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Un «Testamento» senza eredi. Lukács e lo stalinismo

di Matteo Gargani

In margine a una raccolta di scritti di Lukács contro lo stalinismo, che prende nome da una importante intervista del 1971, inedita in italiano. Dal 1930 in poi è presente nella produzione del filosofo ungherese la lotta per la «democratizzazione». Il tema della «trasformazione del lavoro in lavoro socialista». La radicale alterità di Lukács allo stalinismo

lukacsIl 28 giugno 1956 le maestranze degli stabilimenti Zispo di Poznań sono riunite per discutere il contenuto degli accordi raggiunti tra la propria delegazione di ritorno da Varsavia e il governo centrale. Dall’assemblea si stacca un corteo spontaneo, raggiunge il centro della città ingrossandosi, i principali edifici della città sono assaltati. Il bilancio della giornata sarà drammatico: 38 morti e 270 feriti. La lettura degli eventi di Poznań costituisce per la sinistra italiana un primo banco di prova rispetto a un fenomeno molto complesso, che nell’imminente autunno ungherese assumerà dimensioni ben più drammatiche. Al comunicato pubblicato su l’Unità del 2 luglio in cui Di Vittorio invita a interrogarsi non solo sui provocatori, ma anche sulle ragioni del «profondo malcontento» serpeggiante tra gli operai polacchi, Togliatti risponderà l’indomani con una dura spalla intitolata La presenza del nemico. Lo stesso 28 giugno, a Budapest, Lukács tiene presso l’Accademia politica del Partito dei lavoratori la conferenza La lotta tra progresso e reazione nella cultura d’oggi. Siamo appena agli inizi di quel lungo periodo di conseguenze innescato dal XX congresso del Pcus di febbraio.

Nella sua relazione all’Accademia politica, Lukács espone senza infingimenti la complicata situazione presente, gli errori del passato, le difficili sfide future. Egli presagisce che dal XX Congresso potrebbe benissimo scaturire – come effettivamente sarà – un terremoto che, alla prova dei fatti, non cambierà nulla. La strada che quindi Lukács indica nel giugno 1956 al movimento socialista mondiale è quella di un’uscita culturale e politica da sinistra alla problematica istanza di rinnovamento apertasi con l’ultimo congresso del Pcus. L’uditorio è sollecitato, sopra ogni altra cosa, a scansare la schematica immagine di socialismo e capitalismo quali indistinto campo del progresso il primo e della reazione il secondo. Lukács esorta in tal senso a riprendere lo spirito del VII Congresso del Comintern del 1935, ossia a tradurre la linea dei Fronti popolari nell’odierna lotta politica tra capitalismo e socialismo. In che modo? Per Lukács si tratta di concepire la lotta tra i due Blocchi come una lotta per l’egemonia, che potrà e dovrà quindi esclusivamente giocarsi sul solo campo d’azione del conflitto ideologico, l’unico che il dato ormai indiscutibile della «coesistenza pacifica» tra socialismo e capitalismo lascia aperto.

Riflettendo sulla domanda «chi agisce, chi subisce?», Lukács mostra nel giugno 1956 che, accettando l’idea di una Guerra fredda, è in realtà solo il socialismo mondiale a subire. Il compito futuro sarà invece quello di mostrare, con i fatti e non con le semplici dichiarazioni d’intenti, che il campo socialista non è in guerra con nessuno. La superiorità del socialismo sarà in sostanza da dimostrare esclusivamente attraverso un’ampia democratizzazione della vita pubblica e un innalzamento della produzione scientifica. Proprio tali questioni erano state già toccate da Lukács il precedente 15 giugno nel suo intervento al “Circolo Petőfi”:

Il principio «meglio meno, ma meglio» fu, soprattutto in campo economico, il testamento di Lenin. Il lavoro culturale a catena è profondamente avverso al leninismo, a tutto il metodo della filosofia di Lenin. Il nostro compito principale, per rinnovare realmente il metodo leninista, è di imparare a conoscere nuovamente con l’aiuto di Lenin, Marx ed Engels, attraverso essi, tutto lo sviluppo e la storia della cultura mondiale. Allora potranno attuarsi anche da noi, in Ungheria, quelle grandiose possibilità che offre il XX Congresso; ma se ci dimostriamo deboli, se dovessero vincere le forze che del leninismo vogliono fare uno stalinismo di segno cambiato, allora il XX Congresso s’insabbierà, così come negli anni trenta la grandiosa iniziativa del VII Congresso del Comintern non portò ai successi che da esso a buon diritto ci si erano aspettati nel 1935. Spero che il XX Congresso non procurerà una simile delusione, che oggi siamo davvero arrivati alla soglia di una nuova, grande fioritura del marxismo e del movimento operaio marxista[1].

