

Pertanto la questione, come sempre quando si tratta di rapporti sociali, è problema la cui soluzione dipende dalla definizione dei concetti in gioco e dai principi normativi che ne discendono. Ciò significa che è una questione di diritti, che sono in quanto tali essenzialmente rappresentazioni di rapporti di forza. Infatti la possibilità di fornire o negare, gli anticipi di capitale è ciò che costituisce la base del potere politico del capitale. Quindi dell’appropriazione dell’intero prodotto e della possibilità di obbligare i produttori a fornire essi in anticipo il loro fattore di produzione, il lavoro, e a fornirlo al prezzo minimo.

Perché i principi precedenti trovino applicazione è necessario capovolgere i ruoli e i rapporti di produzione, ma è già importante che la legge del valore dimostri tangibilmente che al di là delle apparenze feticistiche si consumi sotto gli occhi di tutti da una parte, nel mercato un gigantesco furto ai danni dei produttori attraverso pratiche truffaldine, mentre dall’altra, nella produzione vengono generati e continuamente rinnovati rapporti di potere materiali dispotici che contraddicono l’apparenza egualitaria del mercato.
Ma tutto ciò deve poter emergere alla coscienza e contestato nella pratica. Se non si sottovaluta il potere di accecamento che l’ideologia possiede nel campo dell’economia nella società capitalistica, non è un compito secondario demolire tali luoghi comuni, dati per scontato dal pensiero dominante.

Divisione del lavoro e materialismo storico

La critica del capitale è la critica della sua pretesa all’appropriazione dell’intero prodotto, non soltanto del plusvalore. Per non cadere in un atteggiamento donchisciottesco é necessario muovere una critica che parta dall’interno del capitale, che mostri come esso, proprio in base ai suoi stessi principi, non possa esistere che transitoriamente. A tal fine qindefinitamenteQQreggersi uindi occorre ricercare le sue contraddizioni, cioè mostrare come non possa essere quello che pretende di essere e quindi sia destinato a scomparire. Solo quando questo compito è stato assolto è possibile indagare quali nuovi principi, storicamente prodotti dall’impossibilità di esistenza del capitale, portino al suo superamento.


Secondo il materialismo storico, ciò che determina il movimento storico di una formazione sociale è la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. Quindi se quella che è stata posta come contraddizione fondamentale è veramente tale essa deve essere interpretabile nei termini propri del materialismo storico, cioè in termini di forze produttive e rapporti di produzione e della incompatibilità dei secondi in rapporto alle prime. E si esige inoltre, come conseguenza di tali premesse, che tale incompatibilità deve lasciare intravedere dietro la contraddizione le forme di un superamento già in atto.

Nel caso della contraddizione fondamentale le forze produttive sono chiaramente la divisione cooperativa del lavoro, in quanto nuovo livello raggiunto dal lavoro sociale, forza produttiva che tende a trapassare nel macchinismo. Tale forza è in contraddizione con il rapporto di scambio, che informa la divisione del lavoro nella società, e con il diritto di proprietà su cui è fondato. Ma questo è un rapporto non essenziale, cioè sovrastrutturale, fondamentale però indirettamente in quanto la sua funzione è quella di mascherare e riprodurre il vero rapporto di produzione, il rapporto di sfruttamento fondato sulla proprietà dei fattori della produzione. Quindi la divisione cooperativa del lavoro sviluppandosi entra sempre più in contraddizione con la scambio forza lavoro contro salario, che fonda e riconferma e allarga la proprietà dei mezzi di produzione da parte del capitale e quindi del rapporto di sfruttamento, in quanto tale proprietà permette ai sui titolari di appropriarsi di tutto il prodotto e in particolare di tutto il plusprodotto.


1. Rapporti naturali e sociali


Qui però siamo ancora al livello dei rapporti politici, cioè di dominio sociale. Non siamo ancora giunti al fondamentale e concreto rapporto di produzione quale si presenta nel luogo stesso della produzione. Infatti i rapporti di produzione sono determinati dalla posizione dei produttori nel processo produttivo, dal carattere essenziale della funzione svolta in esso. Ciò determina la forma del rapporto che tra classi è sempre conflittuale.

