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Capitalismo e grande industria (Cinico Engels)

di Enrico Galavotti

bahr arbeitsunfall akg 2 g111 a8 1889 1Le rivoluzioni nel capitalismo maturo

E' difficile cercare di capire il motivo per cui, nel suo Anti-Dühring, Engels ritenesse che solo “la grande industria sviluppa quei conflitti che rendono ineluttabilmente necessario un rivoluzionamento del modo di produzione: conflitti non solo tra le classi ch’essa forma, ma anche tra le stesse forze produttive e le forme di scambio ch’essa parimenti crea”. È come se avesse voluto dire: “Siamo arrivati a un punto tale di progresso tecnologico e produttivo che è impossibile andare avanti senza cambiare qualcosa di molto significativo”. La grande industria, nata intorno al 1830, “sviluppa, proprio in queste gigantesche forze produttive, anche i mezzi per risolvere questi conflitti”. Come se prima della grande industria non ci fossero stati i mezzi e i modi per risolvere alla radice i problemi dell’antagonismo sociale!

Questo modo di ragionare è quanto meno deterministico. Forse saremmo esagerati a sostenere che per Engels le rivoluzioni “socialiste” sono possibili solo in presenza di un capitalismo maturo; però di sicuro voleva dire che, in assenza di tale capitalismo, le rivoluzioni sono destinate a fallire i loro obiettivi, a inverarsi nel loro contrario. Nella sua concezione di socialismo il capitalismo maturo porta le contraddizioni a un tale livello di conflittualità che le rivoluzioni diventano inevitabili. È un modo di accontentarsi: anche nel caso in cui manchi la volontà politica di emanciparsi, ci penseranno le circostanze, con tutta la loro crudezza, a farla venir fuori. Detto altrimenti: il proletariato farà la rivoluzione quando sarà disperato, quando non avrà più nulla da perdere, se non avrà saputo farla prima, in condizioni più decenti, più vivibili.1

Tuttavia, anche se ciò fosse vero, non si capisce perché in questa condizione estrema il proletariato dovrebbe saper creare il migliore socialismo possibile, quello più democratico. In genere, quando si reagisce alla disperazione, si compiono azioni impulsive, scriteriate, tutt’altro che democratiche. Non ha alcun senso dire che le rivoluzioni non sono mai state coerenti con se stesse perché mancava il capitalismo maturo.

Volendo, si potrebbe sostenere il contrario, e cioè che proprio il capitalismo maturo, disponendo di immense risorse persuasive e coercitive, è in grado d’impedire qualunque rivoluzione socialista.2 Ovvero che sarebbe stato più facile realizzarla al tempo dello schiavismo o del servaggio feudale, quando ciò che impediva di emanciparsi era uno stato di coercizione fisica, priva di un raffinato condizionamento ideologico. Oggi il capitalismo maturo pretende di esportare la democrazia nel mondo intero.

Probabilmente Engels era così fatalista perché non aveva visto un proletariato industriale davvero capace di imporsi. Era rimasto profondamente deluso degli esiti delle rivoluzioni europee del 1848-50. Esattamente come Marx, che aveva però avuto un sussulto al tempo della Comune di Parigi del 1871, analizzata in maniera intelligente, e che sperava si compisse una rivoluzione socialista almeno nella Russia dei populisti. Engels invece detestava persino il movimento operaio inglese, che pur era molto combattivo sul piano sindacale e molto propositivo su quello cooperativistico.

Lenin, che conosceva tutto della Comune di Parigi, arrivò alla conclusione che la rivoluzione comunista sarebbe stata possibile in Russia proprio perché questo immenso Paese costituiva l’anello debole del capitalismo avanzato e perché qui esisteva una resistenza più dura alle contraddizioni del capitale. O meglio, aveva capito che se il proletariato industriale fosse stato lasciato a se stesso, al massimo si sarebbero avuti dei moti ribellistici spontanei o delle rivendicazioni salariali compatibili col sistema, con risultati politici di tipo riformistico, del tutto parziali. La rivoluzione avrebbe potuto essere realizzata solo se il proletariato si fosse fatto guidare da un partito di intellettuali organici, consapevoli che il sistema andava superato in quanto tale, sin dalle sue fondamenta.

Engels, ma anche il Marx inglese, parlavano come dei rivoluzionari sconfitti, come dei teorici privi di un partito di professionisti della politica eversiva. Con Lenin invece abbiamo capito che, per fare la rivoluzione, non un colpo di stato, ci vuole un partito organizzato, disciplinato, abituato a lavorare anche nella clandestinità, capace di aggregare masse imponenti intorno a qualunque battaglia significativa e che, al momento opportuno, può essere mandato alla conquista del potere, come se fosse un potente esercito.

Quando mai è esistito un partito socialista del genere in Europa occidentale? I partiti socialisti o anche comunisti sono stati prevalentemente dei partiti parlamentari, soprattutto quello tedesco di Kautsky e di Bernstein, epigoni dei classici del marxismo. I partiti extraparlamentari sono sempre stati del tutto inconsistenti sul piano numerico. Solo in rare occasioni hanno svolto un’attività che si può definire “rivoluzionaria” o “eversiva”: nel cosiddetto “Biennio rosso” della III Internazionale oppure durante la Resistenza (che coincisero coi due grandi traumi post-bellici), o nel periodo che va dal 1968 al 1977, dopo la sfuriata del cosiddetto “boom economico” degli anni Cinquanta e Sessanta. Forse l’unico vero momento in cui la borghesia europea ha tremato per colpa della sinistra è stato quello della Comune di Parigi, durata però dal 18 marzo al 28 maggio del 1871.

In nessun momento questi partiti socialcomunisti sono stati capaci di vera coerenza rivoluzionaria. Il motivo probabilmente sta nel fatto che mancava la determinazione in carattere, la ferma volontà di procedere sino in fondo nella realizzazione degli obiettivi strategici generali. Il benessere aveva corrotto le menti, infiacchito la volontà. I dirigenti dei partiti socialcomunisti si sono rivelati, nei momenti decisivi, degli opportunisti. E non si può dire che il proletariato industriale abbia saputo fare di meglio.

Il capitalismo è un sistema sociale che condiziona le coscienze, più di ogni altro sistema sociale precedente. Questo perché il tipo di schiavismo che impone di vivere è raffinato, appare poggiante su basi democratiche e l’industrializzazione garantisce delle comodità materiali impensabili nel passato. Il proletariato industriale è giuridicamente libero. Tutti i cittadini lo sono, per cui lo sfruttamento economico sembra essere il frutto di una libera scelta. Il mercato del lavoro è libero, impostato su una contrattazione tra domanda e offerta, esattamente come quello delle merci. Chi vende e chi compra vengono fatti passare per persone equivalenti, paritetiche. La schiavitù sembra essere accettata liberamente, non perché imposta da una forza fisica o materiale esterna (p.es. l’abilità militare o il possesso della terra).

Engels sapeva perfettamente come stavano le cose, al pari di Marx, ma non ne traeva le debite conseguenze operative. Infatti era convinto che quando la schiavitù salariata sarà allargata a dismisura, coinvolgendo anche i ceti relativamente indipendenti della piccola borghesia, il cosiddetto “ceto medio”, cioè quando la stragrande maggioranza della popolazione sarà “proletarizzata” e non avrà più nulla da perdere, la rivoluzione diventerà inevitabile, e a quel punto sarà la forza delle circostanze a suggerire le misure migliori per superare il capitalismo maturo.

Bisogna dire che questo suo determinismo peccava d’ingenuità. Come si può pensare che un aumento generalizzato, quantitativo, della sofferenza sociale possa portare a una migliore consapevolezza delle alternative da realizzare? Sono cose completamente diverse. La crescita esponenziale della miseria non comporta affatto, in maniera automatica, un aumento della lucidità mentale. Anzi, può anche creare dei mostri che compiono azioni criminali, prive di qualunque forma di eticità: il nazismo o lo stalinismo o il maoismo non sono forse nati così?

Quando si ragiona in questi termini, non si è poi capaci di valorizzare chi dice di essere in grado di realizzare una vera alternativa al sistema prima ancora che si formi una miseria generalizzata. Lo si etichetterà facilmente di avventurismo, proprio perché si preferirà aspettare un improvviso rivolgimento delle masse popolari, nella convinzione che, così facendo, esse potranno dimostrare di avere una medesima coscienza eversiva.

Se le “condizioni oggettive” per fare la rivoluzione non ci sono, chiunque le desideri, verrà immediatamente considerato un utopista. Come se ci potesse essere qualcuno in grado di stabilire quando tali condizioni oggettive s’impongono in maniera evidente! Come se tali condizioni non possano essere il frutto di un lavoro soggettivo, finalizzato alla loro creazione! Un partito rivoluzionario non deve forse saper approfittare delle debolezze del sistema in qualunque momento? L’unica cosa che deve garantire non è forse che la rivoluzione sia davvero popolare? E che essa sia in grado di difendersi dalla reazione delle classi privilegiate, che tenderanno a opporsi in tutti i modi e con qualunque mezzo alla loro espropriazione?

Engels non aveva idea di come si dovesse gestire un partito rivoluzionario. Ancorato com’era a una rigida successione di diversi stadi di sviluppo del modo di produzione, per lui la rivoluzione alla fine diventava un unico atto storico, la cui necessità era lapalissiana. L’Internazionale comunista, che aveva organizzato insieme a Marx, non aveva una caratterizzazione rivoluzionaria vera e propria. Era solo un punto d’incontro tra le varie esperienze politico-partitiche del socialismo europeo e nordamericano, ed era tutta presa a combattere, al proprio interno, le varie forme di estremismo (p.es. quella anarchica di Bakunin o del blanquismo cospirativo, tipico anche dei mazziniani) e di moderatismo (p.es. quella proudhoniana, lassalliana o delle trade-unions inglesi). Abbiamo dovuto aspettare Lenin per vedere un vero partito comunista.

Le condizioni oggettive non sono soltanto quelle create spontaneamente dall’economia capitalistica. Sono anche quelle che si ottengono contestando tutte le contraddizioni del sistema. Se la critica è puntuale, circostanziata, su ogni più piccolo particolare, e non si presenta come fine a se stessa o per avere una direzione politica ancora più autoritaria, ma per realizzare una vera transizione al sistema, è impossibile non ottenere un vasto consenso. È la borghesia stessa che alimenta l’odio sociale nei suoi confronti. E se in seguito a tali contestazioni s’impone l’autoritarismo cesarista, deve essere chiaro a tutti che ciò avviene per paura di una rivoluzione socialista, non tanto per gestire meglio le contraddizioni del capitale.