Posto che il settarismo è sempre segnale di debolezza, il socialismo mondiale non può e non deve concedersi il rischio di cadere ancora in questo errore. A Stalin Lukács rimprovera pertanto di non aver saputo cogliere appieno la positività e gli ampi margini d’iniziativa politica apertisi con il dato della «coesistenza pacifica». Le forme in cui si consuma la rottura con Tito nel 1948 sono in tal senso un’esplicita manifestazione del permanere staliniano sul terreno del vecchio tatticismo e settarismo. La relazione di Stalin del 1952 al XIX congresso del Pcus rappresenta per Lukács nient’altro che l’ennesima conferma di gravi errori capitali nella linea politica:

Non voglio qui discutere degli aspetti singoli di questa contraddizione, ricordo solo il discorso di Stalin al XIX Congresso del partito, nel quale egli da una parte precisò il posto del movimento della pace nell’epoca odierna (cioè la possibilità di evitare certe guerre), dall’altra però espresse certe riserve sulla possibilità di realizzare questa politica finché esiste l’imperialismo. Non c’è alcun dubbio che a questo proposito dopo la morte di Stalin sia intervenuto un grande mutamento. Lo si può facilmente riconoscere dal fatto che è finita la guerra coreana e quella vietnamita e che siamo entrati in un’epoca in cui sono divenute possibili pace e coesistenza. Il XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica – in ciò superando il punto di vista del XIX Congresso – ha affermato che nella nostra epoca la guerra è evitabile e che la politica deve partire da questa premessa. Ciò significava una rottura con le inconseguenze del periodo precedente[2].

Il 1956, vera e propria data spartiacque per la storia mondiale, è idealmente al centro della silloge lukacsiana curata da Antonino Infranca e Miguel Vedda Testamento politico e altri scritti contro lo stalinismo[3].

 

La lotta per una «democrazia autentica»

All’immediato secondo dopoguerra risalgono i primi due testi della raccolta, ossia La visione del mondo aristocratica e democratica e I compiti della filosofia marxista nella moderna democrazia. Il primo è la relazione letta da Lukács al primo dei Rencontres Internationales de Genève nel settembre 1946, il secondo è il testo che Lukács pronunciò direttamente in francese nel dicembre 1947 presso la milanese Casa della cultura. Les taches de la philosophie marxiste dans la nouvelle démocratie, inedito in italiano, sarà scelto da Antonio Banfi come articolo d’apertura nel primo fascicolo dell’annata 1948 della rivista Studi filosofici.

Nelle due conferenze del 1946 e del 1947 domina quel clima di apertura che contraddistingue il periodo di gestazione delle Democrazie popolari nell’Europa orientale e del nuovo assetto democratico nell’Europa occidentale. Clima che a livello mondiale si tradurrà in eventi come il “Primo incontro degli intellettuali per la pace” a Breslavia nell’agosto del 1948, dove Lukács interverrà con un contributo emblematicamente intitolato L’intelligenza al bivio[4]. Ancora in nome della lotta per la pace e la coesistenza Lukács parteciperà come delegato al “Comitato mondiale per la pace” nell’ottobre 1949 a Roma.

Sia la conferenza ginevrina che quella milanese sono testi molto densi. L’intero novero di questioni cui essi guardano è pertanto difficile da cogliere appieno, qualora non s’illuminino tenendo presente quel complesso – e per molti versi prometeico – progetto di carattere inscindibilmente filosofico, storiografico e politico, che impegna instancabilmente Lukács dai primi anni trenta sino alla morte. Dal punto di vista strettamente filosofico, tale progetto si contraddistingue per il tentativo di edificare il marxismo quale Weltanschauung autonoma, comprendente cioè un’estetica e un’etica marxiste, di cui Lukács vede in Marx ed Engels sì abbozzate le fondamenta, ma non l’edificio completo. Sul senso complessivo del proprio progetto, Lukács afferma nel 1957: «il confronto coi classici del marxismo mi dette per la prima volta nella mia vita la possibilità di soddisfare ciò verso cui sempre fu diretto il mio sforzo: cogliere correttamente i fenomeni della vita dello spirito, come essi veramente sono, in sé, nella loro configurazione storico-sistematica, descriverli fedelmente ed esprimerli in maniera conforme alla loro verità»[5].