Il fatto che i rapporti di produzione sono determinati dallo sviluppo delle forze produttive significa che i rapporti sociali sono essenzialmente definiti dal rapporto che una certa formazione sociale esplica con l’ambiente naturale. Le classi nascono dalle differenti posizioni che i membri della società hanno nel processo complessivo di ricambio organico che intercorre tra società e natura, cioè dalla loro collocazione nell’ambito della divisione del lavoro vigente in tale società. Nel caso del capitalismo vige la cooperazione e il macchinismo, per cui la complessità della divisione del lavoro è tale che sempre più si rende necessaria una complessa e rigida divisione dei compiti. Cioè la cooperazione manifatturiera esige una fondamentale divisione dei produttori tra dirigenti ed esecutori. Di qui la polarizzazione sociale del capitalismo e l’esistenza di una classe borghese e una proletaria complementari e contrapposte.


2. La contraddizione fondamentale in termini materiali: cooperazione e conflittualità.

La proprietà dei mezzi di produzione assume quindi carattere ambivalente. Appare sia lo strumento necessario per poter esplicare il ruolo di direttori del processo di produzione svolto dai capitalisti, che la base materiale per affermare i loro privilegi di classe dominante.

Ma tale contraddizione determina ulteriori contraddizioni. La proprietà privata dei mezzi di produzione fa sì che il processo di produzione si realizzi sì come cooperazione, ma solo in quanto finalizzata all’estorsione del plusvalore. Quindi non può essere attuata nella sua forma adeguata, l’organizzazione dei produttori liberamente associati, ma solo in quella di una cooperazione forzata di individui isolati, - forma mascherata di servitù, - forma che è in contraddizione con se stessa già nella produzione. Infatti una cooperazione costrittiva è una “contradictio in terminis”, che non è veramente tale in quanto contraddice il suo stesso concetto. Infatti questo genere di cooperazione ne vanifica i vantaggi in quanto essa può realizzarsi solo per mezzo di una struttura gerarchica oggettivamente inessenziale, in quanto giustapposta a quella tecnica, realizzando così una inutile duplicazione della struttura produttiva in una parte esecutiva e una direttiva ma quest’ultima in realtà essenzialmente ispettiva, speculare alla prima, che per essere realmente efficace richiederebbe il raddoppio del personale. Non potendo giungere a tanto il controllo individuale è attenuato e sostituito da un regolamento interno che codifica il dispotismo del capitalista. Per cui tale duplicazione è contestuale a una serie di sanzioni disciplinari, e di elargizioni premiali, che diviene il vero elemento unificante tra i cooperanti, ma che costituisce un nesso esteriore ed estraneo alla cooperazione. Ma non solo, tale nesso è anche controproducente, poiché la sua necessità discende solo dal carattere estraneo ai produttori di una cooperazione imposta dall’esterno, per cui nasce essenzialmente dall’esigenza del capitalista di controllare l’esecuzione dei compiti di ciascun produttore.

Naturalmente tale sistema di controllo viene presentato sul piano oggettivo e razionale come necessario per l’organizzazione della produzione stessa, cioè per l’esecuzione del piano di produzione. Ma in realtà tali strutture hanno come fine reale quello di stornare l’attenzione dal vero obbiettivo dell’impresa capitalistica, cioè la produzione di plusvalore. Questa, che è la vera finalità, mette in luce una ulteriore contraddizione della produzione capitalista, quella di non avere come fine i produttori stessi, i loro bisogni, ma una parte soltanto dell’unità produttiva, la proprietà, elemento che si pone per principio come esterno alla produzione stessa, come semplice percettore di profitto senza alcuna funzione essenziale nella produzione stessa, se non quella puramente esteriore di capitalista, ciò che gli permette di essere proprietario dei mezzi di produzione  e titolare del comando sul lavoro.

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