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La grande regressione

di Pierluigi Fagan

AA.VV.: La grande regressione,  A cura di H. Geiselberger, Feltrinelli, 2017. Riportiamo un breve sunto dei quattordici interventi sul tema posto a cui faremo seguire un commento finale. Il tema lanciato è lo stato del mondo (migrazioni, terrorismo, stati falliti, incremento delle diseguaglianze, demagoghi autoritari, globale – nazionale, crollo dei sistemi intermedi come partiti – sindacati – media e naturalmente la parabola neo-liberista e globalista) al cui capezzale vengono chiamate alcune menti pensanti per fare il punto

grande regressionePer Arjun Appadurai, la regressione si legge nella nascente insofferenza verso la democrazia liberale a cui si contrappone una crescente adesione all’autoritarismo populista, il mondo vira a destra (come se la democrazia liberale fosse di sinistra). Di base, c’è l’erosione di struttura operata dalla globalizzazione (ritenuta irreversibile)  che depotenzia ogni sovranità nazionale ma i leader autoritari/populisti si guardano bene dall’affrontare questa causa profonda e si presentano come sovranisti solamente sul più comodo piano culturale: sciovinismo culturale, rabbia anti-immigrazione, identità, tradizioni violate. Il fallimento dei tempi lunghi e di una certa sterilità della politica democratica nell’affrontare i problemi fa crescere l’insofferenza ed alimenta la delega a soluzioni imperative che però rimangono di facciata in quanto nessuno veramente sembra intenzionato a discutere i fallimenti del neoliberismo globale. La ricetta dell’indiano è stupefacente: l’opinione pubblica popolare e di élite, liberale ed europea, dovrebbero fare fronte per difendere il liberalismo economico e politico – “… abbiamo bisogno di una moltitudine liberale.”.

Passiamo al da poco scomparso Zygmunt Bauman che conviene sulla lettura dei tempi come perdita completa di ordine e prevedibilità, nonché di messa in discussione della stessa nozione di “progresso”.

Tutto ciò viene catalizzato nel “panico da immigrazione”, reazione emotiva che poggia su una sorta di eredità biologica dell’intolleranza per l’ Altro che cozza contro un fenomeno epocale che si ritiene ineliminabile. Questa reazione emotiva ha fondamento nella “paura dell’ignoto” che non è alimentato solo dalle ripercussioni dei fenomeni migratori ma dal lungo elenco delle problematicità attuali, dalle diseguaglianze economiche alla precarietà esistenziale. Seguendo Ulrich Beck, siamo nell’epoca dell’inevitabile cosmopolitismo senza avere alcuna vera mentalità o attitudine cosmopolitica. Se il pattern fondamentale è storicamente quello del “noi” e “loro”, difficile portare coabitazione, cooperazione, solidarietà a livello di umanità intesa come un tutto che non ha “fuori di sé”. La ricetta del polacco è tratta da Francesco: insegniamo a i nostri figli (che erediteranno il mondo ed i suoi problemi) la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione, dialogo, dialogo ed ancora dialogo. S’impone quindi una rivoluzione culturale: menti lucide, nervi d’acciaio, molto coraggio, pazienza, visione globale a lungo termine, disponibilità a contrattare la verità.

Poi c’è Donatella della Porta, sociologa della Normale di Pisa che analizza le diverse dinamiche che caratterizzano i movimenti di reazione all’offensiva neoliberal-globalista, da destra e da sinistra. A sinistra si è elaborato un pacchetto moderatamente nazionalista (inclusivo e tendenzialmente cosmopolita), appelli alla solidarietà ed ai beni comuni, potenziamento democratico in senso inclusivo e deliberativo, promozione e difesa dei diritti sociali accanto a quelli umani. Ma la tradizione culturale di sinistra che include forti disposizioni normative e sviluppa livelli sofisticati di discorso pubblico, ne limita la “popolarità”. Il sostanziale tradimento delle politiche di “centro-sinistra” che non solo hanno perso del tutto connotazioni di sinistra ma qualche volta anche di centro, penalizzano ulteriormente l’area progressista.  “Popolarità” invece ottenuta più facilmente dalle versioni di destra, dove si elaborano appelli generici e bugie spudorate oltre alla totale cecità verso le contraddizioni intrinseche come nell’esempio Trump, un presidente miliardario che dovrebbe sanare le contraddizioni del liberismo-globalizzato. In questo senso, “populismo” andrebbe interpretato seguendo Kenneth Roberts, come quella forma di relazione politica che parte dall’alto e va verso il basso piuttosto che il contrario. Questa mobilitazione dall’alto è propria di legami e modelli plebiscitari, delega totale a figure paterne ed autoritarie che ricevano mandati vaghi, spesso in regime di aperta contraddizione logica tra ciò che si dice e ciò che realmente si vuol fare. La ricetta della sociologa per una politica popolare ma non populista è pazienza e spazi d’incontro, dibattito ed approfondimento delle pratiche di lotta che hanno mostrato efficacia.