Bisogna dimostrare che si vuole maggiore democrazia e che il sistema non è in grado di offrirla proprio perché poggia sul mero profitto industriale e sulla rendita finanziaria e, più in generale, sulla proprietà privata dei mezzi produttivi. Non si possono concepire i processi economici e politici come una “necessità naturale”, in cui gli uomini sono rappresentanti oggettivati, privi di vera personalità. Anche perché in tal modo il socialismo scientifico assume la funzione di un dogma, perdendo quella, più specifica, di “guida per l’azione”.

 

Capitalismo maturo e imperialismo

Engels precisa meglio il suo pensiero facendo questa osservazione: “Il proletariato [industriale] che cominciava [appena finita la rivoluzione francese] a distaccarsi da queste masse nullatenenti, come ceppo di una nuova classe, ancora assolutamente incapace di un’azione politica indipendente, si presentava come un ceto oppresso, sofferente, al quale, nell’incapacità in cui era di aiutarsi da se stesso, un aiuto poteva tutt’al più portarsi dall’esterno, dall’alto”. È così che Engels spiega la nascita del socialismo utopistico di Saint-Simon, Fourier e Owen. In pratica egli considerava politicamente immaturo il proletariato industriale proprio perché non era adeguatamente sviluppata la grande industria.

Questo modo di ragionare è davvero curioso: Engels faceva dipendere la consapevolezza politica a favore della transizione socialista dallo sviluppo del capitalismo industriale, cioè proprio dalla condizione che meno favorisce quella transizione. Per lui era solo la grande industria il demiurgo che produce la classe operaia che lotta, ovvero l’inevitabile crollo del sistema. Vedeva il movimento operaio come un proletariato omogeneo di fabbrica e non come una coalizione eterogenea di varie classi sfruttate. Ignora, p.es., le lotte anticapitalistiche del XVIII secolo.

Ragionamenti del genere probabilmente dipendevano dal fatto che quando non si dirige un partito politico rivoluzionario, e nel contempo si desidera il compiersi di una transizione al socialismo, l’unica alternativa che resta è quella di augurarsi che le contraddizioni diventino così esplosive da generare esse stesse un soggetto rivoluzionario. In pratica il meglio sarebbe dovuto venir fuori dal peggio, come nella dialettica hegeliana la sintesi non è che la negazione della negazione. Un atteggiamento del genere, in antropologia, potrebbe essere definito di tipo “magico”.

Engels, in sostanza, era convinto che il capitalismo maturo avrebbe generato una crescente miseria, e siccome gli operai industriali erano quelli più consapevoli dei limiti del sistema, in quanto erano loro a produrre la maggiore ricchezza, ricevendo in cambio solo un misero salario, avrebbero dovuto essere proprio loro a prendere le redini della rivoluzione. Peraltro il proletariato industriale, a differenza di tutti gli altri lavoratori, andava considerato anche come classe molto organizzata e disciplinata: erano gli stessi imprenditori a pretenderlo.

In quali forme la storia si è incaricata di dimostrare che questo modo di vedere le cose era completamente sbagliato? Anzitutto il capitalismo maturo basa prevalentemente le proprie ricchezze non tanto o non solo sullo sfruttamento dei propri lavoratori, ma anche e soprattutto su quello dei lavoratori delle “colonie”3, le quali sono anche ricche di risorse naturali a buon mercato e costituiscono ampi sbocchi commerciali per le merci del capitalismo occidentale. È vero che nel capitalismo maturo dovrebbe, in teoria, aumentare la miseria, ma in pratica ciò sembra avvenire (almeno in maniera macroscopica) soltanto nelle “colonie”, e gli imponenti flussi migratori verso l’occidente (tanto per fare un esempio) starebbero lì a dimostrarlo. Cioè finché esistono “colonie” da sfruttare, la miseria che si vive in occidente è ben poca cosa rispetto a quella che si patisce nelle “colonie”. E chi nelle “colonie” vuole emanciparsi da questa miseria, facilmente acquisisce stili di vita o modelli di comportamento tipicamente occidentali, a meno che non sia in grado di maturare autonomamente una consapevolezza “socialista” delle cose.

In secondo luogo la crescita del benessere in occidente, a scapito del Terzo Mondo, ha reso il proletariato industriale (ma anche chiunque investa in titoli provenienti dai Paesi emergenti) responsabile, seppure indirettamente, dello sfruttamento delle “colonie”. In tale atteggiamento oggettivo, squisitamente economico e finanziario, non si può ravvisare alcuna premessa per la futura rivoluzione socialista. Anzi, il proletariato occidentale, nel momento stesso in cui ha visto aumentare i propri salari (e quello industriale è addirittura diventato, nell’ambito del proletariato in genere, una sorta di casta privilegiata), ha smesso di rivendicare un’alternativa globale al sistema. Generalmente, infatti, ci si limita ad avanzare richieste di tipo sindacale. Gli stessi dirigenti socialisti o democratici si sono ampiamente imborghesiti. Il socialismo è diventato solo riformistico, di piccolo cabotaggio, e s’impegna, oggettivamente, a puntellare il sistema borghese, non avendo alcun interesse a mettere in relazione il benessere dell’occidente con lo sfruttamento del Terzo Mondo.

Quindi non solo il proletariato industriale non è la classe meglio predisposta a compiere la rivoluzione, ma, oggettivamente, è anche quella che più contribuisce allo sfruttamento delle “colonie”, tant’è che reagisce negativamente quando nuove masse di diseredati provenienti dal Terzo Mondo si riversano in occidente in cerca di fortuna. Gli operai occidentali meno qualificati vedono i derelitti dell’emisfero Sud, disposti a lavorare sotto qualunque condizione, come dei pericolosi concorrenti. E nessuno in occidente (se non quelli che ci ricavano un utile o che hanno un cuore compassionevole) è disposto a mantenere con l’assistenza pubblica decine di migliaia di indigenti che giungono da noi in massa. L’elemosina può essere fatta solo entro certi limiti, oltre i quali diventa un fardello insopportabile, anche perché è facile argomentare che il denaro utilizzato per i migranti potrebbe essere devoluto ai ceti più bisognosi dell’occidente.

D’altra parte quando nessun politico socialista mette in relazione il benessere dell’occidente col malessere del Terzo Mondo, è difficile che in occidente vi sia qualcuno che esamini, oggettivamente, la situazione di dipendenza economica del Terzo Mondo nei confronti delle economie più sviluppate del pianeta. Per poter sapere qualcosa sulla dipendenza coloniale e neocoloniale del Terzo Mondo, bisognerebbe, come minimo, andare a consultare le opere di Samir Amin, A. Gunder Frank, Hosea Jaffe…, le quali però sono quasi sconosciute in Europa occidentale (in Italia però stanno cominciando ad avere un certo riscontro quelle di Luciano Vasapollo).

Si dirà che ai tempi di Marx ed Engels non vi era uno sfruttamento coloniale così sofisticato come quello odierno, dove gli strumenti finanziari (si pensi solo alla questione del debito) paiono più persuasivi delle cannonate del colonialismo classico. Sappiamo tutti che lo sfruttamento coloniale sistematico è iniziato già con le spedizioni ispanico-lusitane di mezzo millennio fa. Ai tempi dei fondatori del socialismo scientifico4 si era in presenza di un neonato imperialismo europeo (anzitutto anglo-francese in varie parti del mondo, ma anche italo-tedesco e belga in Africa) e ovviamente statunitense in America Latina e nipponico in Asia, quello che scatenerà le prime due guerre mondiali. Ma per avere un quadro chiaro di questa ulteriore forma di colonialismo ci volle l’analisi di Lenin, che non si avvalse, in merito, delle opere di Marx ed Engels, i quali, tutto sommato, ne parlarono poco, probabilmente perché erano ancora troppo affascinati dai successi produttivi della grande industria e auspicavano che il capitalismo industriale si diffondesse in tutto il mondo, per poter avere un enorme proletariato che l’avrebbe affossato come un becchino.

Nella visione dei due ideologi tedeschi il proletariato avrebbe dovuto accettare l’industria così com’era, sul piano materiale, modificandone solo l’assetto proprietario. L’industria andava socializzata nella proprietà, mentre a livello tecnologico non poteva che essere ulteriormente perfezionata. Inutile dire che questo modo di porsi era completamente sbagliato, poiché proprio l’industrializzazione massiva costituisce il più grande handicap della storia per la riproduzione della natura. Marx ed Engels erano convinti che con la scienza e la tecnica, una volta realizzato il socialismo, si sarebbero risolti tutti i problemi creati dalla stessa scienza e tecnica, gestita in maniera capitalistica.

Oggi la moderna ecologia nutre seri dubbi su questa capacità. I difetti dell’industrializzazione sembrano essere del tutto indipendenti dalla gestione politica dei processi economici. Su questo però bisogna dire che nessun comunista, neppure Lenin, ha mai avuto le idee chiare. Marx sapeva bene che l’agricoltura capitalistica danneggia la qualità del suolo, ma in Russia, durante l’edificazione del socialismo statale, tutti erano convinti che l’industria pesante, unitamente alla statizzazione della proprietà, avrebbe portato a un benessere progressivo, generalizzato, senza che la natura ne avesse da soffrire granché. Le forze produttive della borghesia non si potevano mettere in discussione. Inoltre lo stalinismo era convinto che senza l’industria pesante sarebbe stato impossibile affrontare militarmente l’occidente.

 

Oltre il socialismo scientifico

La contraddizione maggiore in queste riflessioni di Engels è bene espressa in questa frase lapidaria: “All’immaturità della produzione capitalistica, all’immaturità della posizione delle classi corrispondevano teorie immature”. Di qui l’esigenza di creare “esperimenti modello” (tipici del socialismo utopistico), destinati a essere assorbiti dal sistema borghese.

Che i limiti del socialismo utopistico anche oggi vengano considerati evidenti, è pacifico. È letteralmente impossibile costruire isole economiche di socialismo all’interno di un sistema chiaramente capitalistico. Per costruire il socialismo occorre anzitutto abbattere politicamente il sistema. Su questo non vi sono dubbi. Semmai oggi ci chiediamo come creare un’alternativa alla statizzazione della proprietà. Il cosiddetto “socialismo reale” è fallito proprio perché aveva statalizzato tutto, alla maniera “asiatica”, come al tempo dello schiavismo il cosiddetto “modo di produzione asiatico” rappresentava una specie di “schiavismo statale”5. Invece di lavorare per eliminare progressivamente lo Stato, lo stalinismo aveva finito col rafforzarlo all’estremo, trasformandolo in una sorta di “Grande Fratello”, come se a ciò si fosse obbligati proprio per la mancanza di un diffuso benessere economico.