Solamente tenendo come punti di riferimenti Il giovane Hegel (1948) e La Distruzione della ragione (1954) – senza trascurare in tal senso anche gli innumerevoli contributi dedicati alla storia della letteratura tedesca ed europea dal XVIII al XX secolo – può invece esser colto il significato d’insieme del progetto storiografico lukacsiano. Lo shock del nazionalsocialismo, della cui ascesa Lukács è testimone diretto a Berlino tra il 1931 e il 1933, è l’impulso fondamentale per un ampio disegno: cogliere il nazionalsocialismo nella sua genesi endogena, ossia entro un determinato percorso intrapreso da una parte della cultura e della società tedesca. Fine di tale operazione è quindi quello di scansare un errore opposto nel fenomeno ma comune nell’essenza: da una parte, quello della ricaduta in una storiografia teleologica, tesa cioè a cogliere il nazionalsocialismo quale unico esito necessario per la Germania; dall’altra, quello di una condanna in blocco della storia politica e spirituale di un’intera nazione. Tale punto è ribadito da Lukács nel 1969, dove egli ricorda la propria avversione nei confronti della propaganda anti-tedesca messa in moto in Urss durante l’invasione nazista: «Naturalmente, respingevo il contenuto universalmente egemonico nella propaganda antihitleriana, secondo la quale il tedesco, denominato “Fritz”, era già fascista nel bosco di Teutoburg»[6].

Il giudizio sulla Rivoluzione francese diviene in tal senso un discrimine essenziale per segnare rispettivamente il campo del progresso e quello della reazione lungo l’intero arco del XIX secolo. Il giovane Hegel è quindi il pendant positivo per la cultura tedesca di ciò che La distruzione della ragione disegna in negativo. Il giudizio su Hegel, che non è chiaramente da intendersi come pedissequa sottoscrizione di ogni sua asserzione, rappresenta il discrimine fondamentale del campo del progresso e della reazione tradotto sul terreno filosofico. Come e se valorizzare l’eredità hegeliana, lungi dal costituire una questione esaurita con lo spegnersi del quadro di dibattito che ha animato i protagonisti del Vormärz, è per Lukács una fondamentale linea divisoria degli schieramenti filosofici che – per certi versi – continua a valere ancora dopo Marx. La distruzione della ragione non va quindi interpretata come una sorta di “galleria degli orrori”, è invece l’ambizioso tentativo di individuare un denominatore comune tra molteplici filosofie – e su questo punto è bene porre il massimo accento – fortemente anticapitaliste e in profondo dissenso con la società a loro contemporanea. Tali filosofie sono accomunate per Lukács da un comune regresso verso quelle dimensioni che Hegel qualifica come «sapere immediato» e «filosofia della riflessione». Sul testo del 1954 è oggi estremamente semplice (e anche legittimo) muovere critiche storiografiche di dettaglio; operazione intellettualmente assai più impegnativa è andare invece a discuterne seriamente l’impianto di fondo. Quest’ultimo consiste nel riconoscimento di una condivisa attitudine al rifiuto, dipendente dai presupposti filosofici propri di una considerazione «astratta» in senso hegeliano dell’oggetto realtà capitalistica, come impostazione condivisa da un ampio schieramento filosofico e culturale tra XIX e XX secolo.

Il terzo problema che attraversa diacronicamente l’intera produzione lukacsiana dal 1930 in poi è la lotta per una democrazia autentica o, come ripeterà ancora in un fondamentale testo del 1968 pubblicato solo postumo, la lotta per la democratizzazione: «si parla spesso della democrazia come di uno stato e ci si dimentica, nel delineare tale stato, di esaminare gli indirizzi evolutivi reali, quantunque solo per questa via possa aversi un suo quadro adeguato. Per sottolineare ciò, noi preferiamo il termine “democratizzazione” a quello di “democrazia”»[7]. Cominciato anch’esso a ridosso del 1930 con Le tesi di Blum, tesi programmatiche presentate da Lukács in vista del II Congresso del Partito comunista ungherese e sconfitte sia nel seno del partito ungherese che condannate dal Comintern, la linea politica lukacsiana dal volgere del 1930 in poi rimane costantemente orientata verso il tentativo di tradurre in situazioni via via diverse quello che egli ritiene l’autentico nucleo politico di Lenin: la creazione di una democrazia non più fondata sull’egemonia borghese, ma su quella del blocco operaio e contadino.

Lukács intende in tal senso coniugare da una parte l’esigenza di un mutamento della classe egemone nella gestione dell’apparato statale, dall’altra cerca di pensare tale mutamento come coinvolgente uno schieramento sociale il più ampio possibile. Il contenuto delle Tesi di Blum – che Lukács continuerà sempre, anche a distanza di anni, a giudicare inadatte rispetto alla congiuntura in cui erano state scritte – è ribadito in uno dei verbali degli interrogatori cui Lukács è sottoposto durante i circa due mesi di detenzione alla “Lubjanka” nell’estate 1941, anch’essi contenuti in Testamento politico e sinora inediti in italiano: «nella tesi da me scritte, accennavo a che in Ungheria la vittoria della rivoluzione proletaria era sicuramente possibile mediante la dittatura democratica del proletariato e dei contadini»[8]. La «dittatura democratica» è quindi la stella polare che, per oltre quattro decenni, orienta lo sforzo politico lukacsiano di tradurre entro nuove contesti la complessa eredità politica di Lenin.