In Nancy Frazer, teorica femminista e filosofa americana già autrice con Axel Honneth del rilevante “Redistribuzione o riconoscimento?” (Meltemi, 2007),  l’orizzonte del suo intervento si limita a gli Stati Uniti come “sintomo” più generale dell’Occidente. Siamo così alla partizione tra neoliberismo progressista e populismo reazionario che occlude ogni spazio alla sinistra poiché il secondo (populismo) ha occupato lo spazio della contrapposizione al primo (neo-liberismo). Iniziato da Clinton (1992) e diffuso da Blair (i Reagan & Thatcher del lib-prog anglosassone), continuato da Obama e dalla femminista di Wall Street Hillary Clinton, il neoliberismo progressista ha unito la soppressione dei diritti sociali e l’esaltazione di quelli umano-individuali, rompendo il fronte delle minorità di genere (donne-LGTB) – generazioni (giovani) – razza/etnia (neri ed ispanici) e classi, promettendo ai primi tre l’accesso alle gerarchie produttive basate sullo sfruttamento dei quarti. Emancipazione e finanziarizzazione vs protezione, questa la promessa neo-lib-prog. Poiché, di contro, oltre ad alcune posizioni forse più genuinamente popolari, anche se chissà poi quanto realmente condivise, il fronte populista reazionario, non rappresenta altro che la voglia di rivalsa dell’élite perdente (ad esempio quella petrolifera ed industriale vs quella ecologista – finanziaria – digitale), il tavolo presenta solo “la scelta di Hobson” ovvero una falsa scelta con cui il sistema capitalistico si dicotomizza in due versioni offrendo “libertà” di scelta della forma di dominio a cui assoggettarsi. Scelta che però “sostanzialmente” non c’è. La ricetta Sanders (Corbyn), emancipazione e prosperità, sembra allora l’unica via perseguibile per riportare la sinistra in gioco e rompere le regole del tavolo accettate troppo supinamente. Frazer si augura un ripensamento dell’establishment democratico, un rifiuto della narrazione giustificatoria di aver perso per colpa di un branco di miserabili (“basket of deplorables” secondo la “felice” espressione usata da Clinton ad un comizio), Putin e manovre dell’Fbi ma da quello che leggiamo di questi tempi, la speranza della Frazer pare davvero malriposta.

Ivan Krastev è uno scienziato politico bulgaro che include nell’analisi il panico demografico. I normali ordini stanno scomparendo per via delle migrazioni e della globalizzazione, i normali lavori stanno scomparendo per via di una “trotzkista” rivoluzione tecnologica permanente, la cultura europea sta scomparendo anche solo per ragioni di bilancia demografica. Kristev riconda che Ken Jovitt (The New World Disorder, Univ. of Cal. Berkeley, 1992) avvertiva che la “fine della storia” celebrata da Fukuyama, avrebbe lasciato campo al grande ritorno delle identità etniche, religiose, tribali. Il mondo iperconnesso corrisponde in paradosso ad un mondo disintegrato, la “globalizzazione connette disconnettendo”, un mondo ricco di esperienza ma che distrugge identità e non crea fedeltà. Nel suo Authoritarian Dynamic (CUP 2010), Karen Stenner spiega che è predisposizione psicologica di ogni individuo diventare intollerante all’aumento dei livelli di minaccia, quando il “noi” dell’ordine morale teme di scomparire. Così, non c’è alcuna ragione sostanziale per la quale i paesi centro europei debbano manifestarsi così allarmati da una invasione dei migranti che -numeri alla mano- non esiste, c’è invece la chiara percezione che la contrazione demografica (anche per la lunga diaspora dei giovani di quei paesi che uscivano dal disgelo post sovietico) sta portando all’estinzione etnica. Di contro, nelle società dell’Altro mondo, se la felicità nazionale era prima indipendente dalle ragioni materiali, l’interconnessione televisiva – Internet ha pubblicizzato un modello di “vita e società felice” che si fa prima a raggiungere migrando, piuttosto che trasformando la propria società nativa. Le ragioni della svolta populista stanno in questo disordine permanente ed incrementale che chiama una qualsivoglia forma di ordine che si è disposti a pagare anche a costo di alcune libertà.

L’argomentazione di Bruno Latour, socio-antropo-filosofo francese, ruota tutta intorno all’impossibilità dell’equazione tra i termini che spingono alla crescita economica neo-lib-global ed i termini ecologico-climatico-planetari che oppongono un invalicabile limite a quella cieca spinta. Accortisi di questa impossibilità, le élite hanno fatto -da tempo (già dagli anni ’70)- il cinico calcolo di accumulare per l’ultima volta il “più possibile” (esplosione delle ineguaglianze, del “privato” vs “pubblico”, deregulation anarco-capitalista), segnare un invalicabile confine sociale tra loro e l’irrecuperabile massa dei dannati, negare, occultare e rimuovere ostinatamente l’evidente per guadagnare tempo, scaricare le esternalità (ambientali, migratorie, disordini di vari tipi) su chi altro non poteva a sua volta scaricarle. Lo stigma del “populismo” serve a coprire ogni ragione di lamento e ribellione al crescente disordine procurato, ora che se ne discute la nebbiosa definizione altro tempo utile è stato accumulato per portare avanti saccheggio e fuga dal mondo. Il confuso sogno neo-imperiale di una Gran Bretagna che abbandona il Titanic europeo per mettersi in salvo da sola e quello ancora più evidente di Trump che rinserra gli americani nella loro isola – isolata, la grande fuga dei precedenti pifferai del “migliore dei globalismi possibili”, la dice lunga sull’egoismo lungimirante di questi irrecuperabili predatori individualisti. L’Europa sarà la prima a pagare il conto, globalmente assediata da competitor economici liberati ed invitati al grande gioco del mercato globale, assediata da migranti esuberanti, disordinata dai cambiamenti climatici in via diretta -come tutti- ma anche in via indiretta vista la totale mancanza di autonomia per energia e materie prime. Il futuro apparterrà  a coloro che per primi, rifiutando l’irresponsabile fuga, sapranno atterrare su un territorio comune abitabile, sempre che gli altri non abbiano prima fatto scomparire il pianeta su cui cercarlo.

