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L’impossibile rinascita dell’industria americana (parte 2)

di Ferdinando Bilotti

11286659155 bf61ce1e8f b.jpgNella prima parte di questo articolo abbiamo visto che il ripristino di una struttura industriale adeguata alle dimensioni e alla popolazione degli USA richiederebbe il ritorno in patria di quelle produzioni di massa che oggi i consumatori americani acquistano dalla Cina. Abbiamo visto anche, però, che diversi fattori impediscono all’amministrazione Trump di sanzionare pesantemente le merci cinesi e quindi di fare leva sui dazi per promuovere tale ritorno. Alla politica trumpiana, pertanto, arriderà un successo soltanto parziale, in quanto ad accettare le condizioni da essa imposte saranno, fra i tradizionali esportatori manifatturieri in terra americana, unicamente l’UE e alcuni paesi asiatici meno importanti della Cina. Abbiamo spiegato, inoltre, come l’imposizione dei dazi potrebbe spingere le imprese di tali aree a trasferirsi non negli USA, bensì in altri paesi, per beneficiare di costi di produzione più bassi; e come per il governo statunitense potrebbe risultare impossibile ottenere il pieno rispetto degli impegni riguardanti l’effettuazione di investimenti.

L’industria americana, in compenso, nel prossimo futuro potrebbe giovarsi dell’orientamento bellicista assunto dall’Unione Europea. Questo difatti le imporrà un riarmo che in tempi brevi non sarà conseguibile senza fare largamente ricorso alle produzioni di armamenti americane, in ragione di problemi di natura sia materiale (al momento l’apparato industriale militare europeo non è abbastanza sviluppato da poter supportare le ambizioni dei leader comunitari, e la riconversione di quello civile a fini bellici non può essere immediata) che finanziaria (gli attuali prezzi energetici si ripercuoteranno anche sui costi di produzione dei sistemi d’arma realizzati in Europa). Tuttavia, non è scontato che i popoli europei accettino senza reagire – nelle urne e nelle strade – i tagli alla spesa sociale necessari a finanziare l’espansione di quella militare. Inoltre, va rammentato che l’industria militare statunitense, pur avendo mantenuto un certo radicamento in patria, dipende comunque da forniture di componenti estere, ragion per cui, così come la fuga delle industrie dall’Europa si tradurrebbe solo in parte nella comparsa negli USA di nuovi stabilimenti, così la domanda europea di armi americane si tradurrebbe solo in parte in una maggiore attività di impianti produttivi ubicati negli Stati Uniti.

Insomma, neppure la politica europea di riarmo è suscettibile di offrire un contributo decisivo alla reindustrializzazione americana.

D’altronde, con tutta probabilità l’amministrazione Trump è consapevole dell’impasse in cui si trova, ragion per cui non ambisce davvero a “rendere l’America di nuovo grande” (come recita il noto slogan), bensì, più modestamente, a rendere la situazione del paese un po’ meno disastrata. I dazi riusciranno comunque ad avere un certo impatto positivo sulla presenza di industrie nel paese. Essi, inoltre, attenueranno la crisi finanziaria dello stato, consentendogli di procurarsi nuove entrate senza commettere il reato di lesa maestà della torchiatura fiscale dei ricchi; e consentiranno altresì un miglioramento della bilancia dei pagamenti, e non soltanto perché alcuni beni importati diverranno produzioni nazionali, ma anche perché quelli che rimarranno tali diverranno più cari e quindi saranno meno richiesti anche a prescindere dall’esistenza di un’alternativa made in USA. I dazi, insomma, opereranno come delle imposte, che sottraendo risorse ai cittadini determineranno una compressione dei loro consumi: un metodo rozzo, ma efficace, per limitare le importazioni (noi l’abbiamo sperimentato ai tempi del governo Monti, che con l’austerità riuscì a riportare in attivo la bilancia commerciale dell’Italia; anche se tale governo, invece dei dazi, per impoverirci usò direttamente la leva fiscale). I lettori noteranno che tutto ciò presenta un risvolto paradossale: Trump si atteggia a difensore dei lavoratori americani, ma le sue politiche da una parte non avranno un impatto forte come quello promesso, e dall’altra comporteranno un prezzo da pagare, che in massima parte ricadrà proprio sulle classi lavoratrici (al riguardo, i lettori tengano presente che ormai la forza lavoro americana è largamente priva di diritti e di rappresentanza sindacale; essa quindi non avrà molte possibilità di fare pressione sulle imprese per ottenere aumenti di stipendio compensatori del rincaro del costo della vita).