 

Il rapporto socialismo-illuminismo

Tracciate le fondamentali coordinate filosofiche, storiografiche e politiche dell’attività messa in cantiere da Lukács dal 1930 in poi, acquistano migliore luce anche le due conferenze con cui si apre la raccolta Testamento politico e altri scritti contro lo stalinismo. Il problema del fascismo come prodotto endogeno ritorna non a caso come punto di partenza della conferenza ginevrina: «il potere militare del fascismo è stato annientato in guerra. Ma lo sviluppo del dopoguerra dimostra che il suo annientamento politico-organizzativo e soprattutto ideologico è molto più lento e difficile di quanto non si sia pensato»[9]. E poco oltre è toccato il vero e proprio nucleo dell’intero intervento: «Bisogna annientare le radici spirituali e morali del fascismo; ma ciò non è possibile finché non vediamo chiaramente quando e come sia sorta la crisi dalla quale è uscito il fascismo, come una soluzione specifica, barbara e inumana»[10]. Quest’ultima è la tesi centrale dell’intero intervento del 1946: il fascismo costituisce una soluzione estrema innanzi a una «crisi» strutturale della società e politica europea che affonda le sue radici molto più indietro di Hitler e Mussolini, che nasce invece dagli esiti contraddittori della Rivoluzione francese. Una fase politica e sociale autenticamente nuova, che sia quindi di effettiva rottura con il passato, sarà possibile solo intervenendo su quei nodi di «crisi» strutturale da cui la società europea è impacciata dal 1789:

Se noi vogliamo circoscrivere nel pensiero questa crisi, ci troviamo di fronte a quattro grandi complessi: crisi della democrazia, dell’idea del progresso, della fede nella ragione, dell’umanesimo. Questi quattro complessi critici provengono dal trionfo della Rivoluzione francese e tutti i quattro raggiungono il loro culmine nel periodo imperialista. Tutti e quattro si accentuano qualitativamente nel periodo fra le due guerre mondiali, nel periodo in cui nasce il fascismo[11].

Nel seguito della conferenza del 1946, Lukács passa in rassegna questi quattro fondamentali «complessi di crisi», che egli vede come strutturalmente connessi alla specifica configurazione della «moderna società borghese», nella forma che essa riceve con la Rivoluzione francese «in parallelismo non casuale con la rivoluzione industriale svoltasi in Inghilterra»[12]!! fondamento di tale contraddittorietà risiede secondo Lukács nel fatto che la «moderna società borghese» emersa tra fine XVIII e inizio XIX secolo «comporta contemporaneamente e inscindibilmente il compimento e la negazione delle idee dell’illuminismo». Fa capolino qui un ulteriore assillo per Lukács: il rapporto tra socialismo e illuminismo. Indubbiamente Lukács legge il socialismo come un compimento di quei punti che l’illuminismo ha l’indiscutibile merito di aver individuato e, in guisa problematica, realizzato. Tra illuminismo e socialismo vige pertanto per Lukács quel rapporto di «identità di identità e non identità» che, pensata da Hegel, egli richiama sovente per raffigurare il senso della Aufhebung, ossia l’immagine di un superamento che conserva e muta qualitativamente allo stesso tempo.

Ed è proprio alla luce della «società borghese moderna» come contraddittoria realizzazione dei principi sanciti nell’illuminismo che Lukács guarda al «complesso di crisi» della democrazia: «La crisi sociale ed intellettuale della democrazia trae le sue origini dalla contraddizione fra la libertà ed eguaglianza politica e la libertà ed eguaglianza reale dell’uomo»[13]. Lukács si ricollega qui alla nota contraddizione individuata da Marx in Per la questione ebraica (1844) tra bourgeois reale e citoyen ideale, quale fondamento contraddittorio di un intero assetto sociale e istituzionale, che si rivela quindi fragile nei suoi fondamenti più intimi. Lukács riconosce tuttavia come l’imporsi della «libertà formale» sancita dal processo rivoluzionario francese, pur nella sua contraddittorietà, ha permesso il cristallizzarsi di quegli schieramenti politici propri della «società borghese moderna», che proprio nel giudizio su tale contraddittoria «libertà formale» ancora oggi sostanzialmente si dividono. Lukács individua una sinistra che «tentò di ottenere la libertà e l’eguaglianza reali dell’uomo o per lo meno di avvicinarsi ad esse (giacobini, democratici radicali e socialisti)»; un centro liberale che cercò di «fissare giuridicamente e di idealizzare concettualmente i risultati politico-sociali della Rivoluzione francese»; e infine una destra legata alla «tendenza a considerare l’effettiva e reale illibertà e ineguaglianza dell’uomo come “fatto” o “legge di natura” o come un dato metafisico»[14].