Paul Mason, giornalista e scrittore britannico, ha pragmaticamente il pentalogo del “che fare?”: reimportare l’industria nel Nord del Mondo, costringere le imprese a riadottare atteggiamenti di responsabilità sociale, rinazionalizzare i servizi pubblici essenziali, alzare impenetrabili muri per impedire alla finanza di sottrarsi alla pubblica fiscalità, congelare (o ristrutturare o cancellare) i debiti e de-finanziarizzare l’economia. Poiché, secondo il nostro, l’obiettivo dovrebbe esser quello di salvare la globalizzazione uccidendo il neoliberismo, ricostruire il consenso per l’immigrazione passa attraverso tre cambi decisivi delle politiche: 1) gestirla, dirigerla e non subirla; 2) non farla diventare “esercito di riserva” e quindi controllare e gestire anche il mercato del lavoro; 3) inserirla dentro il più ampio progetto di sostituzione dell’austerità con un nuovo ciclo espansivo. Il tutto andrebbe a costituire una nuova e sostitutiva narrazione post-neo liberista. Il finale che abbiamo anticipato, giunge dopo una veloce ricostruzione del cosa è successo in questi anni accompagnati da una narrativa neo-liberale che ora giunge al suo drammatico fallimento conclamato, inclusa la disintegrazione del consenso all’immigrazione, segnalando che quella dell’Est Europa è stata (almeno per i britannici) quella più insidiosa avendo impattato i piccoli centri più che le più attrezzate metropoli. Il nuovo soggetto sociale da compattare ed azionare con il pentalogo di obiettivi è l’essere umano giovane, interconnesso e relativamente emancipato. Altrimenti aspettiamoci  una new wave di capitalismo nazionalista, oligarchico, xenofobo.

Pankaj Mishra, saggista e scrittore indiano, dà una lettura tutta culturale della fase storica in cui le cose vanno male ma potrebbero anche peggiorare. Il punto di Mishra è il fallimento dell’immagine di mondo e di uomo dell’Illuminismo, quel presupposto di un umana razionalità calcolante che, costruendo un presupposto infondato da cui far partire catene di conseguenze logico – normative, ha pensato con ciò di aver reso razionale il reale. I vari maestri del sospetto o fuori dalla definizioni culturaliste, gli intellettuali forse meno colonizzati dall’immaginario dominante, lo hanno continuato a dire inascoltati, l’uomo è altro. Freud, Nietzsche, Weber, Musil, Dostoevskij, Max Scheler, Camus, i dialettici dell’Illuminismo Adorno e Horkheimer, Arendt e Weil, financo Tocqueville, fors’anche Rousseau, hanno svolto un inascoltato controcanto sulle componenti emotive, inconsce, irrazionali, passionali, mammifere intorno alle quali la razionalità svolge la funzione di un sottile e precario velo che incarta una scatola nera di ben altra, contraddittoria, complessità. Se -come ha detto lo storico S. Kotkin-, la Russia di Stalin, con la sua ingegneria culturale, sociale ed economica ultramoderna, è stata “l’utopia illuminista per eccellenza”, ne consegue che anche i fondamenti della seconda diade del pacchetto illuminista, il pensiero marxista, ha radici interne a questo infondato presupposto. Ma questo “altro” dialettico ha pur svolto una funzione equilibrante e stablizzatrice costringendo il dominante liberale a compromessi che ne hanno migliorato le performance finali. Dopo l’89, scomparsa l’antitesi, la tesi ha pensato di essere finalmente libera di dedicarsi alla sua onnipotenza ma ha solo rivelato la sua vena delirante, avviandosi al big bang metafisico attuale. Che fare? Rivedere a fondo i presupposti fondanti delle nostre immagini di mondo e di uomo prima che -citando Tocqueville- fissando ostinatamente le macerie ancora visibili sulla riva, si finisca trascinati dalla corrente verso l’abisso.

E’ nel riuscire a tenere assieme integrati che vogliano ulteriormente progredire ed emarginati o in via di emarginazione che vogliono sentirsi di nuovi integrati, la dilemmatica equazione che si pone alla perdente sinistra, secondo  Robert Misik, giornalista e scrittore austriaco. Il problema è ben esemplificato dall’ondeggiamento tra le leadership del Labour di Blair e quello di Corbyn, dilemma di ogni centro-sinistra che risolto donerebbe quella maggioranza che permette di governare, non risolto porta a rappresentare solo una delle due minoranze che però -politicamente- rimangono tali. La ricetta di questa ratatouille che come tutte le ratatouille nel cercare di sapere di tante cose non sanno di niente, sarebbe una sinistra più assertiva e meno educata con le élite globalizzanti, meno arrogante ed intellettualista quindi genuinamente popolare, attenta ai bisogni di rappresentanza delle istanze concrete oltre alle toilette pubbliche per i transgender, realistica ma sognante, che torni nei territori, che rifletta nella sue forme organizzate di partito la pluralità sociale che vuole rappresentare. Partiti di sinistra in grado di vincere le elezioni nazionali, che però condividano una unica narrazione europea, in grado di formare alleanze tra governi (di sinistra), stante che l’ambiente e la stessa architettura europea odierna è intrinsecamente neo-liberista. Tornare alle analisi di classe ma constatare che la contabilità sociale presenta non più solo la vecchia classe operaia ma anche la nuova classe precaria, più anziana e provinciale la prima mentre più giovane ed urbana è la seconda, istintivamente protezionisti e tradizionalisti i primi mentre cosmopoliti ed innovatori sono i secondi. Misik, come altri di questo libro, è liberale e di sinistra ma di come, quando, con quale elaborazione teorica, si sia pensato vincente o prima ancora possibile questo mix, non è chiaro.

