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cumpanis

Les jeux sont faits

Habemus presidentem!

di Alessandro Testa

IMMAGINE PRIMO EDITORIALE Articolo di TestaI giochi sono fatti: il parlamento in seduta comune, rimpolpato dai “grandi elettori” espressi dalle regioni d’Italia, dopo mille schermaglie, moine, finte e controfinte, ha finalmente – seppur con estrema fatica – partorito il topolino del reincarico a Sergio Mattarella. Magno gaudio, tripudio universale per la scampata crisi, per la riconferma di una personalità di “alto profilo”, di un galantuomo “super partes”, a questa carica così importante per la tenuta delle istituzioni. Ma sarà proprio così?

Noi, dobbiamo dirlo con grande sincerità, non lo crediamo. Crediamo invece che queste elezioni abbiano spietatamente riconfermato alcuni elementi chiave di un trend politico ormai in atto da parecchio tempo, un trend politico che sempre più marca la perdita di sovranità della nazione italiana e del suo popolo, un trend politico che si presta a svariate e interessanti considerazioni.

Quali sono dunque le considerazioni che si possono cogliere osservando in filigrana questa convulsa settimana di votazioni e il suo sicuramente non inaspettato risultato finale?

Non certo, permetteteci di sottolinearlo, la facile e ridanciana “critica di costume” su cui molti media mainstream si sono buttati con voluttà: i tradimenti e le ripicche – quasi si trattasse di una telenovela di serie B e non di uno snodo istituzionale importantissimo per gli assetti presenti e futuri della repubblica – e ovviamente le trite ed ormai stantie polemiche sulla presunta “misoginia” della classe politica italiana che non pare in grado di eleggere una donna a posizioni di una qualche responsabilità – come se elevare al soglio quirinalizio una donna espressione del più bieco e sordido affarismo liberista fosse chissà quale conquista di civiltà e progresso sociale.

Certamente non ci vogliamo soffermare sulla tragicommedia, degna più di una commedia plautina che della composta serietà di un evento di altissima importanza istituzionale, rappresentata dall’irrituale autocandidatura del pregiudicato di Arcore, e neppure vogliamo commentare il disgustoso agitarsi di nani e ballerine intorno a questa surreale possibilità, conclusasi in farsa con la rinuncia di Berlusconi per ragioni – a suo dire, ovviamente – non di carenza di consenso ma di una non meglio precisata “responsabilità nazionale”.

E neppure vogliamo evocare il così insistentemente citato “fallimento della politica”, in primo luogo perché il fatto che la politica, intesa come luogo di analisi e discussione dei problemi e del futuro di una nazione e del suo popolo, risulta latitante in Italia ormai da decenni, ma soprattutto perché limitarsi a puntare il dito sulla classe politica, incolpandola di un “fallimento” non ben precisato, senza offrire una spiegazione più incisiva e profonda delle reali ragioni di questo supposto “fallimento”, ma limitandosi a parlare di poltrone e vitalizi, sarebbe estremamente vano e superficiale. Anche perché, lo vedremo in seguito, dal suo punto di vista la classe politica non ha assolutamente fallito, anzi ha portato a casa un grande successo nel complesso e machiavellico progetto che sta lentamente trasformando la natura stessa dei concetti fondamentali di politica e istituzioni.

Non è questo ciò che ci interessa analizzare. È all’essenza che vogliamo, che dobbiamo mirare, quell’essenza che giace quasi sempre sepolta sotto il velame mistificatorio di quelle semplificazioni sovrastrutturali, così apparentemente ragionevoli e giudiziose, che i media di regime ci propinano quotidianamente per mantenerci nell’ignoranza di ciò che conta, di ciò che è struttura e fondamenta del mondo in cui viviamo.

Vediamoli insieme, dunque, i punti essenziali che queste elezioni fanno impietosamente emergere.

Punto primo – Prosegue inarrestabile la costruzione del “partito unico del capitale”, di quella forza trasversale che, sotto l’inganno di una dialettica politica fatta di scontri tanto acrimoniosi e terribili quanto sostanzialmente falsi e puramente esornativi, si propone di sottomettere ogni pensiero, ogni politica, ogni modello sociale, diremmo quasi il mondo intero, all’imperio del pensiero unico liberal-liberista. Un pensiero unico che fa del libero mercato e dell’assoluta, quasi mistica, libertà di intraprendere – sempre se hai gli amici giusti e l’accesso al capitale, beninteso – i dogmi fondanti del suo esistere.