I lavoratori americani, quindi, si mettano l’animo in pace. Buona parte di essi è destinata, anche in futuro, a non avere altre possibilità d’impiego che un posto da magazziniere in un deposito Amazon o da cassiere in un centro commerciale Walmart: a non potere fare altro, insomma, che ammannire ai propri connazionali merci prodotte altrove. E subendo una perdita del potere d’acquisto dei loro già magri salari, per di più.

Peraltro, per loro il peggio deve ancora venire. Infatti, ci pare improbabile che questa soluzione di compromesso riesca a migliorare più di tanto lo stato dei conti pubblici statunitensi. Ormai il debito americano ha raggiunto un livello tale da autoalimentarsi, in quanto la sua entità gonfia la spesa per interessi su di esso, rendendo quest’ultima un potente fattore di ulteriore indebitamento. Se unitamente a tale problema consideriamo il pozzo senza fondo della spesa militare e l’evanescenza del gettito fiscale di tipo ortodosso, non possiamo non concludere che gli USA finiranno, presto o tardi, per trovarsi in una situazione di grave dissesto finanziario. E dunque, presto o tardi, si renderà necessario un intervento drastico, il quale naturalmente avrà un costo sociale che verrà scaricato, in larga misura, proprio sui lavoratori.

Intendiamoci: in linea di principio, il debito di uno stato può crescere all’infinito. All’atto pratico, però, a un certo punto può diventare troppo grande rispetto alle sue possibilità di trovare acquirenti (dal momento che la liquidità presente nei mercati finanziari non è illimitata e che comunque a essa si rivolgono anche tantissimi altri emettitori di titoli, sia privati che pubblici). La sua stessa crescita, inoltre, può dissuadere gli investitori dall’acquistarlo, rendendoli dubbiosi circa la capacità futura del governo di corrispondere loro gli interessi promessi.

Una strategia che potrebbe venire presa in considerazione? Bloccare la corsa del debito passando al finanziamento della spesa pubblica tramite creazione di valuta. Il governo, cioè, potrebbe procurarsi le risorse che gli occorrono emettendo titoli a bassissimo rendimento, i quali verrebbero acquistati dalla banca centrale (la cosiddetta Fed, abbreviazione di Federal Reserve), che li pagherebbe stampando nuova moneta. (Ma si può fare?, chiederete voi. Beh, è ciò che ha fatto l’Italia negli anni Settanta.) Questa pratica da un lato ridurrebbe la necessità di collocare debito presso soggetti che pretenderebbero di guadagnare dal suo possesso e dall’altro - tramite l’inflazione e la svalutazione di cui sarebbe causa - abbatterebbe il valore reale degli interessi pagati, in patria e all’estero, sui titoli esistenti. La spesa per interessi sul debito andrebbe così riducendosi, e con essa la necessità di emettere nuovo debito per pagare tali interessi.

A onor del vero, sulla praticabilità di una simile operazione potrebbe incidere negativamente l’atteggiamento dei grandi operatori finanziari. Questi, difatti, non soltanto vedrebbero diventare meno redditizi i propri investimenti nel debito americano, in ragione della erosione dei rendimenti reali dei titoli, ma sconterebbero anche gli effetti dell’inflazione sul valore degli altri loro crediti, e quindi avrebbero ragioni per contrastare la messa in atto di tale politica. Tuttavia, nel momento in cui la crisi finanziaria degli USA diventasse un problema ineludibile, essi si troverebbero a dover scegliere fra una misura del genere e una ancora più drastica, quale potrebbe essere una ristrutturazione del debito (ovvero la decisione governativa di disconoscere parte di esso), ragion per cui potrebbero ritenere la prima una soluzione accettabile. Oltretutto, essi potrebbero provare a sfuggire alle ricadute negative dell’inflazione cercando per i propri capitali degli impieghi all’estero, che consentirebbero loro di conseguire profitti in valute meno soggette a perdere valore.

Le principali vittime di una strategia inflazionistica, dunque, sarebbero in realtà le classi lavoratrici, ovvero la parte della popolazione meno dotata d’influenza politica. Esse difatti subirebbero una perdita di reddito reale, corrispondente alla perdita di potere di acquisto delle loro retribuzioni ingenerata dall’inflazione. Certo, quest’ultima avrebbe anche la conseguenza positiva di far svalutare il dollaro rispetto alle altre monete, e quindi di causare - alla stregua di un’ulteriore barriera daziaria - un rincaro delle importazioni; ma il suo contributo alla reindustrializzazione degli USA sarebbe fortemente dilazionato nel tempo, in quanto la contrazione dei consumi interni limiterebbe la propensione degli imprenditori a investire.