L’argomentazione di Oliver Nachtwey,  socio-economista tedesco, è probabilmente un po’ troppo complessa per stare dentro un articolo e viepiù nella sua riduzione che qui tentiamo. Il tedesco si appoggia alla celebre teoria della civilizzazione di Norbert Elias che lo aiuta a spiegare quella che a lui sembra  l’attuale de-civilizzazione. C’è un nucleo di uomini di mezza età e medio reddito in occidente, che si sentono dispregiati e sfruttati,  dalle élite, dalla globalizzazione, dalle donne e perfino dai migranti. Questa incipiente insicurezza chiama l’eterocontrollo da parte di un capo forte che ripristini l’ordine giusto delle cose. Questa chiamata ad un vertice paladino, sconta la sistematica distruzione di tutte le associazioni e comunità intermedie operate da un liberalismo che ha semplificato la società come una rete di singoli individui, tagliando appunto tutti i sottosistemi intermedi. Agisce così la nostalgia per il vecchio ordine (in parte, immaginario) dato che quello nuovo, ammesso possa definirsi un ordine, ha visto questo gruppo finire tra i perdenti, mentre élite occidentali cosmopolite, inclusi nelle specializzazioni tecniche vincenti (finanza, tecnologie, alcuni servizi) e le nuove classi medie soprattutto asiatiche, sono tra i vincenti. La de-civilizzazione, la rottura della convenzione sociale, provoca anche la violenta reazione delle élite nei confronti di questi amareggiati che devolvono consenso politico a formazioni che sfidano il potere dei dominanti. Quindi, non solo si sentono disprezzati, lo sono a tutti gli effetti. Le società occidentali moderne hanno fatto qualche passo avanti nell’integrazione orizzontale (minoranze) al prezzo di molti passi indietro in quella verticale (classi). A sua volta, non come soggetti sociali ma in termini di soggetti nazionali, è ormai chiaro che l’integrazione planetaria non è gioco a somma positiva e l’ascesa dei nuovo mondi è pagata con la discesa di parti sociali dei vecchi mondi dominanti, l’Occidente in specie. Il mercato (i suoi obblighi, i suoi valori, i suoi voleri)  è stato interiorizzato come paradigma unico ed assoluto (privo di alternative), ma l’autocostrizione e l’interiorizzazione hanno prodotto effetti di estraniazione sociale progressiva alla quale si reagisce con risentimento. Il processo di civilizzazione in Elias, non è mai ritenuto una evoluzione incrementale che si solidifica strada facendo, esso “non è mai terminato ed è sempre in pericolo”, pericolo di volgersi nel suo contrario. Quella a cui assistiamo è appunto una de-civilizzazione regressiva e così si spiega l’inizio del ragionamento del sociologo tedesco che in Trump, vede proprio la negazione dell’immagine che il mondo occidentale ha di se stesso.

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Concludiamo così la prima parte dello scritto. Abbiamo omesso il contributo di Eva Illouz, sociologa israeliana poiché il suo intervento è molto stretto su vicende interne alla società israeliana che hanno poco interesse per noi. In breve, la sinistra askenazita israeliana ha snobbato i mizrahi (ebrei di etnia araba) poi sdoganati dalla destra ed oggi base del partito Shas, ultraortodosso – sefardita, stampella di destra del Likud. Non solo nella Illouz, l’autodenuncia di una sinistra intellettualista, accademica, salottiera, in fondo integrata nella stessa società di cui rappresenta il critico di corte, percorre vari interventi.

Riprendiamo quindi da César Rendueles, sociologo e filosofo spagnolo, che vede la crisi non un effetto eccezionale ma uno standard da quando le élite occidentali hanno inteso varare il turbo-capitalismo per far fronte della crisi di accumulo del capitale degli anni settanta. Seguendo Polanyi, vero perno di riferimento per lo sviluppo delle argomentazioni di molti altri interventi, non si dà alternativa tra libero mercato e intervento collettivo ma scelta tra diversi tipi di mediazione politica, “contro movimenti” spinti dagli effetti della distopia mercatistica. Scartate le reazioni di estrema destra, identitarie, nazionaliste, xenofobe, integraliste religiose, populiste reazionarie, rimangono i fermenti di radicalizzazione democratica, già alla base di quella America latina che fu motore del’antagonismo mondiale e che oggi, forse, possono riprendere espressione politica proprio a partire dal Sud Europa. La rivendicazione di democrazia, può rivolgersi ad uno spettro più largo degli interlocutori del tradizionale discorso di sinistra arrivando così a coinvolgere la vera maggioranza sociale. Le gambe su cui far marciare le condizioni di possibilità di questo contro movimento, Rendueles le individua nel precariato e in una alleanza internazionale (europea e non solo) che superi l’”impotenza appresa globale”, una cooperazione globale post-capitalista. Citando Gowan, l’Europa potrebbe diventare il traino (?) di questa globalizzazione post-capitalista, democratica e prospera.