Ormai nessun partito presente in parlamento – se non con un paio di distinguo che vedremo in seguito – si permette di mettere in dubbio questi dogmi, e quei corollari che di questi dogmi sono la diretta conseguenza: fedeltà alla NATO ed all’atlantismo e cieca obbedienza all’Unione Europea e al feticcio della sua moneta unica, l’Euro.

Il ruolo che “Supermario” Draghi, uomo forte di Bruxelles e dell’oligarchia finanziaria ed economica, ha giocato in queste elezioni è esemplarmente illuminante: partito come potenziale candidato Presidente della Repubblica Italiana e protagonista putativo dell’eversivo progetto di “semipresidenzialismo de facto senza riforma costituzionale” accarezzato da alcuni mâitres à pensar dell’intellighenzia politico-mediatica italiana, è stato comunque strumentale alla soluzione dell’intricata sciarada quirinalizia; non dimentichiamoci che è stato lui il primo a recarsi da Mattarella per chiedergli – o imporgli? – di rinunciare al buen retiro e ad assumersi le “alte responsabilità” che il Paese gli chiedeva. Insomma, ci pare che i registi della simpatica commediola che ha rallegrato la scorsa settimana degli italiani siano stati, seppur dietro le quinte, il nostro ineffabile Draghi e i potentati da lui rappresentati.

Insomma, ci hanno lasciato giocare per un po’ all’elezione del PdR ma, forse davanti al pericolo che l’inetta e irresponsabile classe politica italiana mandasse a monte, per insipienza o per miope ingordigia, il piano così ben congegnato, ci è stata imposta – per bocca di Draghi ça va sans dire – l’obbedienza all’eterno detto gattopardesco “plus ça change plus c’est la même chose”, scegliendo la facile via del “massimo risultato col minimo sforzo”. Cosa sia in realtà successo nessuno lo sa, e forse nessuno lo saprà mai: forse ci sono stati problemi nel trovare un “degno sostituto” per Draghi alla presidenza del consiglio? Forse l’idea di un tandem Draghi-Belloni, con la figura di un secondo tecnico (per di più ben versato nell’ambiente dei servizi segreti) è stata reputata intempestiva? Forse si sono imposte valutazioni dell’ultima ora sui tempi e sui modi dell’esecuzione dell’eversivo piano di trasformazione “soft” dell’Italia in una repubblica presidenziale?

Non lo sappiamo, dicevamo. Quello che però sappiamo senza alcun dubbio è che quasi tutte le forze politiche si sono compattate ancor di più verso un centro magmatico e spersonalizzato, ove il PD e i suoi cespugli, Italia Viva, una Forza Italia ormai orfana putativa del Caimano e quella Lega Nord il cui segretario generale, ubriaco dagli schiaffoni ricevuti durante questa settimana di passione, ormai straparla di “Partito Repubblicano all’americana”, si allineano senza più ritegno al dogma liberista, atlantista ed europeista imposto dal grande capitale finanziario globale; anche i pochi elementi di differenziazione, finora branditi come disperato vessillo identitario, paiono vieppiù smussarsi e perdere di consistenza, annegando in un protoplasma indifferenziato che cede all’imperativo categorico dettato dal capitale: mercato, mercato ed ancora mercato – e la “giudiziosa” allocazione dei soldi del PNRR, beninteso.

Ci pare però di poter cogliere, in questo quadro così apparentemente omogeneo e senza smagliature, due interessanti elementi di contraddizione: la resistenza di Giorgia Meloni a piegarsi completamente al diktat del “partito unico”, cercando di mantenere un’identità ideologica e pragmatica del tutto autonome dal resto del centrodestra, e la crisi ormai palese e indifferibile che scuote il Movimento5Stelle che si sta ormai spezzando in due – se non più – frammenti che appaiono sostanzialmente inconciliabili: un’area “governista” e un’area che si vuole custode dei valori primigeni del movimento.