Questo dunque è il presumibile futuro dell’economia statunitense: non un’America “di nuovo grande”, ma semmai più piccola, cioè segnata dall’ulteriore impoverimento di ampi strati della sua popolazione. A meno che… a meno che il GENIUS Act non faccia il suo dovere. Il Guiding and Establishing National Innovation for U.S. Stablecoins Act è un provvedimento appena varato dall’amministrazione Trump (il cui acronimo è per l’appunto GENIUS: bella cosa l’autostima), il quale dovrebbe servire proprio a scongiurare una crisi del debito. Il Genius Act si rivolge agli emittenti di stablecoin, le quali sono delle criptovalute teoricamente più stabili delle altre monete virtuali, in quanto create da società che posseggono delle riserve economiche di pari valore. Il provvedimento impone loro di sostenere le proprie valute tramite l’acquisizione di beni sicuri, quali i titoli del Tesoro americano. Per effetto di questa norma, l’espansione del settore delle stablecoin dovrebbe comportare un aumento della domanda di tali titoli, consentendo al governo di continuare a emetterne in grandi quantità senza correre il rischio che essa non tenga il passo della loro offerta. Addirittura, la crescita della richiesta di titoli dovrebbe consentire al governo di venderli a un prezzo più elevato e offrendo per essi degli interessi più bassi rispetto a quelli attuali. Bello, no?

Sì, peccato che già adesso sia osservabile come diverse stablecoin non siano riuscite a mantenere il proprio valore nel tempo, svalutandosi rispetto agli asset posseduti dai loro emittenti. Cosa succederà quando ne circoleranno centinaia? Il precedente cui possiamo rifarci non è incoraggiante. Negli Stati Uniti dell’Ottocento a battere moneta erano decine di banche diverse, e la situazione che ne derivava era piuttosto instabile, al punto che vari istituti fallirono. Vero è che all’epoca non esisteva una banca centrale federale che vigilasse sul sistema creditizio; ma siamo sicuri che le autorità riusciranno a vigilare con la dovuta attenzione sull’affidabilità di una moltitudine di stablecoin? A nostro avviso, è molto più probabile che prima o poi si abbia qualche grosso fallimento, che porterà alla reimmissione sul mercato di enormi quantitativi di titoli, con conseguente crollo del loro valore e impennata dei rendimenti che il governo dovrà garantire per poter collocare le nuove emissioni. Fenomeni che compenseranno largamente i risparmi ottenuti sino a quel momento.

L’aspetto paradossale di questa situazione è che, in linea di principio, un’alternativa a queste politiche ingiuste e fallimentari esiste: una strategia efficace e socialmente equa di reindustrializzazione e di rientro dal debito è infatti concepibile. Proviamo a delinearne le caratteristiche.

Dunque, cosa potrebbe fare un’amministrazione davvero intenzionata a far risorgere l’industria americana? Ebbene, per cominciare potrebbe dare vita a un efficiente sistema universitario pubblico, a un efficiente sistema sanitario pubblico e a un efficiente sistema previdenziale pubblico, in modo da liberare i cittadini dalla necessità di svenarsi e indebitarsi per pagare un college privato, un’assicurazione sanitaria privata e un piano pensionistico privato. Fatto ciò, sarebbe in grado di praticare una politica protezionista senza compromettere la capacità di consumo della popolazione, poiché l’incremento dei prezzi ingenerato dai dazi verrebbe compensato dalla sparizione dai bilanci familiari di quelle ingenti voci di spesa. La spesa aggiuntiva nel campo della formazione, inoltre, porrebbe a disposizione delle imprese le risorse umane di cui queste abbisognano. Tale amministrazione, ancora, potrebbe varare una politica di grandi investimenti pubblici, funzionali al miglioramento delle infrastrutture nazionali: questo sarebbe un modo per rendere più conveniente la localizzazione negli Stati Uniti delle attività industriali a prescindere dall’imposizione o meno di dazi sulle importazioni. Inoltre, dal momento che tale politica di infrastrutturazione farebbe sorgere una ingente domanda di beni industriali, la quale per forza di cose dovrebbe venire soddisfatta soprattutto da aziende straniere, la sua conduzione doterebbe il governo americano di un’importante leva negoziale nei confronti della Cina (la quale, in cambio dell’accesso delle proprie imprese a queste commesse pubbliche, potrebbe venire indotta a tollerare un’accentuazione del protezionismo statunitense o ad impiantare fabbriche negli USA). La nostra amministrazione ipotetica potrebbe altresì porre in essere una combinazione di tasse e incentivi finalizzata a dirigere l’attività degli operatori finanziari verso i settori manifatturieri da rilanciare, punendo gli investimenti speculativi (come i riacquisti di azioni proprie, che oggi costituiscono una forma importantissima di reimpiego dei profitti) e premiando quelli produttivi. Infine, per procurarsi le risorse necessarie al finanziamento di tutti quegli investimenti pubblici essa potrebbe perseguire una politica di distensione - che le consentirebbe di ridurre le spese militari - e sottoporre i ricchi ad una sana tosatura fiscale.