E giungiamo così a Wolfang Streeck. Ripercorsa, in breve, la storia della svolta global-liberista (termini-concetto verso i quali l’Autore dichiara un certo fastidio dovuto probabilmente all’abuso ormai retorico, fastidio poi esteso al termine “populismo”), dal “There Is No Alternative” alla confluenza in essa tanto del centro-destra quanto del centro-sinistra, con acclusa involuzione dei partiti politici e distruzione dei sindacati, Streeck inverte opportunamente il senso di alcuni luoghi comuni. Ad esempio, quello di post-verità, attitudine sistematica del discorso neo-liberale globalista per molti anni prima che l’Oxford Dictionary si accorgesse tardivamente ed in piena falsa coscienza, del suo avvento. Post-verità rinforzata dalla vasta schiera degli esperti menzogneri e da una deriva surreale di narrazioni mainstream che ha toccato vertici inusitati con la campagna elettorale di Hillary Clinton, la miliardaria beneficiata da Goldman Sachs che voleva rappresentare “chi lavora duramente”. Si è arrivati nel caso del referendum britannico ad invocare i test di idoneità per il voto consapevole, dopo aver fatto volutamente degradare ogni forma di democrazia attiva e partecipata. La “situazione spirituale del nostro tempo” e segnata da una scissione culturale inedita, c’è un forte disagio da globalizzazione che è senza rappresentanza ed è senza rappresentanza perché coloro che storicamente rappresentavano le istanze dei perdenti, di loro origine internazionalisti, si trovano concettualmente accanto ai globalisti.  Dal basso, si è espresso -in qualche modo- il disagio da globalizzazione ma dall’alto ciò è stato vissuto come estrema minaccia e la contromisura è stata la reinvenzione della categoria “populista”. Con “populismo” si definisce sostanzialmente un deficit cognitivo di chi “la fa facile” per ignoranza della vera complessità del mondo (anticamente si usava “demagogia” ma oggi è tutto “nuovo” e quindi per dire cose vecchie si usano termini-packaging nuovi)  ed in subordine, lo si accusa di basarsi su un pericoloso fondo di nazionalismo etnico. La non sempre dichiarata ma sempre pensata accusa di fascismo che sarebbe sotteso a questa rivolta degli ignoranti, finisce con l’esserlo di fatto visto che coloro che prima difendevano i deprivati ora si trovano dall’altra parte lasciando il campo a gli organizzatori del dissenso con agenda politica senz’altro non progressista. Streeck nota -a ragione- la grande difficoltà che le élite (tanto neo-liberiste, che progressiste) manifestano nel comprendere i segnali del 2016, da Brexit a Trump, inclusa la sinistra cosmopolita e questo perché quasi più nessuno ha la capacità di volgere lo sguardo “verso il basso” e comprenderlo. Eppure, di fatto, siamo nel gramsciano interregno dove gli effetti sorprendenti prendono il sopravvento sulle articolazioni prevedibili, di cui la rivoluzione populista è un esempio. L’ammonimento verso la sinistra cosmopolita è chiaro: “Chi espone la società a una pressione distruttrice sul piano economico e morale, suscita una opposizione tradizionalista … meglio una democrazia nazionale oggi che una democrazia della società mondiale (ammesso sia possibile, aggiungo di mio) domani”. [Ai tempi della consegna di questo articolo, probabilmente, Streeck era impegnato nella chiusura della sua ultima fatica: “How will capitalismo end? Essays on a failing system” Verso book, 2016. Qui, una intervista sul senso più ampio della sua posizione.]

Storico, archeologo, scrittore e soprattutto attivo sperimentatore di nuove forme di democrazia, David Van Reybrouck, belga-fiammingo, interviene con una lettera propositiva rivolta a Juncker. Il tema è quello della democrazia, messi su un piatto della bilancia i fragili presupposti che condussero all’Unione e sull’altro la collezione di inquietanti fatti politici, sociali ed economici recenti, il ritorno ai cittadini s’impone come unica via per rilanciare l’idea ed il progetto europeista, mai in così rischioso bilico. Reybrouck è fortemente critico verso la forma democratica otto-novecentesca ovvero “rappresentativa” che, citando il lavoro di Bernard Manin (Principi del governo rappresentativo, il Mulino, 2010), riporta alla comune radice delle parole élite ed elezioni, in pratica, l’elezione di una élite. Tra questa élite ed il corpo elettorale, per lo più ignaro del profondo delle questioni e svegliato dal torpore apolitico solo una volta ogni quattro-cinque anni, non c’è alcuna “società civile” ma un mondo di variegati formatori di opinione quasi sempre espressione dell’élite stessa. Non va meglio coi referendum, quiz dicotomici e riduttivi di complessità che spaccano i paesi quando non vengono usati per tutt’altri scopi rispetto al quesito posto, come plebisciti ma anche sonore bocciature come nei casi Cameron e Renzi. Nei social e su Internet, da una parte è dilagata l’informazione inverificata, dall’altra l’incontro tra opinioni diverse lascia i due contendenti con le reciproche accuse di “troll” o “venduto”. Tutto ciò è evidente che non funziona e da ciò scaturisce la “stanchezza per la democrazia”. Torniamo allora al sorteggio ateniese, un campione casuale di cittadinanza a cui si delega un intenso processo informativo di approfondimento, da cui far scaturire una lista di suggerimenti e proposte concrete, al limite poi da verificare con referendum a risposta multipla di modo da meglio rappresentare la complessità e le sfumature dell’adesione o della critica, se non del rifiuto. Al proposito, l’Autore cita un caso concreto che per la seconda volta è stato messo in campo in Irlanda su vari temi. Si potrebbe allora così rilanciare il progetto Europa, coinvolgendo direttamente gli europei realizzando così la promessa democratica non solo di un governo per il popolo, ma del popolo. [Magari non avremmo svolto il discorso rivolgendosi a Juncker  ma l’intervento è comunque interessante]

E chiudiamo con il filosofo e psicanalista sloveno Slavoj Zizek che ha già zippato la sua proverbiale torrenzialità in appena 14 paginette che sono difficili da zippare di nuovo in un più breve sunto. Il punto finale è anche quello di partenza: il capitalismo è globale? L’anticapitalismo non può che combatterlo nello stesso formato, occorre una nuova Internazionale politica ma di questa logica che si vorrebbe auto-evidente, Zizek non dà dimostrazione. Seguono cinque  citazioni, due lineari ovvero la maoista eccellenza della confusione sotto il cielo e lo “studiare! studiare! studiare!” leninista, due invertite ovvero l’undicesima di Marx che dovrebbe rianteporre la fatica dell’interpretazione all’azione compulsiva e cieca e la gramsciana transizione che nell’interregno disvela i più morbosi fenomeni che -prima che vengano normalizzati da un nuovo ordine- diventano ottime occasioni per le grandi re-azioni. La quinta è psicoanalitica ed è il passaggio dalla paura che mobilita verso l’esterno, all’angoscia che ci impone di cambiare noi stessi. Per come si esprimono le sentenze sapienziali dell’Yi Jing cinese, “la situazione è propizia” ma per fare cosa? Promuovere un diritto cosmopolitico di sinistra che affronti appunto nel formato globale il già globale capitalismo, questa la linea per i “liberali di sinistra”. Del quadrilatero di posizioni formato da capitalismo globale e multiculturale, sinistra universalistica, sinistra patriottica antiglobalista e capitalismo con caratteristiche nazionali, etniche e locali, Zizek sposa la seconda (in sostanza, il movimento Diem25 di Varoufakis) e vede come suo territorio geo-storico-politico l’Europa. Un Europa che inquieta tanto Trump che Putin che su questa condivisione potrebbero anche evolvere un’alleanza “populista”. Rispetto a questo “populismo” arrabbiato, sbagliano i liberali di sinistra critici a sottovalutare la debolezza intrinseca dell’egemonica ideologia liberale ma sbagliano anche i nuovi populisti di sinistra che vorrebbero utilizzare il format “populista” sebbene distogliendolo dai suoi attuali fini intrinsecamente di destra per volgerne la forza a fini di sinistra, come se i format fossero neutri in sé. Quello populista-nazionalista, secondo Zizek, non lo è, l’universalità non è qualcosa che possa emergere alla fine di un processo lungo e paziente come vorrebbero Mouffe e Laclau ma ineliminabile punto di partenza per ogni progetto emancipativo.