Non a caso oggi, nell’ambito della migliore sinistra, si parla di “socializzazione della proprietà”, antitetica alla “statalizzazione”. Ma come ciò possa essere fatto è ancora tutto da stabilire. Infatti se lo Stato deve avere un ruolo marginale sul piano economico, allora vuol dire che devono risultare centrali le comunità locali e regionali, e che se un “piano” deve esserci, al fine di eliminare l’anarchia produttiva, esso va deciso a livello locale e regionale.

Dare importanza a tali comunità, renderle responsabili di se stesse, significa, inevitabilmente, favorire l’autoconsumo e quindi la vendita sui mercati soltanto delle proprie eccedenze. Il che vuol dire considerare il valore d’uso di molto superiore al valore di scambio. Tutte cose che il socialismo scientifico non avrebbe visto di buon occhio, proprio perché ha sempre temuto di propagandare l’immagine di un “socialismo della miseria”.

I classici del marxismo han sempre detto che il socialismo è una sintesi di rivoluzione industriale, compiuta dalla borghesia, e di gestione centralizzata dell’economia da parte di un organismo statale (almeno nella fase iniziale). La proprietà privata veniva prevista solo nelle piccole cose, estranee allo sfruttamento del lavoro altrui (p. es. un pezzo di terra lavorato in proprio). Poi col tempo l’autorganizzazione dei produttori diretti avrebbe fatto a meno anche dello Stato.

Tuttavia il cosiddetto “socialismo reale”, sovietico o cinese, non ha mai promosso una responsabilità del genere a favore delle masse popolari. Difficile dire se i rispettivi governi non abbiano fatto in tempo o se proprio non l’avessero nel loro dna. Un esperimento è addirittura imploso, trasformandosi in una sorta di capitalismo statale. L’altro ha invece conservato la dittatura politica del “socialismo reale”, autorizzando però lo sviluppo capitalistico sul piano sociale, sulla base di un compromesso che non si sa quanto tempo potrà durare. Noi occidentali, infatti, sappiamo bene che il capitalismo favorisce l’individualismo, e questo non sopporta d’essere gestito dall’alto, almeno non oltre un certo limite.

 

Il ruolo della soggettività nelle rivoluzioni

Ma torniamo all’argomento di prima. Dove sta la contraddizione più stridente di Engels? Semplicemente nel fatto che le sue teorie e, ancora più, quelle di Marx maturano in un paese, la Germania prussiana, ch’era ancora molto indietro sul piano dello sviluppo capitalistico. Anche prescindendo dal fatto ch’essi provenivano dalla regione della Renania, che sicuramente era tra i länder tedeschi la più sviluppata in senso borghese, non è assolutamente vero che le teorie rivoluzionarie si sviluppano solo nell’ambito del capitalismo maturo.

In realtà nessuno sa come si formino le teorie rivoluzionarie. Anzi, potremmo sostenere il contrario di ciò che dice Engels, e cioè che la resistenza allo schiavismo era sicuramente più forte quando ancora esistevano tracce significative del comunismo primordiale, quello preistorico; e che tale resistenza è andata tanto più scemando quanto più tali tracce sono andate definitivamente scomparendo. Non a caso lo schiavismo classico, quello nato seimila anni fa e che è durato sino alla nascita del feudalesimo, era impostato su rapporti di forza fisica, brutale, legittimato dalla mitologia e dalle religioni politeistiche pagane. Non aveva bisogno di ricorrere a sofisticate argomentazioni ideologiche per potersi imporre, benché tali argomentazioni servano sempre in una fase iniziale: oggi, p.es., in occidente il capitale può farne a meno, in quanto il diffuso benessere (in rapporto a quell’80% dell’umanità che invece non fruisce di alcuna forma di protezione sociale) ha fatto piazza pulita dello spirito critico.

Oggi la resistenza all’oppressione nasce non in virtù di un’esperienza comunitaria del passato, che si voleva conservare nella memoria, ma in virtù di un desiderio disperato di superare delle contraddizioni assolutamente insopportabili, che rendono indegna la vita. Oggi è la disperazione che, nel migliore dei casi, porta a desiderare il socialismo. Ma nella disperazione si possono compiere errori colossali, proprio perché si è persa la memoria del socialismo più democratico della storia, quello che si viveva prima che si formasse lo schiavismo e che gli storici han posto, con molta supponenza, fuori della storia, chiamandolo appunto “preistorico”.

Come sia stato possibile che nella Germania arretrata sia venuto fuori un socialista come Marx, di origine ebraico-borghese, seguito a ruota da Engels, di origine pietistico-borghese, nessuno può saperlo. Come nessuno può sapere come sia emerso Lenin in Russia, ch’era ancora più arretrata della Germania, la ruota di scorta di tutto il capitalismo europeo. Di questi geni dell’umanità bisognerebbe prendere atto e basta, riconoscendoli come tali. Cosa che però raramente succede, in quanto nessuno è profeta pro domo sua. Ognuno di loro ha dovuto subire difficoltà a non finire prima che le proprie teorie venissero accettate.

Il problema, semmai, è un altro, ed è tutto pratico. Cos’hanno fatto questi geni dell’umanità, mentre erano in vita, per convincere i loro contemporanei che le loro idee erano sufficienti per mutare qualitativamente la realtà? Potremmo forse dire che tali persone eccezionali non hanno potuto far molto a causa del fatto che le condizioni storico-oggettive non erano sufficientemente mature per compiere una rivoluzione socialista o per compierla in maniera democratica? Quando c’è di mezzo la violazione della dignità umana e soprattutto della libertà di coscienza (quella che permette di scegliere il proprio destino) le condizioni oggettive sono sempre mature per ribellarsi. Ci mancherebbe, infatti, che una popolazione oppressa, prima di compiere una rivolta, debba attendere passivamente che le contraddizioni si esasperino da sole, cioè che la negatività del sistema diventi così grande da indurre la gente a ribellarsi. Il rivoluzionario non è un cinico con aspirazioni alla magia.

Ciò che manca è, nelle persone comuni, la consapevolezza di dover prendere delle decisioni radicali, e soprattutto la capacità di organizzare una strategia operativa con cui compiere la conquista del potere. Ciò che è mancato, in questi geni dell’umanità, che pur avevano piena consapevolezza delle cose da cambiare, è stata la capacità organizzativa di compiere la rivoluzione. Fino adesso la si è vista solo in Lenin. Neppure in Mao la si è vista. Infatti non si tratta solo di “compiere” la rivoluzione, ma anche di saperla “gestire”. E bisogna dire che nella fase della gestione, Mao fu un disastro completo, al pari di Robespierre o di Stalin o di Pol Pot. Lenin invece continuò a essere lungimirante sia prima che dopo, pur con tutti i suoi limiti e anche se purtroppo morì prematuramente.

Tuttavia, in seimila anni di storia “schiavistica”6 un solo vero genio dell’umanità è troppo poco. Forse ne avremmo potuti aver due, se Gesù Cristo non fosse stato tradito dai suoi stessi discepoli. Peraltro, proprio a proposito di Lenin vien da chiedersi come sia stato possibile che subito dopo la sua morte si sia formata una delle peggiori dittature della storia. Quali premesse, per scongiurarla, erano venute meno? Poteva Lenin porre le basi per favorire uno sviluppo davvero democratico del socialismo? E quali sono queste basi? Sarebbe importante saperlo per la volta successiva. Hanno mai saputo indicarle i classici del socialismo scientifico? È forse possibile farlo astrattamente, sul piano etico o umanistico, a prescindere dal confronto politico vero e proprio? O forse queste basi esistono già da qualche parte e non ce ne siamo accorti? Dobbiamo forse guardare con occhi diversi quello che è stato e che ancora oggi è, molto debolmente, in qualche luogo remoto del pianeta, il cosiddetto “comunismo primitivo”? Cioè quella fase della storia umana, durata decine di migliaia di anni, in cui gli antagonismi sociali non esistevano affatto o non erano comunque irriducibili?

 

Individualismo e statalismo nel capitalismo europeo

L’ultima parte degli “Elementi teorici” dell’Anti-Dühring (pp. 334-41) è tutta dedicata al capitalismo monopolistico-statale.

In via preliminare va detto che Engels non vede l’aspetto statale del capitalismo nell’industria più propriamente produttiva, bensì in quelli che lui definisce “grandi organismi di comunicazione”: poste, telegrafi e ferrovie. Forse anche meglio di Marx aveva capito che, a certi livelli, lo sviluppo capitalistico ha bisogno di un intervento esplicito dello Stato nella gestione dell’economia, un intervento organico, di lunga durata, non estemporaneo, per ripianare situazioni di emergenza. Argomento, questo, che Lenin tratterà ampiamente nel suo Imperialismo.

Il tema è indubbiamente complesso, anche perché Engels vede questo capitalismo statale come anticamera del socialismo, quando invece non lo è affatto, poiché è proprio in questa forma gestionale che il capitalismo cerca di screditare al massimo l’idea stessa di “socialismo”.7 E questo senza poi considerare che in una nazione ad elevato PIL è relativamente facile che anche i “grandi organismi di comunicazione” vengano privatizzati, o che gli Stati intervengano a ripianare i debiti delle grandi imprese o banche private (ovvero a “socializzare le perdite” con le tasse dei cittadini), senza assumersene direttamente l’amministrazione. Anzi, in un momento come questo (siamo quasi alla fine del secondo decennio del XXI sec., ancora alle prese con la crisi mondiale scoppiata nel 2008), dettato da esigenze europeistiche e globalistiche, le imprese private in difficoltà non hanno scrupoli a cedere i loro diritti di proprietà a imprese private straniere. Gli stessi Stati sono costretti a cedere una parte significativa della loro sovranità nazionale.