Il secondo «complesso di crisi» è quello dell’«idea di progresso [Fortschrittsgedanke]». A tale crisi Lukács non intende assolutamente replicare con l’appello per un rinnovato ed ingenuo ottimismo storico. Attraverso la «crisi dell’idea di progresso», Lukács vuole invece esclusivamente denunciare il serpeggiante rifiuto verso la processualità irreversibile quale connotato essenziale dei processi che accomunano mondo inorganico, organico e sociale. Sulla scorta di tale «crisi» s’impone, dall’alto di una presunta legittimazione filosofica, un’immagine della realtà destoricizzata che, oscillando tra rassegnazione e sfiducia, nega ab origine qualsiasi ipotesi di mutamento. Le «crisi dell’idea di ragione» e quella di «umanesimo» completano l’affresco fatto Lukács di una situazione politico-sociale che data alla Rivoluzione francese e nelle sue coordinate fondamentali resiste ancora oggi. Anche in questo caso va indicato come la «crisi della ragione» colta da Lukács concerne esclusivamente la negazione in forma di principio della conoscibilità del reale. Tale «crisi» non ha nulla a che vedere con una propensione verso forme di ingenuo e adialettico realismo gnoseologico. Anche nel caso dell’«umanesimo», Lukács non intende quest’ultimo come contemplativo culto dell’humanitas, bensì come «umanesimo pugnace», ossia «difesa della sua dignità e dei suoi diritti» che non arretra inorridito di fronte all’idea della lotta politica.

Ancora nella conferenza milanese del 1947, Lukács sollecita l’uditorio a riflettere sul senso della costruzione di una «democrazia autentica», a cercare quindi una soluzione nuova innanzi a quei «complessi di crisi», che minano alla base la «moderna società borghese» da un secolo e mezzo. A Milano Lukács lancia la difficile sfida di scegliere per una democrazia che non sia semplicemente un ritorno all’assetto istituzionale antecedente al fascismo, bensì recida alla base quei «complessi di crisi», che minano alla base la struttura istituzionale in sé contraddittoria che nasce dalla Rivoluzione francese. Si tratta quindi di mirare «a una nuova forma di democrazia», che non sia più «l’appannaggio delle “duecento famiglie”», ma che al contrario «offra al popolo dei lavoratori la possibilità di costituire una società nella quale la proprietà capitalista privata sussista, anche se sottoposta a dei limiti, dei controlli, ecc. ma nella quale, tuttavia, gli interessi vitali materiali e culturali del popolo siano predominanti e decisivi»[15]. In poche parole, Lukács intende nel 1947 lanciare un discite moniti: la semplice restaurazione dell’assetto politico-istituzionale antecedente ai fascismi non risolve quei quattro «complessi di crisi» che, permanendo alla base della democrazia europea, prima o poi, potranno nuovamente condurla ad un’ennesima e drammatica deflagrazione.

 

Il «Testamento politico»

Se si escludono i verbali dell’interrogatorio alla “Lubjanka”, tutti gli altri documenti della raccolta curata da Infranca e Vedda sono successivi al 1956. Oltre ad una lettera inedita di Lukács a Cesare Cases del 1957 e al breve scritto Al di là di Stalin del 1969, troviamo un fondamentale documento inedito in italiano, ossia il Testamento politico del 1971, da cui l’intera raccolta prende il nome.

Testamento politico è un’intervista realizzata nel gennaio 1971 su iniziativa di György Aczél per il comitato centrale del Posu. Il tenore dei rapporti più recenti tra Lukács e il segretario del partito János Kádár, fermi nel marcare le distanze e il reciproco rispetto dei ruoli soprattutto da parte del secondo, è documentato da alcune lettere sempre risalenti ai primi mesi del 1971 e contenute anch’esse nella raccolta curata da Infranca e Vedda[16].

Testamento politico è un estremo tentativo che Lukács compie di affermare la propria posizione alla direzione di una parte politica a cui è legato sin dal dicembre 1918 e che – se si esclude la parentesi dell’allontanamento dal partito a cui è sottoposto nel decennio 1957-1967 – durerà sino alla morte, della cui imminenza egli è consapevole nel momento in cui risponde alle domande degli intervistatori. Il testo del 1971 non ha però la classica struttura dell’intervista, è invece una rielaborazione in forma di articolo, che Lukács stesso rivedrà e approverà. Il testo, e menzionare questo fatto ha un valore non solo filologico, fu pubblicato per la prima volta solo nel 1990 sulla rivista Társadalmi Szemle.