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COMMENTO. Definendo il perimetro degli interventi attesi, il curatore Heinrich Geiselberger (a cui comunque va il merito dell’iniziativa in quanto a sinistra sembra esserci una certa depressione, ovvero mancanza d’iniziativa collettiva), ha posto i limiti di una fotografia dal titolo “La grande regressione”, alludendo in qualche modo e volutamente alla “Grande trasformazione” di Karl Polanyi che viene infatti più volte citato dagli intervenuti. Ma pur dandosi i limiti ascritti, il tema ha finito spesso per sfociare in una seduta di autocoscienza della sinistra smarrita davanti all’evidenza del fatto che in Occidente siamo in piena crisi oggettiva, che altrettanto oggettivamente questa crisi profonda, ontologica, ha come peggiorativo il tardo capitalismo finanz-global-liberista[1], che ogni giorno di più s’ingrossa l’elenco dei sintomi di una generale dis-funzione degli ordini sociali, politici ed economici (e non da tutti citati ma assai evidenti anche quelli culturali ed ecologici), che quindi esisterebbero tutti i parametri per una affluenza di forze sociali e quindi politiche nelle file di una sinistra in grado di “cogliere il momento”, ma non c’è alcuna sinistra a cogliere il momento. Perché ?

Elitismo della sinistra accademica, involuzione linguistica (è sintomatico come tutti gli autori intervenuti si siamo sforzati di esprimersi in linguaggio umano quando i più, nelle loro pubblicazioni, gigioneggiano spesso con qualche dialetto della loro tribù epistemica), separazione delle già risicate forze tra neo-populisti ed internazionalisti, ciechi e poco avveduti i primi per i secondi, scivolati nell’ossessione dei diritti umani e non sociali i secondi per i primi. Sinistra liberale che finisce con il voler salvare il sistema da se stesso e sinistra radicale che non sa fornire l’alternativa proprio ora che il sistema dominante non distribuisce più dividendi e s’inviluppa nella sua cupa demenza senile. La sinistra finisce così sugli spalti ed in radiocronaca a raccontare i tempi che -sul campo- vedono destra-capitalisti-nazionalisti vs destra-capitalisti-globalisti. Con la sua auto attribuita -inossidabile- lucidità critica, la sinistra sgrida destre nazionali e globali, capitalisti di ogni forma e grado, Trump e Putin, una sua fazione l’altra com’è atavica tradizione ma questo ipervolume di parole a quale sostanza corrisponde? E’ solo un problema di linguaggio o la sinistra campione universale del pensiero critico e destruens non sa esattamente cosa vuole se non in negativo, non ha un posto dove portare la gente, non ha alcuna viabile ipotesi costruens? Forse il tempo della critica è il tempo del dominio di una forma ma quando quella forma sembra perdere le sue funzioni ordinative, si presenta il tempo del progetto e questo progetto nonché le facoltà stesse di pensarlo, mancano?

Nell’ultimo secolo e mezzo, la sinistra occidentale ha svolto il ruolo di contrappeso del sistema dominante, a volte stabilizzandolo, a volte migliorandolo con un po’ di welfare e di pressione su i “diritti”, assicurandogli la coscienza critica nel mentre le pratiche continuavano nel “business as usual”. Una sorta di “religione della buona coscienza”, con le sue pratiche, le sue processioni di piazza, i suoi sacerdoti per altro in reciproco, astioso, conflitto, le sue chiese, le sue insensate guerre di religione su i diversi aspetti secondari della credenza, i suoi dogmi ed i suoi eretici, i suoi libri sacri, le sue preghiere, le icone a cui votarsi nell’incertezza. Una religione che avendo promesso un mondo migliore nell’al di qua, dopo un secolo e mezzo di sostanziali fallimenti, sta morendo di lenta e sembra irreversibile dissipazione per palese mancanza di interesse e credibilità. Religione ormai in regressione, con le idee poco chiare e le chiese vuote ma la cui residua fede sfida tutte le falsificazioni, com’è norma. Tempo fa, qualcuno ritirò fuori con grande successo l’idea di Walter Benjamin che pensava che il capitalismo fosse una forma di  religione[2], una credenza e pratica condivisa di tipo ideologico. Non solo il capitalismo, anche l’anti-capitalismo è una forma ideologica e tutte le forme ideologiche appartengono alla stessa famiglia delle religioni, la famiglia delle “immagini di mondo”. Il capitalismo però parte come pratica e poi si costruisce uno specchio ideologico facilmente falsificabile mentre l’anticapitalismo parte come specchio critico dell’esistente ma privo del tutto di indicazioni pratiche sul come superarlo. Una splendida diade specularmente inversa, una prassi senza filosofia ed un filosofia senza prassi.  In più, c’è il grave pregiudizio del fatto che tutti i sacerdoti dell’anti-capitalismo sono borghesi, borghesi che teorizzano contro il sistema dei borghesi. Per carità, c’è diritto di secessione etico-morale dalla propria classe (come dalla propria civiltà) ma forse questa coincidenza porta a non avere le idee chiare in sede di prognosi, forse quella della classe salvifica che dovrebbe tirarci fuori dai pasticci è una idealizzazione dialettica mischiata a sensi di colpa sociale. Per tornare al problema del come ci si esprime a sinistra, è evidente che molti scrivono per farsi intendere dai propri simili e non certo da tutti gli altri, la sinistra parla di popolo ma non al popolo e forse neanche si sente del popolo.