Questo per dire che il capitalismo occidentale, per tradizione o per cultura storica, è più portato a favorire le privatizzazioni che le statizzazioni, e quando si sviluppa a livello mondiale, guarda con sufficienza i limiti degli Stati nazionali: non ha paura di spersonalizzarsi. Semmai è il continente asiatico che si comporta diversamente. L’individualismo è una caratteristica dell’occidente dai tempi della Chiesa romana, che lo praticava sul piano politico, facendo del pontefice un soggetto infallibile, superiore a qualunque istanza conciliare e sempre in aperta competizione con gli imperatori. Poi, a partire dal 1517, tale individualismo è stato generalizzato a livello sociale dal protestantesimo, che ha eliminato gli aspetti oggettivi dell’istituzione ecclesiastica, trasformando il singolo credente in un pontefice di se stesso. Cosa che non riuscì a fare la borghesia italiana, che pur conduceva uno stile di vita individualistico sin dalla nascita dei Comuni.

Probabilmente l’unica nazione protestantica, in Europa occidentale, che ha continuato ad attribuire una certa importanza allo Stato politico è stata la Germania, il cui capitalismo oggi mostra d’essere ben solido, nonostante lo scandalo delle emissioni della Volkswagen e la crisi senza fine della Deutsche Bank. Ma i motivi di ciò vanno cercati nella cultura militaresca dei Sassoni. È vero che nell’ambito del capitalismo occidentale vi sono Paesi in grado di competere tranquillamente con la Germania, come p.es. Stati Uniti, Regno Unito e Francia, dove lo Stato non ha la stessa importanza, ma ciò è dovuto alle opportunità offerte dalle passate imprese imperialistiche, che fanno sentire il loro peso ancora oggi. La Germania cercò di dotarsi di colonie, scatenando due guerre mondiali, ma le perse entrambe, e per recuperare il tempo perduto fu costretta a rinunciare alla propria identità specifica, di cui tanto si vantava, non essendo stata colonizzata dai Romani, e dovette diventare un Paese di forte immigrazione (attualmente il 12% dell’intera popolazione), soprattutto sul versante turco (Berlino è la più grande città turca in Europa).

L’Italia invece può essere considerata un caso particolare, poiché, pur non avendo uno Stato forte come quello tedesco, né una tradizione imperialistica come quella statunitense, britannica e francese, possiede un elevato PIL (attestato al settimo posto nel mondo), dovuto a una miriade di piccole e medie imprese la cui cultura risale alla formazione e allo sviluppo dei Comuni, delle Signorie, dei Principati. La mentalità capitalistica è nata proprio in Italia (oltre che nelle Fiandre), anche se la Controriforma ha impedito ad essa di svilupparsi in forme moderne, quelle più propriamente industriali. In Italia il capitalismo industriale è stato un prodotto d’importazione, come nel resto del mondo, esclusa ovviamente la Gran Bretagna.

 

La statizzazione dell’economia borghese

Ma torniamo all’Anti-Dühring. In una lunga nota di p. 335 Engels prende in esame il caso della Prussia, dove il capitalismo sembra aver assunto una connotazione statalistica più accentuata che negli altri Paesi europei. Egli intende riferirsi alla statalizzazione delle ferrovie compiute da Bismarck; e si lamenta che, a seguito di ciò, una parte dei socialisti dica che ogni atto di statizzazione è una forma di socialismo.

Siccome però ha sostenuto in precedenza che proprio la statizzazione di alcuni “grandi organismi di comunicazione” è la prova più lampante della necessità di passare al socialismo, ora si sente in dovere di spiegare la differenza tra la sua posizione socialista e quella degli altri (è da presumere si stesse riferendo soprattutto a Ferdinand Lassalle, il quale era convinto che, con progressive e mirate riforme, si potesse controllare lo Stato borghese dall’interno, senza aver bisogno di compiere alcuna rivoluzione comunista, e questa sua idea condizionerà tutta la II Internazionale).

E cosa dice Engels di così convincente da far meritare al suo socialismo l’appellativo di “scientifico”, cioè di “non borghese”? Ecco la frase-chiave: “solo nel caso in cui i mezzi di produzione o di comunicazione si siano effettivamente sottratti al controllo delle società anonime, in cui quindi la statizzazione sia divenuta economicamente inevitabile, solo in questo caso essa, anche se viene compiuta dallo Stato attuale, rappresenta un progresso economico, il raggiungimento di un nuovo stadio preliminare nella presa di possesso di tutte le forze produttive da parte della società”.8

In pratica Engels avrebbe affermato che il capitalismo statale può essere considerato l’anticamera del socialismo (“un nuovo stadio preliminare”) solo se lo Stato elimina le grandi imprese private capitalistiche (qui chiamate col termine di “società anonime”).

Lo stalinismo, quando iniziò a smantellare la NEP leniniana, doveva aver guardato con molta soddisfazione una nota del genere. Qui infatti si arriva a dire, nella maniera più deterministica possibile, che lo Stato costituisce l’istanza più significativa per il passaggio dal capitalismo avanzato al socialismo vero e proprio. Naturalmente, mentre Engels lo diceva senza poter fare riferimento a una preliminare rivoluzione politica da parte dei comunisti, lo stalinismo invece poteva dirlo proprio in forza di quella rivoluzione.

Una posizione, quella engelsiana, d’incredibile ingenuità. Come si può pensare che lo Stato borghese, nato per risolvere i problemi della borghesia ben 500 anni fa, possa tradire la sua fondamentale classe di riferimento per fare gli interessi del proletariato industriale? Come si può pensare che lo Stato borghese possa avere i poteri per eliminare le cosiddette “società anonime”? La gestione delle grandi imprese capitalistiche può essere eliminata solo da una rivoluzione socialista, la quale può servirsi delle funzioni statali per fronteggiare la resistenza della borghesia, che certamente non si farà espropriare senza reagire.

Ma c’è di più. Eliminato il pericolo di una generale controrivoluzione, occorrerà da subito fare una cosa che la Russia post-leniniana non riuscì assolutamente a fare: porre le basi per il superamento delle stesse istituzioni statali, poiché, se c’è una cosa che deresponsabilizza i cittadini, è proprio lo Stato.9 Se non si formano immediatamente delle comunità locali autogestite, non sarà possibile scongiurare il rischio che le istituzioni statali vengano usate dai governi in carica per una svolta autoritaria. Le comunità locali devono essere messe in grado di difendersi da sole dagli attacchi dei nemici interni ed esterni, eventualmente stringendo alleanze tra loro, laddove la situazione del momento lo richieda. Se la gestione dell’economia non è autonoma, le comunità locali non saranno mai in grado di difendersi da sole, e vedranno sempre lo Stato come un potenziale nemico, anche quando si aspetteranno aiuti assistenziali.

Le istanze politiche sovralocali non possono essere “istituzionalizzate”. Può esserlo, semmai, la periodicità con cui convocare degli organi collegiali in cui si mettono a confronto i problemi locali delle varie comunità. Ma in genere la convocazione di tali organi ha senso se viene richiesta da quelle comunità che hanno effettivamente dei problemi da risolvere. Neppure la frequenza delle convocazioni può essere regolamentata. Semmai tutte le comunità vanno lasciate libere di confrontare le loro esperienze, eliminando qualunque barriera che le divida, che impedisca lo scambio reciproco delle esperienze. Sono i confini che vanno eliminati, onde favorire decisioni autonome in relazione agli scambi culturali. L’omologazione o l’uniformità degli stili di vita va evitata come la peste. Solo la diversità arricchisce.

 

La trasformazione della borghesia

Ma questo argomento è così importante che Engels merita d’essere citato alla lettera, anche perché il cosiddetto “socialismo reale” è crollato proprio perché veniva amministrato dall’alto, e una qualunque alternativa al capitalismo oggi non può non prevedere un superamento del socialismo statale, pena l’impossibilità di scongiurare i rischi della burocratizzazione del sistema.

Scrive dunque Engels, mostrando, in questo, una certa perspicacia previsionale: “Se le crisi hanno rivelato l’incapacità della borghesia a dirigere ulteriormente le moderne forze produttive, la trasformazione dei grandi organismi di produzione e di traffico in società anonime e in proprietà statale mostra che la borghesia non è indispensabile per il raggiungimento di questo fine. Tutte le funzioni sociali del capitalista sono oggi compiute da impiegati salariati”. E poi ancora: “Il capitalista non ha più nessuna attività sociale che non sia l’intascar rendite, il tagliar cedole e il giocare in borsa, dove i capitalisti si spogliano a vicenda dei loro capitali”.

Si noti anzitutto la sopravvalutazione dell’importanza delle crisi, che spesso compie chi non è impegnato a costruire un vero partito rivoluzionario. Molti economisti marxisti han sempre sostenuto il contrario, e cioè che proprio grazie alle sue crisi periodiche il sistema si rafforza ulteriormente. Detto altrimenti: un conto è se la crisi viene sfruttata dai lavoratori per porre in atto una transizione; un altro conto è se i lavoratori la subiscono passivamente, permettendo al capitale di ristrutturarsi.

Nell’ambito del capitalismo, infatti, non esiste solo la contrapposizione tra operai e imprenditori, ma anche tra gli stessi imprenditori, che a volte può essere anche più forte. P.es. la II guerra mondiale non iniziò con uno scontro tra Paesi capitalisti e Russia socialista, ma all’interno dell’Europa occidentale. Soltanto quando la Germania nazista poté avvalersi delle risorse umane e materiali dell’Europa, avvenne l’attacco all’Urss.

La seconda cosa da sottolineare è che Engels non capiva che, pur nella sua varietà di forme in cui si presenta sulla scena, lo stile di vita borghese, in occidente, presuppone sempre sia il carattere privatistico dell’appropriazione del plusvalore, sia l’aspetto individualistico dei soggetti sfruttatori. Chi penserebbe oggi che il mafioso va in giro con la coppola e il fucile a canne mozze? Dunque, per quale ragione si dovrebbe pensare che il borghese non esiste più proprio in quanto l’attività capitalistica è gestita da società anonime o dallo stesso Stato? Non sono le forme che cambiano la sostanza. È questa che assume varie forme a seconda delle circostanze, restando immutata la sua essenza. La borghesia non coincide con soggetti specifici più di quanto non coincida con una rappresentazione ideale.

Già Marx l’aveva detto, in una Prefazione del Capitale: i soggetti dell’agire economico sono personificazioni di categorie astratte. Sotto questo aspetto è del tutto fuori luogo pensare che nell’attuale Cina non si possa parlare di capitalismo privato solo perché al governo vi è un partito comunista. Semmai – dal punto di vista borghese – ci si dovrebbe complimentare con quei dirigenti per aver compiuto un’operazione del tutto inedita sulla scena mondiale, per quanto l’idea di un “socialismo di mercato” fosse già presente nella ex-Jugoslavia degli anni Sessanta e nella cosiddetta “Primavera di Praga” del 1968.