Nel novembre del 1970 il Posu ha tenuto il suo X Congresso. Dice Lukács: «Se devo esprimere la mia opinione riguardo a quanto accaduto prima, durante e dopo il X Congresso, posso semplicemente asserire che, se bastasse porsi sul piano del puro desiderio, allora si potrebbe dire che sono al cento per cento d’accordo su tutto. Mi sembra invece che molte cose sono pensate come se fossero reali, ma restano per noi solo un desiderio lontano»[17]. Poco oltre, l’ottantaseienne Lukács aggiunge:

Insomma, nego che qui in Ungheria si possa parlare di una democrazia realizzata. Non dubito in alcun modo che il compagno Kádár e molti altri compagni della direzione vogliano realmente la democrazia. Se essi dicessero: «Vogliamo una democrazia, aiutaci alla sua realizzazione», li aiuterei con piacere. Se mi dicono: «Abbiamo raggiunto la democrazia», allora mi rilasso sulla mia poltrona, e dico: «Mi piacerebbe vederla»[18].

Lukács affronta senza ipocrisie quello che ritiene il problema più grave e pericoloso per la democrazia socialista, ossia «la questione sindacale». Tra il 12 e il 16 dicembre 1970, a seguito del degenerare di uno sciopero bianco nei cantieri navali di Danzica, sorgono violenti scontri in città culminati con 6 morti, centinaia di arresti e feriti. Lukács commenta l’evento così: «ciò che è accaduto in Polonia è stato un tipico sciopero spontaneo»[19]. Esso è per Lukács un sintomo da non sottovalutare, anzi da cui è della massima urgenza cercare di formulare una diagnosi complessiva circa lo stato di salute della democrazia nei paesi socialisti: «Non considero gli scioperi spontanei un fenomeno a sé, bensì collegato alla mancanza di democrazia sindacale; li considero come il lato estremo»[20]. Lo «sciopero spontaneo», difatti, è sintomo non di una radicalizzazione operaia, bensì di insofferenza verso una gestione verticistica e quindi burocratizzata della vita dei lavoratori:

Il problema è che si può guidare realmente gli operai, solo se realmente si ha la capacità di dirigerli, intendendo dire con ciò che siamo in grado di interpretare i loro bisogni; se questi bisogni sono appropriati, li aiuteremo a realizzarli, se non lo sono, allora dobbiamo discutere con gli operai, cercando di ottenere il loro sostegno a favore di una posizione giusta. Ma in nessun caso va bene ciò che avviene attualmente[21].

Poco oltre Lukács ritorna sul punto: «È francamente ridicolo che adesso chiamino hooligans i normali operai in sciopero; essi sono tanto poco hooligans come qualsiasi altro operaio; semplicemente hanno perso la pazienza»[22]. Il vecchio Lukács striglia i più giovani compagni del Comitato centrale:

La realtà è che non abbiamo compiuto neanche un passo verso la riforma dei sindacati; qui viene alla luce un punto che considero singolarmente pericoloso nello sviluppo ungherese e in quello delle democrazie popolari, ed è il fatto che è venuto meno quel rapporto quotidiano e di mutua comprensione che era possibile tra il Partito, il governo e la classe operaia. La fine di questo rapporto non può essere compensato da nient’altro. Tale fine si presenta sotto due forme. La prima è quella nella quale gli operai compiono tutto ciò che viene loro ordinato, ma stringendo i denti e senza coinvolgimento reale; d’altro lato c’è la linea degli scioperi spontanei[23].

Per affrontare la realtà del problema sindacale nel suo nucleo profondo, Lukács mette in relazione la celebre questione già toccata da Marx nella Critica al programma di Gotha del 1875, ossia quella del «lavoro come bisogno vitale» con la questione del «lavoro ben fatto». Per spiegare tale problema, Lukács parte da un aneddoto personale:

Una volta ho conversato con un eccezionale operaio, Frigyes Karikàs, durante la dittatura [la “Repubblica dei Consigli” ungherese del 1919, M.G.]; e gli chiesi la sua opinione su Haubrich. Karikás fece un gesto di disprezzo con la mano e disse che Haubrich era un cattivo fabbro. Non sono sicuro che Haubrich fosse stato un fabbro, può essere che abbia avuto qualche altro mestiere, non ricordo. Ma in tutti i modi il funzionario di medio livello Frigyes Karikás giudicava il suo ministro secondo le qualità come operaio dentro la fabbrica. Questa gerarchia tra gli operai era assolutamente attuale nel 1919, l’era stalinista l’ha livellata retrospettivamente e al suo posto è arrivata la produzione quantitativa[24].