Venendo al libro, la sinistra liberale sembra non comprendere la durezza dell’iceberg contro il quale è andato a sbattere l’Occidente, visto che la nave s’è data in gestione a gli spiriti animali e quindi nessuno ne governa la rotta, consulta le carte, comprende la difficoltà di navigare in sì perigliosi mari. La sinistra liberale sembra dedita esclusivamente alla coltivazione delle migliori condizioni di possibilità del sistema senza comprendere che quel sistema non è più funzionante. Come spesso ripetiamo, l’Occidente, un secolo fa era un terzo del mondo ed immensa era la distanza che lo divideva in termini di performance dal resto del mondo che infatti dominava. Mal si comprende spesso che “dominare” non è solo un fattore etico, è anche un fattore funzionale. Se domini e non competi, se ti accaparri e non condividi, se dai le norme e non le subisci, tutti i conti tornano con facilità perché c’è “abbondanza di condizioni”. Oggi l’Occidente è poco più di un decimo del mondo e va ulteriormente a ridursi, la sua preminenza di performance si sta velocemente riducendo ed in molto casi è annullata, dovresti allora esser in grado di competere, dovresti comunque prepararti a condividere visto comunque il ridotto peso e dovresti esser in grado di concordare le norme. Ma questo passaggio dal dominio al condominio sembra che non lo si voglia registrare. La regressione è un effetto della contrazione e rispetto ad una contrazione c’è da prendere una posizione radicale perché i sistemi si riducono fino ad un certo punto naturalmente[3], dopo saltano ad un diversa forma e noi siamo proprio al punto che dovremmo decidere quale nuova forma darci. La forma non ha nulla a che vedere con il cosmopolitismo, i transgender, le opzioni morali, l’accoglienza migratoria, ha a che vedere con l’architettura istituzionale (gli storici stati-nazione o nuovi e più massivi stati-federali da costruire con chi e come?), la distribuzione della minor ricchezza e relative opportunità, il senso della società ed il ruolo che vi deve esercitare il lavoro che non è più necessario ai livelli del XIX secolo, la postura inter-nazionale, decidere chi deve decidere , domandarsi se gli euro-continentali sono della stessa natura degli anglosassoni o i destini vanno divisi visto che la contrazione per chi vive in un impero, avrà ben altri effetti e dimensioni. Infine, smetterla di parlare per assoluti e di parlare per conto dell’umanità, rendersi conto che noi qui in Occidente non siamo “il” mondo, siamo solo un frammento geo-storico tra gli altri.

La sinistra radicale si troverebbe così al fatale, storico e sempre sognato appuntamento con la storia, quel punto in cui finalmente si aprono le condizioni di possibilità -che a questo punto diventano di necessità- che portano alla fatidica domanda: che altro fare? Quale altro modo di stare la mondo possiamo esaminare come alternativa? Qui ci si divide ulteriormente in due tradizioni. Quella della fazione ultra-democratica della Rivoluzione francese (che è poi quella che diede natali al termine “sinistra”) e quella dei socialisti, poi comunisti. La prima tradizione sosteneva un metodo per prendere le decisioni all’interno del corpo sociale secondo la contabilità dei Molti. Questa tradizione non ha avuto seguito. Si è accettata la democrazia parlamentare come massimo raggiungimento dell’auto-governo del popolo, una posizione a dir poco demenziale. Son decenni che la teoria politica e sociologica più lucida ha mostrato con chiarezza l’impostazione elitista di questa forma corrotta di democrazia “rappresentativa” che non meriterebbe neanche di appartenere alla categoria “democrazia”,  ma ecco che siamo a rimpiangerla come se avessimo raggiunto un eden che oggi ci vogliono sottrarre.  La seconda tradizione, i socialisti ed i comunisti,  prendevano la struttura sociale creata dal capitalismo, cioè una forma di piramide gerarchica che non ha inventato il capitalismo ma che si perpetua dalla nascita delle società complesse, quindi da più o meno ottomila anni (a dire che il “dominio dell’uomo sull’uomo” è evidentemente un problema sistemico di natura socio-antropologica prima che economica) e ne volevano invertire le gerarchie portando i Molti subalterni a farsi dominanti del sistema di produzione. Visto che poi erano Molti, sostanzialmente si risolveva  così per semplice contabilità, il millenario problema del dominio degli uni su gli altri. Forse si dovrebbe tornare a questa biforcazione e dopo centocinquanta anni, tirar giù una linea di totale, fare somme e sottrazioni e calcolare la “realtà” delle varie forme di pensiero di sinistra, potare selvaggiamente alcuni rami infruttuosi e concentrare la forza vitale che pur rimane in ciò che più promette un futuro concreto. Questo futuro sfuggente ma che già sappiamo molto ma molto problematico poiché portare una intera civiltà a riadattarsi al mondo che le è cambiato intorno non è mai riuscito a nessuno. Prima di disegnarlo col “io lo farei così” “ah, io no, lo farei cosà”, andrebbe affrontato decidendo chi e come si decide. Prima del menù (per le osterie del futuro-presente), c’è da decidere come funziona la cucina.