In terzo luogo bisogna dire che i manager che gestiscono le imprese capitalistiche non possono far nulla senza confrontarsi con chi detiene la maggioranza dei pacchetti azionari. Essi prendono delle cifre colossali, sottratte al plusvalore estorto agli operai, ma restano dei dipendenti dei proprietari delle imprese. Il fatto che degli “impiegati salariati” svolgano un mestiere che in precedenza veniva svolto dagli stessi proprietari, sta solo ad indicare che la gestione delle imprese, su scala planetaria, è diventata una cosa molto complessa, richiedente competenze molto specifiche, studi qualificati, che non necessariamente deve possedere il proprietario (singolare o plurale) della stessa impresa (senza poi considerare che oggi una stessa impresa produce cose molto diverse tra loro, che esigono competenze multilaterali). I manager di oggi son come i fittavoli del periodo medievale, che il nobile assumeva per dirigere l’azienda agraria secondo criteri capitalistici. Se un proprietario agricolo ha una mentalità borghese, può anche mettersi a gestire in proprio i suoi terreni, ma se non l’ha, può tranquillamente vivere di rendita.

In quarto luogo bisogna dire che se è vero che oggi un capitalista tende a vivere come un parassita, è anche vero che non smette mai di controllare le sue proprietà, proprio perché è questo possesso materiale delle cose che dà senso alla sua vita. È solo in apparenza che gli imprenditori non svolgono più, direttamente, il lavoro di prima, preferendo approfittare della maturità del capitalismo per affidare a terzi la gestione dei loro patrimoni. È vero, si fidano molto di più dei loro consiglieri e non temono affatto di essere derubati dei loro averi a causa di una insurrezione popolare. Quando diventano molto sospettosi è perché hanno incontrato dei borghesi più furbi di loro (p.es. degli hacker che entrano nei loro conti correnti bancari, o dei manager estremamente capaci di falsificare i bilanci a loro vantaggio, o delle mogli che approfittano di risarcimenti colossali in caso di divorzio). Ma un imprenditore non smette mai di esserlo. Il senso della sua vita sta unicamente nell’accumulare capitali e, per farlo, è disposto a qualunque cosa, anche a far credere, con grande soddisfazione personale, che, avendo già il mondo in mano, non può essere corrotto da nessuno.


Note
1 Ai tempi di Marx ed Engels, quando l’imperialismo era ancora in fasce e gli imprenditori non potevano tenere alti i salari nelle madrepatrie utilizzando tutte le risorse umane e materiali nei continenti asiatico, africano e sudamericano, lo sfruttamento degli operai era molto più intenso di oggi. Ma tutto è relativo, nel senso che oggi, p.es., i macchinari sono molto più sofisticati e, a parità di unità lavorativa, producono molto di più, anche se l’operaio lavora con meno fatica e in meno ore. Inoltre le attività più nocive alla salute o più onerose il capitale tende a trasferirle nei paesi cosiddetti “emergenti”, dove chiunque è disposto a fare qualunque lavoro per qualunque salario e dove i diritti sindacali e persino quelli in generale sono molto risicati. Questo per dire che lo sfruttamento psico-fisico-intellettuale è una cosa, quello più propriamente economico-produttivo un’altra, proprio perché ci sono sempre di mezzo le macchine, da cui il capitalismo non può prescindere, pena la sua trasformazione in schiavismo allo stato puro.
2 I governi degli Stati Uniti, il paese più capitalistico del mondo, concepiscono il socialismo solo come un nemico da abbattere. Non sono abituati a confrontarsi con le sue idee. Fanno molta fatica a tollerare la presenza di un partito socialista o comunista all’interno del loro Paese. Lo stesso popolo americano sembra non chiedersi affatto se questo atteggiamento governativo sia da considerarsi normale: semplicemente lo danno per scontato. Quando contestano le azioni dei loro governi, non lo fanno mai appellandosi a qualche idea del socialismo, anche se ne avrebbero tutti i motivi. Per loro l’uguaglianza non proviene dal socialismo, ma solo dalla democrazia. Eppure non si può dire che gli Stati Uniti non abbiamo conosciuto idee ed esperienze di “socialismo”: basterebbe guardare che cos’erano le tribù native sino alla seconda metà del XIX sec. Oggi comunque il comunismo americano è sostanzialmente filo-cinese.
3 Mi rendo conto che un termine del genere oggi può apparire obsoleto e, per molti versi, fastidioso, in quanto non si parla più del Terzo Mondo come di un’area colonizzata bensì “emergente”. Tuttavia una cosa è la dipendenza economica, che per molti Paesi perdura sin dal XVI sec., un’altra è la dipendenza politica, che effettivamente si è parzialmente ridotta dopo la fine della II guerra mondiale. I fatti dell’imperialismo o del globalismo cosa dimostrano? Che non sempre una indipendenza politica implica, di necessità, anche una indipendenza economica: che questo sia vero lo si vede anche nella situazione che attualmente stanno vivendo i Paesi europei dell’ex “socialismo statale”, i quali hanno deciso di abbracciare il capitalismo senza rendersi ben conto di non avere armi sufficienti per competere con quello occidentale. Si potrebbe anzi dire che i modi economici o finanziari per tenere un Paese in uno stato di “dipendenza” si sono col tempo raffinati in maniera proporzionale all’aumentata richiesta di indipendenza politica.
4 A dir il vero la denominazione di “socialismo scientifico” risale al solo Engels, e proprio in relazione alla polemica contro Dühring, che da alcuni politici della socialdemocrazia tedesca veniva visto come un eccellente scienziato in grado di criticare Marx. Per Engels il socialismo scientifico era un prodotto essenzialmente tedesco, proprio perché qui era nata la dialettica. Bernstein, il cui riformismo avrà la meglio nella II Internazionale, preferiva invece usare la formula “socialismo critico”, opponendo alla filosofia hegeliana quella kantiana.
5 Il che non riguardava unicamente l’Asia (India, Cina, ecc.), ma anche l’Africa (Egitto dei faraoni) e l’America delle civiltà precolombiane.
6 Anche il feudalesimo e il capitalismo, seppure in modi diversi, sono due forme di schiavitù: che la dipendenza sia fisica, personale o contrattuale non cambia molto lo stato di soggezione del lavoratore. Sotto il cosiddetto “socialismo reale” abbiamo anche assistito alla dipendenza più strettamente ideologica.
7 È forse qui il caso di ricordare che sia il fascismo che il nazismo si ponevano, nella loro fase iniziale, come realizzatori del “socialismo” dal punto di vista della piccola-borghesia. Di qui l’aspetto apparentemente “rivoluzionario”.
8 È probabile che una nota così lunga sia stata inserita successivamente, dopo che qualcuno (Marx?) gli avrà detto che tra il suo socialismo e quello dei prussiani iscritti all’Internazionale non vi era, in definitiva, una differenza sostanziale.
9 Da notare che già nel Manifesto si afferma che nelle mani dello Stato avrebbero dovuto esserci, transitoriamente, fino al superamento del concetto stesso di “Stato”, la proprietà fondiaria, la produzione industriale, una banca nazionale e i mezzi di trasporto.

Comments

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Mario Galati
Thursday, 22 November 2018 15:45
Appunto. Dici bene: "nell'anello debole del capitalismo europeo", a conferma che non si prescinde da uno sviluppo e un contesto capitalistico. L'approccio di Lenin della rottura della catena inperialistica nel suo anello debole corrisponde a quello di Marx nella lettera a Vera Zasulic.
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Enrico Galavotti
Wednesday, 21 November 2018 18:04
Ciò che dici non vuole affatto dire che le rivoluzioni socialiste siano possibili solo in ambito capitalistico, altrimenti non si spiega perché la prima di esse sia avvenuta in Russia, l'anello debole del capitalismo europeo. È da quando esiste lo schiavismo che si tenta di superare l'antagonismo sociale in chiave socialistica, pur senza usare questa parola. Il fatto che ancora non si sia riusciti a farlo, non significa che noi siamo avvantaggiati. Anzi, considerando i poteri a disposizione del capitale, dovremmo pensare il contrario.

Quoting Mario Galati:

Una semplice conflittualità e alternatività di soggetti sociali, che prescindano dalle condizioni obiettive e dallle contraddizioni tra livello delle forze produttive e rapporti di produzione, come condizione per la rivoluzione è puro populismo, non marxismo. Tanto meno leninismo.
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Mario Galati
Tuesday, 20 November 2018 10:50
Una semplice conflittualità e alternatività di soggetti sociali, che prescindano dalle condizioni obiettive e dallle contraddizioni tra livello delle forze produttive e rapporti di produzione, come condizione per la rivoluzione è puro populismo, non marxismo. Tanto meno leninismo. Su questo è chiaro Pasquale Voza, nell'articolo su Gramsci e Laclau pubblicato su questo sito ("Dal popolo -nazione al populismo: Gramsci e Laclau")
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Enrico Galavotti
Monday, 19 November 2018 12:18
Sostenere che in una società arretrata sul piano economico non si possa costruire il socialismo, significa smentire tutto il leninismo. Non erano certamente paesi arretrati la Francia, la Gran Bretagna, la Germania al tempo della I guerra mondiale. Eppure proprio nel momento in cui, vedendo quel si stava facendo in Russia, le loro forze di sinistra avrebbero potuto tranquillamente fare un'analoga rivoluzione socialista, si limitarono invece a svolgere il mestiere del lacchè del capitale, e quando iniziarono a insorgere, fu un fallimento totale.
In realtà il livello economico di un paese non c'entra niente con la possibilità di una transizione socialista. Là dove si presentano contraddizioni antagonistiche irriducibili a qualunque compromesso, lì esiste sempre la possibilità di una rivoluzione. Il resto dipende solo dalla consapevolezza di tale necessità e dalla capacità di sapersi adeguare, sul piano organizzativo, al raggiungimento dello scopo.
Semmai ci si può chiedere perché il socialismo al potere abbia bisogno di ricorrere a forme capitalistiche di produzione o di commercio. Il motivo è molto semplice: si teme di realizzare un “socialismo della miseria”. Cioè si vuole conservare TUTTA la rivoluzione tecnico-scientifica del capitalismo, senza chiedersi se questa tecnologia sia compatibile con le necessità della natura e se non sia essa stessa il frutto di un senso individualistico della vita, in cui la competizione è la prima regola.
E così, invece di ottenere un socialismo davvero democratico, si ha soltanto un socialismo mercantile, cioè una parodia del capitalismo, una forma statalizzata di qualcosa di privatistico. Infatti per gestire quei livelli abnormi di sviluppo tecnologico, occorre non una progressiva estinzione dello Stato ma un suo progressivo rafforzamento. La dittatura politica centralizzata deve sostituire la grande disponibilità di capitali privati.
Quoting Mario Galati:

... in una società a basso grado di sviluppo capitalistico non sarebbe possibile costruire il socialismo, ma solo una società più democratica. --- se pensiamo alla Russia ed alla Cina. In entrambi i casi c'è stata la necessità di elevare le forze produttive (anche per urgenze e necessità "internazionali").
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Mario Galati
Sunday, 18 November 2018 16:28
Chiedo scusa a Luca Benedini, ma mi sono espresso male io. Lui era stato abbastanza chiaro. Quello che ritenevo da approfondire è il fatto che in una società a basso grado di sviluppo capitalistico non sarebbe possibile costruire il socialismo, ma solo una società più democratica. Il chiarimento di Benedini dà comunque una risposta. La cosa è molto complessa, se pensiamo alla Russia ed alla Cina. In entrambi i casi c'è stata la necessità di elevare le forze produttive (anche per urgenze e necessità "internazionali"). In Russia dopo la NEP c'è stata la collettivizzazione. In Cina si fa ricorso a rapporti capitalistici. In entrambi i casi è la rivoluzione ad assumersi il compito proprio del capitalismo di elevare le forze produttive. Questa fase necessaria non se la ritrovano già pronta. In entrambi i casi i processi sono guidati da partiti comunisti, ma non c'è nessun passaggio immediato al socialismo-comunismo. Proprio oggi ascoltavo in mp3 un seminario di Losurdo, nel quale evidenziava una posizione teorica di Mao a proposito interessantissima. Ma non intendo riaccendere la discussione.
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Enrico Galavotti
Saturday, 17 November 2018 18:12
Che il capitalismo sia necessario al socialismo è ancora tutto da dimostrare. Hosea Jaffe lo negava.
I classici del socialismo scientifico erano abbacinati dai successi della rivoluzione tecno-scientifica della borghesia. Ancora non avevano sperimentato gli effetti devastanti a livello planetario sull'ambiente. Temevano un socialismo della miseria e non capivano che una cosa è la miseria, un'altra è la moderazione, uno stile di vita che rispetta le esigenze riproduttive della natura.
La natura non può essere vista solo come una fonte di risorse da sfruttare, un oggetto del dominio dell'essere umano. Noi dobbiamo realizzare un socialismo che sia democratico ed ecologico.
Quoting Mario Galati:

Lo sviluppo capitalistico è comunque necessario per il passaggio al socialismo, solo che non deve necessariamente coincidere con la realtà nazionale in cui si fa la rivoluzione.
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Luca Benedini
Saturday, 17 November 2018 15:58
Beh, quello che volevo dire - visto che sto cercando di riassumere il pensiero di M&E - è quello che loro stessi hanno detto p.es. nella prefazione del 1882 al "Manifesto". Se non si capiva, vuol dire che non mi sono espresso molto bene. Ma quello che vorrei approfondire è che la realtà storica del '900 ha mostrato che quella previsione fatta nel 1882 da M&E (e poggiante in pratica sulla "visione della storia" delineata in particolare da Marx nel 1859 nella prefazione a "Per la critica dell'economia politica", visione comunque costantemente rivalutata criticamente e aggiornata di fatto da M&E) era sostanzialmente centrata. Tutte le rivoluzioni novecentesche condotte in paesi "arretrati" non hanno costruito alcun socialismo (e, rifiutandosi di essere semplicemente "progressiste" e di rimanere pertanto in un ambito democratico-borghese, anche se ovviamente accompagnato dall'impostare la società nel modo più vicino possibile alle esigenze e alla tutela della qualità della vita delle classi lavoratrici, hanno finito col diventare regimi generalmente ancor più oppressivi di quanto avviene in molti degli Stati borghesi...).
Insomma, M&E hanno posto una questione: oltre al cosiddetto "comunismo primitivo" (che ancora pare praticato da certe società tribali, inclusa una zona come il Chiapas messicano, e che si basa in linea di massima sull'autosufficienza di popolazioni rurali, con attività contadino-artigianali), se si vuole costruire un socialismo/comunismo a partire da una base produttiva molto più estesa di quella - con presenza di tecnologie complesse, sviluppo della scienza, laboratori, capacità industriali, ecc. - il mondo ci mette davanti condizioni oggettive e soggettive. M&E hanno cercato per tutta la vita di focalizzarle in modo estremamente onesto e con grande impegno personale a tutti i livelli. Quasi tutta la sinistra novecentesca ha preso un'altra strada, dividendosi - tranne non numerose eccezioni - in una sinistra moderata e una rivoluzionaria che hanno l'una idolatrato le condizioni oggettive (finendo in economicismo, subalternità al capitale, ecc.) e l'altra santificato le condizioni soggettive (cioè cercando di fare il socialismo dovunque e comunque basta che ce ne fosse una "voglia diffusa" sufficiente a conquistare il potere per via insurrezionale). Tra l'una e l'altra di queste strade finite di fatto socialmente in "vicoli ciechi", è rimasto qualcuno che ha cercato vie un po' più integrate, ma insomma la distanza dalla qualità della riflessione di M&E appare rimasta molto grande, anche se qualche libro molto bello è stato fatto (su qualche specifico aspetto della società e della vita) e alcune esperienze più o meno belle di evoluzione sociale e di lotta creativa e capace di buoni risultati ci sono state.
Personalmente - per quanto riguarda l'editoria - ho trovato molto più soddisfacenti, nel '900, autori non strettamente politici come specialmente Riane Eisler, Erich Fromm, Masanobu Fukuoka, Carl Rogers, Mary Daly e sull'economia lo stesso Keynes. Ma le "masse", nonostante la bella esperienza sessantottina e i suoi effetti, alla fin fine continuano a godere molto poco della qualità delle riflessioni condotte da M&E nell'Ottocento e da questi altri nel Novecento.... Purtroppo, alle masse finora la filosofia (intesa non in senso intellettualistico, ma concreto, riguardante il vivere quotidiano) non è arrivata molto.
Mi fermo qui, per evitare commenti-fiume.... Aggiungo solo che nell'insieme il commento di Mario Galati mi pare ampiamente condivisibile.
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Mario Galati
Saturday, 17 November 2018 09:49
"È precisamente grazie alla sua contemporaneità con la produzione capitalistica, che essa potrebbe appropriarsene tutte le acquisizioni positive senza passare da quelle terribili peripezie. La Russia non vive isolata dal mondo moderno; e nemmeno è preda della conquista straniera alla stessa maniera delle Indie Orientali".
E' questo il senso del possibilismo di Marx circa la costruzione del socialismo in Russia senza passare necessariamente per lo sviluppo russo del capitalismo. Non l'aiuto o il sostegno della rivoluzione socialista nei paesi capitalisticamente più avanzati europei alla rivoluzione russa.
Alla base ci troviamo il concetto hegeliano della storia universale e dell'esperienza storica universale, della sua acquisizione per via culturale senza necessariamente passare dalla loro esperienza materiale. C'è il concetto della totalità e dei necessari rapporti tra i vari elementi che si instaurano al suo interno. Lo sviluppo capitalistico è comunque necessario per il passaggio al socialismo, solo che non deve necessariamente coincidere con la realtà nazionale in cui si fa la rivoluzione.
Come si vede, il determinismo nel passaggio tra modi di produzione non scompare, ma perde quell'immediatezza meccanica che è propria di tanti loro interpreti, non di Marx e di Engels.
Che loro ipotizzassero solo la possibilità di una rivoluzione democratico-borghese in Russia a causa della sua base contadina, come sembra affermare Luca Benedini, sarebbe una cosa da approfondire.
Ma di sicuro bisognerebbe evitare di ridurre il tutto a tattica e strategia militare (circa la possibilità che si instauri il comunismo dell'obscina così com'è. Cosa del tutto estranea al pensiero di Marx), come sembra fare Enrico Galavotti.
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Enrico Galavotti
Thursday, 15 November 2018 17:10
Sembra che tu abbia diritto all'ultima parola in quanto supervisore ideologico del pensiero dogmatico. Mi ricordi Suslov.
Le concezioni che Marx e Lenin avevano del partito erano per molti versi opposte, semplicemente perché in Europa occidentale il socialismo cosiddetto “scientifico” è sempre stato, sul piano politico, o spontaneistico (cioè fiducioso nelle capacità eversive delle masse proletarie: vedi p.es. la Luxemburg, preceduta dagli stessi Marx ed Engels) o deterministico (cioè intenzionato a sviluppare riforme sociali progressive e una battaglia meramente parlamentare, senza alcuna forma di clandestinità, senza un vero rapporto con le masse contadine e ignorando completamente una propaganda eversiva tra le forze armate). Questa seconda forma di socialismo la si ritrova anche nel Marx inglese e soprattutto in Engels.
Risultato di questa strategia? Tutto il socialismo euroccidentale votò, dal 1850 al 1914, i crediti per il colonialismo e l'imperialismo dei rispettivi Stati e votò i crediti di guerra con cui favorì enormemente lo scoppio della I guerra mondiale.
È vero invece quello che dici, ma io non l'ho mai negato: che in Russia sarebbe potuta avvenire – secondo Marx ed Engels - una rivoluzione borghese a prescindere dall'aiuto del proletariato occidentale. Cosa che in effetti avvenne sia nel 1905 che, soprattutto, nel febbraio 1917.
Quoting Luca Benedini:

Uffa. Potremmo disquisire sulle varie accezioni del termine "conoscere". Se lei preferisce sostituirlo con "capire", per me va benissimo, basta che ci si capisca.... Comunque confermo: anche dopo questa sua risposta, secondo me lei di Engels (e in misura minore anche di Marx) ha "capito" proprio poco.... E non credo sia il caso di continuare sul tema come in una partita a tennis.... Aggiungo solo che la concezione marx-engelsiana del partito e quella leniniana non possono che essere molto diverse, perché, mentre per Lenin, nell'esperienza della Russia ed eventualmente di altri paesi cosiddetti "arretrati", il partito doveva essere l'avanguardia di un proletariato socialmente minoritario (in quanto la grande maggioranza del popolo era contadina o artigiana), M&E lavoravano principalmente nella prospettiva di paesi in cui il proletariato era o stava diventando tendenzialmente maggioritario socialmente, di modo che il suo peso nell'insieme della società poteva essere numericamente preponderante.
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Luca Benedini
Thursday, 15 November 2018 13:34
Uffa. Potremmo disquisire sulle varie accezioni del termine "conoscere". Se lei preferisce sostituirlo con "capire", per me va benissimo, basta che ci si capisca.... Comunque confermo: anche dopo questa sua risposta, secondo me lei di Engels (e in misura minore anche di Marx) ha "capito" proprio poco.... E non credo sia il caso di continuare sul tema come in una partita a tennis.... Aggiungo solo che la concezione marx-engelsiana del partito e quella leniniana non possono che essere molto diverse, perché, mentre per Lenin, nell'esperienza della Russia ed eventualmente di altri paesi cosiddetti "arretrati", il partito doveva essere l'avanguardia di un proletariato socialmente minoritario (in quanto la grande naggioranza del popolo era contadina o artigiana), M&E lavoravano principalmente nella prospettiva di paesi in cui il proletariato era o stava diventando tendenzialmente maggioritario socialmente, di modo che il suo peso nell'insieme della società poteva essere numericamente preponderante. Tra l'altro, Blanqui non c'entrava per nulla con M&E, avendo una concezione della lotta politica enormemente diversa dalla loro (lo stesso Engels ne accenna nelle sue introduzioni del 1891 e del 1895 che ho già citato nel mio commento precedente) e, caso mai, più vicina a quella che poi Lenin sviluppò.
Come le ho già scritto nel commento precedente, Engels ha anticipato Marx sul tema della comune agricola russa iin un articolo del 1875. Se vuole approfondire la questione può trovare tutto (con commenti del curatore) nel volume antologico marx-engelsiano "India Cina Russia".
Non è vero neanche che M&E non considerassero affatto possibile una vittoriosa rivoluzione russa senza il socialismo occidentale. Quello che loro non consideravano possibile senza tale appoggio era una rivoluzione vittoriosa E SOCIALISTA. Ma una rivoluzione vittoriosa e "progressista" (altro modo per dire "interna comunque ad una società di tipo borghese", ma orientata in senso il più attento possibile alle esigenze popolari) la ritenevano possibilissima. E solo nel 1923 Lenin (e poi il partito bolscevico in genere) cambiò strada rispetto a questo modo di vedere le cose, perché fino ad allora la pensava esattamente così.
Comunque, non ho intenzione di confutare più queste infinite alterazioni e deformazioni che lei fa del pensiero marx-engelsiano. Quindi chiudo qui. E le rifaccio sinceramente tanti auguri.
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Enrico Galavotti
Thursday, 15 November 2018 11:13
Forse volevi dire che di Engels ho “capito” pochissimo, non che “conosco” pochissimo. Di Engels ho letto praticamente tutto quanto c'era da leggere in lingua italiana, e anche di Marx. Magari il II e il III volume del Capitale non proprio per intero. Ma ho sempre confidato in Lenin quando diceva che la politica è una “sintesi” dell'economia.
Che tu invece abbia letto in pochi giorni 5 pdf che ci ho messo anni e anni a scrivere, mi pare dubbio.
Ribadisco che Engels, pur avendo detto che le rivoluzioni non possono essere dei colpi di stato, non fu mai in grado di gestire un partito rivoluzionario che non fosse blanquista. Come non lo fu Marx e neppure un qualunque leader della socialdemocrazia tedesca al tempo di Kautsky. Neppure la Luxemburg, che pur tuonava contro il riformismo, ne ebbe la più pallida idea. Abbiamo dovuto aspettare Lenin prima di vederlo, e i suoi compagni bolscevichi.
L'ultimo Engels non fa che aprire le porte al riformismo di Bernstein, pur con la mediazione centrista di Kautsky, il quale comunque, all'inizio del I G.M., era “tutto” dalla parte di Bernstein: di qui l'epiteto di “rinnegato” attribuitogli da Lenin.
Quanto al resto, Engels ha smesso di credere nella possibilità di una transizione dal feudalesimo al socialismo in Russia, quando ha iniziato ad appoggiare Plechanov che riteneva necessaria una preventiva transizione al capitalismo: il tutto per smontare le tesi dei populisti.
È stato Marx a pensare che i russi potevano risparmiarsi le sofferenze del capitale se la loro rivoluzione fosse stata appoggiata da una contestuale rivoluzione in Europa occidentale. E questa tesi Engels l'ha condivisa. Dimmi la lettera in cui si dice il contrario, poiché nella Prefazione all'edizione russa del 1882 del "Manifesto del partito comunista” - da te citata-, Engels dice chiaramente che la Russia è già ampiamente indirizzata verso il capitalismo, e che non ha più alcun senso parlare di transizione dall'obscina al socialismo. La comune rurale russa la considera “in gran parte già disciolta”! Per il resto ripete la tesi che Marx, con grande fatica rielaborativa, aveva prospettato alla Zasulic: la rivoluzione russa può portare immediatamente al socialismo solo se si presenta come un “segnale a una rivoluzione operaia in occidente, in modo che entrambe si completino”.
Quindi voleva dire che i russi non avrebbero MAI potuto fare alcuna rivoluzione politica vittoriosa senza l'appoggio del socialismo occidentale. La realtà smentì completamente questa tesi.
Infine quando parlo di “socialismo scientifico non democratico” intendo semplicemente dire che con Engels l'idea di socialismo diventa dogmatica (non a caso lo stalinismo usò più i suoi testi che quelli di Marx), e che la statizzazione della proprietà è un concetto superato, in quanto si deve parlare di “socializzazione della proprietà”. L'esperimento del cosiddetto “socialismo reale” è finito e speriamo che non si ripeta. Il futuro socialismo democratico dovrà prevedere l'autogestione della comunità locale, ivi inclusa la democrazia diretta.
[quote name="Luca Benedini"]
Egr. sig. Galavotti, ho accolto il suo suggerimento di rivolgere la mia attenzione ai suoi vasti scritti, ma in realtà ho ritrovato anche in essi la medesima problematica che già le segnalavo: lei di Engels conosce pochissimo (e di Marx poco). Eppure scrive e scrive su di loro come se lei avesse capito tutto....
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Luca Benedini
Tuesday, 13 November 2018 16:00
Egr. sig. Galavotti, ho accolto il suo suggerimento di rivolgere la mia attenzione ai suoi vasti scritti, ma in realtà ho ritrovato anche in essi la medesima problematica che già le segnalavo: lei di Engels conosce pochissimo (e di Marx poco). Eppure scrive e scrive su di loro come se lei avesse capito tutto....
Allora cominciamo. Lei qui scrive a più riprese p.es. che Engels assolutizza le condizioni oggettive del socialismo e trascura quelle soggettive e che "Engels non aveva idea di come si dovesse gestire un partito rivoluzionario. Ancorato com’era a una rigida successione di diversi stadi di sviluppo del modo di produzione, per lui la rivoluzione alla fine diventava un unico atto storico, la cui necessità era lapalissiana". Nell'Introduzione engelsiana del 1895 alla ristampa di "Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850", di Marx, Engels ha invece detto: "Tutte le passate rivoluzioni hanno condotto alla sostituzione del dominio di una classe con quella di un’altra; ma sinora tutte le classi dominanti erano soltanto piccole minoranze rispetto alla massa del popolo dominata. Così una minoranza dominante veniva rovesciata, un’altra minoranza prendeva il suo posto al timone dello Stato, e rimodellava le istituzioni politiche secondo i propri interessi". Quando invece si opera per la realizzazione del socialismo, "è passato il tempo dei colpi di sorpresa, delle rivoluzioni fatte da piccole minoranze coscienti alla testa di masse incoscienti. Dove si tratta di una trasformazione completa delle organizzazioni sociali, ivi devono partecipare le masse stesse; ivi le masse stesse devono già aver compreso di che si tratta [...]. Questo ci ha insegnato la storia degli ultimi cinquant’anni. Ma affinché le masse comprendano quel che si deve fare è necessario un lavoro lungo e paziente, e questo lavoro è ciò che noi stiamo facendo adesso". E' esattamente l'ipercontrario di quanto da lei affermato. Nella sua versione più ampia di questo articolo - il libro "Cinico Engels" che lei mi ha indicato qui in un suo commento - lei cita tale Introduzione del 1895, ma per riassumerla in modo assurdamente superficiale e del tutto fuorviante.
In tale libro afferma anche che, "a differenza di Marx, che non escludeva, nel suo carteggio con la rivoluzionaria Zasulic, una transizione russa che passasse direttamente dal feudalesimo (o comunque dalla comune agricola) al socialismo, Engels invece non aveva dubbi nel sostenere che l'unica transizione possibile dal feudalesimo al socialismo è quella che passa per il capitalismo". Ridicolo! E' stato proprio Engels a proporre a Marx la visione delle cose presentata nella loro prefazione all'edizione russa del 1882 del "Manifesto del partito comunista", dove si presenta appunto la possibilità - poi condivisa anche dai bolscevichi russi stessi fino al 1923 - di un passaggio diretto dalla comunità di villaggio al socialismo in caso di una rivoluzione socialista sostanzialmente europea (nel 1923 poi Lenin fece nascere l'ipotesi di far sopravvivere lo Stato bolscevico socialisteggiante, a economia in gran parte nazionalizzata, anche in assenza di quella rivoluzione). Engels parlò di tale possibilità già nel 1875, in "Le condizioni sociali in Russia". Naturalmente, lei non s'è accorto di nulla....
In mezzo a una marea di affermazioni erronee e fuori luogo su quanto avrebbero detto Marx ed Engels (soprattutto quest'ultimo), l'altra cosa più sbalestrata che c'è nei suoi scritti è che il "socialismo scientifico" ottocentesco non fosse democratico. Invece, p.es., in "Per la critica del progetto di programma socialdemocratico 1891", Engels sostenne che la "repubblica democratica [...] è la forma specifica per la dittatura del proletariato". Il concetto rielabora - in profonda sintonia - quanto scriveva Marx nel 1875 nella "Critica al programma di Gotha": "la libertà consiste nel mutare lo Stato da organo sovrapposto alla società in organo assolutamente subordinato ad essa", frase che in base al contesto appare associabile appunto a fasi storiche come soprattutto la dittatura del proletariato e la costruzione del socialismo, il quale doveva infine portare nella concezione marx-engelsiana all’"estinzione dello Stato" (corrispondente alla costruzione del comunismo). E la cosa è resa ancor più manifesta dal fatto che Marx poi aggiunse che in linea di massima è "nella repubblica democratica", "in questa ultima forma statale della società borghese", che "si deve definitivamente decidere" l’eventuale passaggio da tale società alla transizione a quella socialista: se questo passaggio implica un aumento della libertà e quindi della democrazia, ciò significa che in tale transizione avrebbero dovuto esserci per Marx per lo meno i diritti civili e la partecipazione popolare alla vita politica possibili nella repubblica democratica. Da ciò emerge in modo chiaro e inequivocabile che per Marx ed Engels la società di transizione al socialismo, da loro chiamata appunto "dittatura del proletariato", non doveva affatto essere una dittatura in senso politico-istituzionale, ma una società profondamente democratica. In quell’espressione, il termine "dittatura" era semplicemente ripreso dall’espressione "dittatura della borghesia sul proletariato", che essi associavano appunto alla società borghese ma appunto non in un senso strettamente politico-istituzionale - giacché già nell’Ottocento tale società si esprimeva anche in forme sostanzialmente democratiche, come p.es. negli Usa - bensì in un senso sociale ed economico. Per ulteriori commenti, si veda p.es. la Prefazione di Umberto Cerroni al volume antologico marx-engelsiano "Critica al programma di Gotha e testi sulla transizione democratica al socialismo" (Editori Riuniti, 1976), nel quale viene anche corretto un importante errore di traduzione rispetto alle edizioni precedenti. L'estrema attenzione di Marx ed Engels per le forme della democrazia si ritrova p.es. anche in "La guerra civile in Francia", scritto da Marx per la prima "Internazionale" nel 1871 e nella Introduzione che Engels scrisse per una riedizione tedesca del 1891. Sul profondo senso democratico del "socialismo scientifico" ottocentesco, si vedano anche p.es. il programma socialista francese pubblicato su "L’Égalité" del 30 giugno 1880 e quello tedesco approvato a Erfurt nel 1891.
Non mi pare qui il caso di insistere ulteriormente con queste puntualizzazioni (p.es. a proposito del profondo senso ecologico di Marx ed Engels o del loro orrore per la divisione del lavoro parcellizzata, da cui poi nacque la "catena di montaggio" che invece Lenin e i bolscevichi approvarono), né di commentare la sua personale proposta politica, che mi pare abbia alcuni punti validi e alcuni punti molto deboli. Ma la sua enorme mancanza di correttezza nei confronti di Marx e soprattutto Engels (oltre che ovviamente di noi lettori) è sconcertante. Se questo è il suo stile di lavoro, le faccio proprio tanti auguri.
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Enrico Galavotti
Thursday, 08 November 2018 18:14
Per la tua cultura personale ti rimando ai pdf che ho già scritto su Marx ed Engels:
www.socialismo.info/wp-content/uploads/2018/10/marx.pdf
www.socialismo.info/wp-content/uploads/2018/10/marx-economista.pdf
www.socialismo.info/wp-content/uploads/2018/10/esegeti-marx.pdf
www.socialismo.info/wp-content/uploads/2018/10/maledetto-capitale.pdf
www.socialismo.info/wp-content/uploads/2018/10/cinico-engels.pdf
Se poi li vuoi cartacei cercali in Amazon sotto il nome di Mikos Tarsis
Buona lettura!