Lukács constata che il «lavoro ben fatto» era in passato un operante criterio di gerarchizzazione tra i lavoratori, mentre oggi rimane tendenzialmente valido, anche nei paesi socialisti, solo sul terreno della scienza e dell’arte. Che cosa significa trasferire tale gerarchizzazione sul terreno del lavoro nella vita quotidiana? Lukács sostiene che finché il lavoro nei paesi socialisti verrà valutato esclusivamente in termini quantitativi e quindi non soprattutto di «lavoro ben fatto», nulla potrà cambiare. Tale passaggio dal valore misurato solo quantitativamente a un valore misurato soprattutto qualitativamente corrisponde per Lukács alla «trasformazione del lavoro in lavoro socialista»[25]. Lukács tuttavia parte da una constatazione: «affinché il lavoro sia un bisogno vitale, sono necessarie certe riforme socialiste che riducano e indeboliscano il carattere tirannico del lavoro e la conduzione tirannica della vita»[26]. Tali riforme sono necessarie perché «il lavoratore deve ridurre la concezione del lavoro come lavoro forzato, che deve fare per obbligo perché altrimenti morirebbe di fame. Se questo cambia nel socialismo, e questo realmente può cambiare nel socialismo, allora avrà conseguenze socialiste quando tra gli operai, dentro la fabbrica, esisterà soltanto questa gerarchia»[27].

Naturalmente Lukács è pienamente consapevole dell’estrema delicatezza teorica del discorso che sta rivolgendo ai massimi dirigenti del suo partito, ma aggiunge che il «lavoro ben fatto» quale forma di valore dominante costituisce allo stesso tempo un importante elemento vivificatore culturale e conseguentemente politico. Il lavoratore che vede nel «lavoro ben fatto» il fine del proprio operare – e non esclusivamente nel sacrificio della propria vita in una produzione quantitativa, sulla cui gestione complessiva inoltre non ha nessuna voce in capitolo – si porrà inevitabilmente con un’altra attitudine nei confronti della propria attività quotidiana. Il lavoratore sarà cioè interessato a cogliere eventuali falle nel processo produttivo e conseguentemente cercherà di comprendere meglio i problemi tecnici, matematici, economici contenuti in esso, prima in termini immanenti, quindi eventualmente come a sé stanti problemi teorici. Lukács cita in proposito il caso di August Bebel, da maestro tornitore a personalità di spicco della socialdemocrazia tedesca.

 

Diversi alla radice

Quello sin qui tracciato è solamente un possibile percorso di lettura di Testamento politico e altri scritti contro lo stalinismo. Di un «Testamento senza eredi» abbiamo parlato nel titolo di questo intervento. E proprio di ciò si tratta nel caso di Lukács. Soprattutto in Italia, dove a Lukács è toccato in sorte un curioso destino, contraddistinto da un’amplissima diffusione contrapposta a una in pratica nulla ricezione. Da una parte, difatti, Lukács è stato tradotto in italiano forse di più che in qualsiasi altra lingua. Dall’altra, però, se con ricezione intendiamo il permanere e modificare una determinata tradizione di pensiero nella sue linee di fondo, nel modo di affrontare i problemi politici e teorici, Lukács è non casualmente scomparso oggi, perché probabilmente era già assente quanto si credeva che fosse onnipresente. Ciò spiega molto della sua scomparsa odierna, soprattutto se paragonata al legittimo interesse che invece permane verso altri autori coevi e appartenenti alla medesima area politica e culturale, uno su tutti Antonio Gramsci.

L’ombra dello stalinismo è ciò che maggiormente offusca oggi in Italia il nome di Lukács. Intenzionalmente, quindi, non ci siamo soffermati nel nostro contributo a rimarcare tutte le circostanze storiche in cui Lukács ha dimostrato, alla prova dei fatti, la propria radicale estraneità allo stalinismo come pratica politica, culturale, filosofica. Per chi cerca dati in proposito, Testamento politico e altri scritti contro lo stalinismo ne offre una messe.

Egualmente abbiamo voluto evitare lo slogan di un Lukács “dentro e contro” lo stalinismo, eppure avremmo avuto il materiale per farlo. La formula del “dentro e contro”, che in molti casi è atteggiamento legittimo e inevitabile, troppo spesso si dimostra un veicolo di opportunismo, o al peggio, di pura malafede. Il “dentro e contro” diviene in questo secondo caso connotato di chi all’appartenenza a una determinata organizzazione non crede dapprincipio, ma molto più teme i rischi e le enormi difficoltà che dovrebbe affrontare imbarcandosi i rischi di una rottura e di una nuova costruzione. Parlando di un Lukács “dentro e contro” avremmo quindi corso il pericolo di restituire l’immagine di un uomo avvantaggiato dalla propria appartenenza di campo, che dalla mai rinnegata adesione al progetto del socialismo (anche reale) ha tratto nella propria vita facilitazioni e occasioni. Anche qui potremmo facilmente enumerare i molteplici casi di vero e proprio svantaggio, rischio personale e discriminazione che a Lukács è costata questa appartenenza tanto da vivo quanto da morto. Per tutte queste ragioni, abbiamo preferito far parlare solo i contenuti del suo discorso, cercando così di mostrare come Lukács e lo stalinismo siano elementi diversi alla radice.