Delle marxiane Tesi su Feuerbach, a noi piace -in particolare- non l’enigmatica e troppo citata undicesima, ma la seconda che oltretutto ne chiarisce il senso: “La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. E’ nell’attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica”. Dopo centocinquanta anni di “attività pratica” di sinistra, qual è la “verità cioè la realtà e potere”, del pensiero di sinistra? Qual è invece la sua degenerazione scolastica? Perché i ripetuti fallimenti nella pratica che voleva conseguire l’idea del cambiamento del mondo non hanno retroagito come avrebbero dovuto, modificando il pensiero originario? Non solo non abbiamo cambiato il mondo ma molti di noi continuano a ragionare con categorie di centocinquanta anni fa e certo se non impariamo a cambiare il sistema di pensiero in seguito al riscontro della prassi, la vedo difficile poi riuscire a cambiare effettivamente qualcosa di concreto là fuori.

Forse la sinistra radicale, che almeno non ha le illusioni di quella liberale che discute su i titoli delle canzoni che l’orchestrina della nave deve intonare durate il naufragio, deve ancora compiere la sua “grande trasformazione” e regolare i conti con la sua origine otto-novecentesca. Sarebbe forse più utile aggiornare le fonti di analisi dell’umana antropologia (quella di Marx è ferma ai guadagni ottenuti da questa disciplina al 1870!)[4], interrogarsi sulla stessa accettazione supina di una divisione dei saperi che ci fa rimbalzare senza rotta tra sociologismo ed economicismo, tra una antropologia lavoristico-produttiva e l’evidente collasso ecologico,  tra gli appassionati di “struttura” e quelli della “sovrastruttura”, tra vago cosmopolitismo stoico e geopolitica fondata su solide basi storiche e geografiche, materialismo vantato ma poi annegato in una ipertrofia idealistica che soffre atavicamente dello  “schifo del concreto”, analizzare i rapporti tra le diverse culture-civiltà che certo appartengono tutte al superiore ordine dell’umano ma che geografia e storia (di nuovo, non il “capitalismo”) hanno diviso in sistemi diversi che non hanno pratica e tradizione di convivenza reciproca. Chiarirsi anche su i controversi rapporti tra Stato e mercato poiché a volte sembra che a sinistra si sia creduto con troppa acquiescenza dell’esistenza di una dicotomia conflittuale lamentata dai liberali. Senz’altro tra i due ordini c’è storicamente tensione ma francamente nella storia non si vede questa preminenza della struttura (economica) su i sistemi (politici), si vede chiaramente che da Venezia ad Amsterdam, da Londra a Washington, oggi Pechino (ma vale anche per Tokyo e come ben vediamo e sappiamo dalle nostre parti anche per Parigi e Berlino), l’ordine economico si esprime sempre e soltanto all’interno della condizioni di possibilità che gli procura il politico. Anche la finanziarizzazione e certo la globalizzazione libera&bella, nascono da norme giuridiche e decisioni normative promosse da governi ben precisi (anglosassoni), gli stessi che oggi vorrebbero revocare parzialmente la seconda che paradossalmente finisce con l’essere difesa dalla sinistra liberale in preda alla più imbarazzante delle confusioni mentali.

Visto poi che ormai è dedita più all’intellettualità che alla pratica, la sinistra ha dei compiti seri anche in questo campo ristretto.  Il fastidio di Streeck, il fastidio  per quella brodazza di concetti dai confini sbiaditi e dalla consistenza dubbia (neoliberismo, globalizzazione, internazionalismo, cosmopolitismo, nazionalismo, populismo, e mi permetto di includere anche capitalismo, un concetto saponetta che ogni volta che tenti di prenderlo in mano sguscia via da tutte le parti), è -credo- anche il fastidio per una minorità concettuale.  Ci facciamo spesso imporre l’agenda, ci facciamo imporre i concetti, ci facciamo imporre i giudizi traendoli per antitesi meccanica da quelli posti in forma dominante. La sinistra dovrebbe trovarsi lì dove garrisce la bandiera dell’autonomia, del darsi la legge da sé ma se non riesce più ad avere una egemonia nel pensiero sul mondo imponendo sua agenda, sue categorie e suoi concetti , vuol dire che non è una alternativa, è embedded all’intero Occidente in completa regressione, de-civilizzazione, fallimento adattivo.

Notoriamente, il problema del mito della caverna di Platone è che quelli nella caverna non sanno che quella è solo una caverna, non l’universo. Difficile non pensare all’occidentale per un occidentale. Forse sarebbe utile un secondo volume sulla Grande regressione che si dia in oggetto proprio e solo la grande regressione della sinistra occidentale, come uscire da un sistema di pensiero -per lo più- scolastico, un sistema che ha perso visione e si è divaricato tra utopia stanca e gestione della contingenza. Senza una nuova sintesi, non c’è scampo al naufragio che questi “diari collettivi” accompagnano con la mestizia del “lo sapevo, lo avevo capito, ma non son riuscito a fare nulla”. E’ questa impotenza che genera depressione ed è anche questa che contribuisce alla grande regressione.


Note
[1] Se sia causa prima o peggiorativa c’è poca chiarezza.
[2] W. Benjamin, Capitalismo come religione, Il nuovo melangolo, 1985-2013
[3] “Naturalmente” non significa proporzionatamente. Come osserva nel suo intervento B. Latour, tutta la contrazione è stata scaricata dai dominanti su i dominati. Che la festa fosse finita è diventato il mantra delle élite per far passare aggiustamenti sociali al fine di “passare la nottata”, promettendo vari tipi di luci psichedeliche in fondo al tunnel. Il punto è che la contrazione è definitiva e strutturale, non episodica e momentanea e quindi la festa era finita pure per loro. Ma poiché per loro la festa non può finire mai, tutto il peso dell’hangover è finito in carico a chi alla festa aveva fatto solo da cameriere.
[4] Le forme della gerarchia sociale (dominio di A su B), che siano basate sul sesso, genere, età, classe o etnia, risalgono alla nascita delle società complesse. Leggendo certe analisi, sembra che a sinistra si sia aperto il libro della storia umana solo alle pagine che vanno dal 1850 in poi.

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