Quoting Luca Benedini:
Caro Galavotti, prima di definire cinico Engels (e Marx), mi pare che dovresti conoscere molto ampiamente la loro opera, e non citare solo l'Antiduhring e pressoché nient'altro. P.es., potresti leggere con attenzione i loro scritti ricordati nelle note di un intervento che ho pubblicato di recente qui su "Sinistra in rete": "https://www.sinistrainrete.info/teoria/13528-luca-benedini-quale-economia-oggi-per-il-bene-comune.html", e specialmente nella nota 2, dove appunto si elenca una serie di riferimenti bibliografici sulla concezione storica di Marx ed Engels. Buona lettura!
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Luca Benedini
Thursday, 08 November 2018 16:51
Caro Galavotti, prima di definire cinico Engels (e Marx), mi pare che dovresti conoscere molto ampiamente la loro opera, e non citare solo l'Antiduhring e pressoché nient'altro. P.es., potresti leggere con attenzione i loro scritti ricordati nelle note di un intervento che ho pubblicato di recente qui su "Sinistra in rete": "https://www.sinistrainrete.info/teoria/13528-luca-benedini-quale-economia-oggi-per-il-bene-comune.html", e specialmente nella nota 2, dove appunto si elenca una serie di riferimenti bibliografici sulla concezione storica di Marx ed Engels. Buona lettura!
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Paolo Selmi
Monday, 05 November 2018 11:39
Caro Enrico,
aggiungo... e sommando la sua attività a quella degli imperialismi tradizionalmente noti, si crea un bell'effetto volano per cui, anche a chi non volesse interessare l'aumento del saggio di sfruttamento di tutto ciò che respira su questo pianeta, e anche di quello che non respira, si stanno verificando eventi preoccupanti di cui il riscaldamento globale è solo la punta dell'iceberg.
Leggevo ieri che settimana scorsa nel Lago Maggiore si sono rovesciati 850 MILIARDI DI LITRI D'ACQUA.
Ma la cosa più preoccupante è la sequenza, tratta dalla stampa locale, che propongo a te e a tutti i compagni. Giudicate poi voi:

1. A inizio agosto eravamo in piena siccità, e stiamo parlando del secondo lago italiano: https://www.varesenews.it/2018/08/lago-maggiore-secca-perso-un-metro-un-mese/741344/

2. A settembre un po' di pioggia aveva tamponato la situazione, ma all'appello mancavano 160 MILIARDI di litri d'acqua, al punto che per rendere l'idea dicevano: serverebbe un travaso del lago di Varese dentro al lago Maggiore per ripristinare il livello idrometrico:
https://www.varesenews.it/2018/09/riempire-lago-maggiore-servirebbe-tutta-lacqua-del-lago-varese/746273/

3. Poi di colpo, questo fenomeno meteorologico inedito.
850 MILIARDI DI LITRI D'ACQUA IN POCHI GIORNI,
https://www.varesenews.it/2018/11/nel-lago-maggiore-850-miliardi-litri-dacqua-settimana/765276/

4. Di botto si passa dalla siccità alla piena, diga sul Ticino (in piena) aperta a tutta per far defluire la massa d'acqua, e la neve sui monti che, insieme alla siccità pregressa, ci salvano LETTERALMENTE dall'esondazione.
https://www.varesenews.it/2018/11/la-neve-sui-monti-salva-lago-maggiore-dallesondazione/764909/

Nel frattempo, la temperatura globale aumenta, i protocolli sono lettera morta, le prime 15 navi portacontainer (sulla nuova "via della seta"...) inquinano più di tutte le auto del mondo messe assieme, ma si, andiamo avanti così verso la catastrofe... non chiamiamo però socialismo quello che socialismo non è.

Sono sinceramente più angosciato che preoccupato, ormai.

Ciao

Paolo
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Enrico Galavotti
Monday, 05 November 2018 11:12
Io ho l'impressione che il peggio del capitalismo debba ancora venire.
Fino adesso abbiamo avuto a che fare con una gestione privatistica del capitale, al massimo attraverso trust e cartelli. Ma ora si è affacciato sull'arena internazionale un capitalismo gestito dallo Stato, quale quello cinese, che dice di non essere imperialistico come il nostro occidentale, e che invece sta monopolizzando i commerci nelle aree più arretrate del pianeta: un capitalismo che non ama essere messo in discussione e che chiede ai propri concittadini, in cambio di un benessere materiale, di rinunciare ai diritti civili e politici.
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claudio.dellavolpe
Sunday, 04 November 2018 20:50
bell'articolo, grazie; da rileggere bene per capirlo
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Paolo Selmi
Saturday, 03 November 2018 15:10
Caro Enrico,
mi sono scaricato il tuo lavoro e mi riprometto di leggerlo con calma. Due punti vorrei sottolineare, proprio perché mi hanno fatto venire in mente questi collegamenti, o mini-riflessioni.
" La schiavitù sembra essere accettata liberamente, non perché imposta da una forza fisica o materiale esterna". Era settimana scorsa che passavano in televisione un programma dove un giornalista viaggiava dentro la logistica di Amazon di Roma? Gli operai a magazzino fanno un lavoro che conosco benissimo, perché lo faccio da vent'anni, in un ambiente surreale, "gaussiano", dove sono una mera appendice delle macchine delle scaffalature automatiche che servono, senza usare il cervello, perché il loro compito è infilare oggetti a caso, senza alcuna logica tradizionale (non gaussiana) dopo avere sparato il codice a barre. Risultato: non acquisiscono alcuna coscienza di ciò che fanno, in altre parole non sarebbero in grado di gestire non una logistica, ma neppure un magazzino o, come si dice dalle nostre parti, un "magazzeno" di dieci scaffali e tre piani per scaffale. Perché sparano e infilano. Punto. E mentre i loro cervelli pian piano si assuefano, raccontano del loro lavoro come se fosse l'America.
" Anzitutto il capitalismo maturo basa prevalentemente le proprie ricchezze non tanto o non solo sullo sfruttamento dei propri lavoratori, ma anche e soprattutto su quello dei lavoratori delle “colonie”, le quali sono anche ricche di risorse naturali a buon mercato e costituiscono ampi sbocchi commerciali per le merci del capitalismo occidentale." Brutto da dirsi, ma chiunque oggi viaggia con un palmare, che non è equo, non è solidale, non è etico... sfrutta quel bambino che si vede riprodotto in foto in corpo articolo:
https://www.fondsk.ru/news/2018/11/02/eskalacia-v-kongo-zhdat-li-novoj-afrikanskoj-vojny-47053.html
Tra l'altro questo articolo, che parla di un Congo sull'orlo di una guerra civile per le miniere di cui è ricchissimo e che tutti gli imperialisti, d'oriente e occidente, si stanno spartendo, ben si presta al ragionamento che fai sui flussi migratori e su tutto il resto.
Leggerò con calma il resto, grazie nel frattempo di questi spunti di riflessione.
Ciao!
Paolo
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