Quanto al problema del debito, quello verrebbe risolto tramite l’incremento del gettito fiscale, che deriverebbe in parte dall’inasprimento della tassazione sui redditi alti e sui grandi patrimoni, ma in parte anche dall’espansione della base imponibile derivante dalla ripresa dell’occupazione industriale. Si noti che il risanamento finanziario contribuirebbe a rendere gli USA meno ricattabili dai loro partner commerciali, in quanto ne ridurrebbe la dipendenza dal collocamento dei propri titoli sul mercato internazionale, e quindi conferirebbe loro una maggiore libertà d’azione sul piano delle politiche daziarie.

Sì, un’amministrazione bene intenzionata potrebbe fare così. Peccato che… non possa. Liberare le famiglie dalla schiavitù dei prestiti universitari, delle polizze sanitarie e dei piani pensionistici significherebbe sfilare una grassa mangiatoia da sotto il grugno dei signori della finanza. Vi pare che questi lo permetterebbero? No. E consentirebbero al governo di sottoporli a un regime di premi e punizioni, volto alla pianificazione dei loro investimenti? O di privare l’industria degli armamenti del vorace inghiottitoio ucraino (o di altre occasioni che potrebbero sorgere in futuro, tra Europa e Asia, ai confini della Russia)? O di tassarli in proporzione alla loro ricchezza? No, no e no. Non lo consentirebbero, quindi non si può fare. La presa degli ultraricchi sulla classe politica statunitense è troppo forte perché questa possa prendere decisioni ad essi così sfavorevoli.

Da ciò si ricava una conclusione ben precisa. Se i cittadini americani davvero vogliono che gli USA tornino a essere un grande paese industriale, allora... devono fare la rivoluzione. Non è un’esagerazione: agli USA serve proprio il socialismo. Vanno espropriati i grandi capitali, ponendo la finanza (e a cascata tutte le principali aziende, che essa controlla) sotto il controllo diretto dello stato. Questo avrebbe così, finalmente, la possibilità di agire liberamente per il bene della nazione. O il socialismo, o nessuna seria politica di sviluppo è attuabile. “There is no alternative”, direbbe Margaret Thatcher. (Oddio, forse in questo caso specifico non lo direbbe.)

Naturalmente, quello dell’americano medio che una mattina si alza e va a fare la rivoluzione è uno scenario del tutto implausibile: gli esponenti delle classi lavoratrici statunitensi sono incavolati neri (inclusi i bianchi), ma sono troppo individualisti e troppo politicamente incolti per sfogarsi in altro modo che mettendosi a sparare a casaccio. Dunque, con tutta probabilità dovranno subire il trattamento da noi descritto: prima faranno le spese del risanamento della bilancia dei pagamenti, attraverso il rincaro dei prezzi generato dai dazi, e successivamente del risanamento delle finanze pubbliche, attraverso l’ulteriore aumento dei medesimi causato dalla perdita di valore del dollaro. C’è da chiedersi che vita si ritroveranno a fare, considerato che già oggi la loro condizione economica è in molti casi estremamente precaria. Ma forse non tutto il male verrà per nuocere. Forse, quando gran parte degli americani non potrà più permettersi un mutuo, un’assicurazione sanitaria, una polizza previdenziale, allora i signori della finanza si renderanno conto di avere agito come locuste, che hanno aggredito con tale voracità il campo su cui erano calate da desertificarlo; e allora andranno dai governanti per chiedere loro un altro New Deal.

O forse no. Forse, tutto ciò che faranno sarà dirottare all’estero i capitali sino a quel momento impiegati negli USA, cercando nuovi campi da spogliare. Una parte di mondo che potrebbe svolgere un simile ruolo sicuramente c’è. Riuscite a indovinare di quale si tratta? Indizio: è un continente i cui governanti sono decisi a intraprendere una corsa al riarmo e che pertanto, per finanziare un forte incremento delle spese militari, dovranno tagliare la presenza pubblica in campi quali la previdenza, la sanità e l’istruzione, imponendo così ai suoi abitanti di affidarsi a operatori privati per l’ottenimento di questi servizi.

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