Un «Testamento senza eredi» ci è parsa pertanto l’immagine più adatta a restituire il senso del problema. Il testatore, difatti, nel lascito pone sì beni, ma anche oneri. Accogliere l’eredità di Lukács significa in tal senso assumersi anche l’onere di dover affrontare e discutere seriamente tutte le difficoltà e le contraddizioni che accogliere la sua eredità implica. Soltanto chi si assumerà quindi anche gli oneri di questo lascito, si porrà poi nella condizione di poter disporre dei suoi tanti beni, e in futuro magari anche valorizzarli oltre. Riflettere su questo punto può inoltre offrire anche un contributo alla sinistra, affinché abbandoni la china che da troppo tempo ormai la precipita verso una frenetica accumulazione di sempre nuove vie e nuovi inizi, che finora però si sono dimostrati tanto più immacolati quanto più vuoti.


Note
[1] György Lukács, Discorso al dibattito filosofico del Circolo Petőfi, tr. it. di F. Codino, in Id., Marxismo e politica culturale, Torino, Einaudi, 1968, p. 86.
[2] György Lukács, La lotta tra progresso e reazione nella cultura d’oggi, ivi, pp. 93-94.
[3] György Lukács, Testamento politico e altri scritti contro lo stalinismo, a cura di A. Infranca e M. Vedda, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2015. Si veda anche la “scheda critica” del libro, a cura di Lelio La Porta, in Critica marxista, 2016, n. 1.
[4] György Lukács, Die Intelligenz am Scheidewege, in Österreichisches Tagebuch, 1948, n.18, pp. 3-5.
[5] György Lukács, La mia via al marxismo. Postscriptum del 1957, tr. it. di U. Gimmelli, in Id., Il marxismo e la politica culturale, cit., pp. 25-26. (Traduzione modificata).
[6] György Lukács, Al di là di Stalin, in Id., Testamento politico…,cit., pp. 85-86.
[7] György Lukács, La democrazia della vita quotidiana, tr. it. di A. Scarponi, Roma, Manifestolibri, 2013, p. 31.
[8] György Lukács, Interrogatorio della polizia sovietica nel 1941, in Id., Testamento politico… ,cit., p. 148. I capi d’accusa, infondati, ascritti a Lukács e menzionati nella “Disposizione di sospensione della procedura” del 20 agosto 1941, controfirmata da Berija, recitano: «Lukács G.O. è accusato di essere: 1. provocatore al servizio ungherese e ha realizzato attività ostile in Unione Sovietica tra la suddetta emigrazione politica, 2. nei primi anni della rivoluzione come figura eminente del movimento rivoluzionario ungherese e come membro del governo dei consigli ungheresi ha manifestato qualche volta vacillamenti sindacalisti e piccolo borghesi e ha mirato alla scissione nel movimento rivoluzionario ungherese come detto prima», ivi, pp. 173-174 (sottolineatura mia).
[9] György Lukács, Le visioni del mondo aristocratica e democratica, ivi, p. 21.
[10] Ivi, p. 22 (sottolineatura mia).
[11] Ibidem.
[12] Ivi, p. 23.
[13] Ibidem.
[14] Ivi, p. 24.
[15] György Lukács, I compiti della filosofia marxista nella nuova democrazia, in Id., Testamento politico…, cit., p. 51.
[16] Cfr. lettera di Jànos Kàdàr a György Lukács (22 febbraio 1971): «Per quanto mi attiene – e non è un’opinione isolata — ti rispetto come l’importante scienziato marxista della nostra epoca, il rivoluzionario comunista dotato di grande esperienza; e considero che le conversazioni con te siano importanti per me – il che significa di più – per il lavoro della direzione partitaria. Allo stesso tempo, ci separa il fatto che, da un lato, il punto di vista della direzione partitaria e, dall’altro, il tuo punto di vista, divergono in numerose questioni, anche in alcune importanti» György Lukács, Epistolario con Jànos Kàdàr sul caso Dalos-Haraszti, in Id., Testamento politico…,cit., p. 96).
[17] György Lukács, Testamento politico… , ivi, p. 101.
[18] Ivi, pp. 102-103.
[19] Ivi, p. 103.
[20] Ivi, p. 104.
[21] Ivi, p. 103.
[22] Ivi, p. 104.
[23] Ivi, p. 105.
[24] Ivi, p. 109.
[25] Ivi, p. 110.
[26] Ibidem.
[27] Ibidem.

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