Punto secondo – Sgombriamo subito il campo da ogni possibile equivoco: noi crediamo fortemente che Fratelli d’Italia, come del resto tutti i partiti a tendenza autoritaria e criptofascista, non sia altro che una diversa declinazione degli strumenti politici di cui il capitalismo si serve per la gestione istituzionale del conflitto capitale/lavoro. Parrebbe quindi del tutto inutile e sterilmente accademico sottolineare questa contraddizione, ma alcune interessanti ipotesi si pongono prepotentemente all’attenzione.

La creazione di un’irriducibile “opposizione di destra”, nominalmente statalista e sovranista, potrebbe essere un tassello strategico volto ad occupare l’area del dissenso – no-vax, no-euro, no-immigrazione così via – “sterilizzandone” la forza conflittuale all’interno di una realtà politica destinata by design a non contare, quale ne sia il peso elettorale, perennemente isolata dal “cordone sanitario” delle forze “costituzionali” in una paradossale riproposizione della strategia dell’arco parlamentare che così efficacemente neutralizzò la destra del dopoguerra – salvo, ovviamente, chiedere ed ottenere il suo supporto nei momenti di crisi.

Così facendo si otterrebbero tre risultati:

– Fornire all’opinione pubblica una parvenza di pluralismo, ove una destra e una sinistra “di sistema” si alternano al potere mentre una destra estrema fa da “comprimario” tanto tonitruante ed aggressivo quanto sostanzialmente impotente – e ci viene da chiederci a chi sarà affidato, per elegante desiderio di simmetria, il ruolo di imbelle comprimario a sinistra.

– Canalizzare la rabbia e il malcontento di ampie fasce di popolazione all’interno di un contenitore che, concentrato su immigrazione, ordine pubblico, anticomunismo e nazionalismo sciovinista, si guardi bene però dall’affrontare concretamente i temi che scottano: conflitto capitale lavoro, uscita dalla NATO e dall’Europa, tragedia socio-economica in atto.

– Avere comunque pronta, alla bisogna, una forza politica cui affidare il manico del manganello nel caso in cui ce ne fosse bisogno.

Punto terzo – Per ciò che riguarda i pentastellati, l’analisi è più complessa e, forse, interessante. È evidente come queste elezioni abbiano portato al punto di rottura una crisi che nel movimento si trascina, tra alti e bassi, da troppo tempo, una crisi che non è figlia – come molti cinicamente affermano – esclusivamente dell’attaccamento alla poltrona e della paura, o meglio certezza, dell’inevitabile crollo del consenso a livello di militanza e consenso nel paese. A nostro parere, piuttosto, questa crisi dipende sostanzialmente de due fattori: in primis la mancanza di una solida base teorica che fornisse al movimento – nato sostanzialmente “contro” e non “per” – gli strumenti per analizzare la realtà e derivarne, in maniera metodologicamente rigorosa e conseguente, una proposta articolata e coerente che non si fermi a qualche slogan ribellista o liberal-ecologista; in secundis, il testardo e inopinato rifiuto di abbandonare gli spontaneismi movimentisti per dotarsi di una forma-partito capace di sussumere le esigenze e le idee della base in tesi e programmi condivisi.

Ed ecco quindi che il movimento, tenuto inizialmente insieme dall’idealistica utopia di “aprire il parlamento come una scatoletta di tonno” e di rifondare ab ovo un nuovo modo di fare politica – uno vale uno, democrazia diretta, internet eccetera – alla dura prova della realtà concreta esplode in una miriade di componenti, inizialmente perdendo piccoli pezzi – piccoli se considerati singolarmente ma già rilevanti se considerati nel loro insieme – e finalmente arrivando alla conflagrazione finale. La resa dei conti non è lontana, già Di Maio e Conte si osservano in cagnesco come duellanti da film western, mentre il “padre nobile” assiste sgomento e impotente alla fine di un sogno, limitandosi ad estemporanee quanto deliranti boutades da teatro dell’assurdo.

Concludendo, riteniamo però che questa fase della parabola evolutiva del M5S dovrebbe venire comunque osservata con attenzione e rispetto, in quanto probabilmente libererà forze ed energie – militanti e dirigenti spesso provenienti da esperienze “di sinistra” quando non decisamente comuniste – finora ingabbiati nel sogno utopico di Grillo e Casaleggio ed ora nuovamente alla ricerca di quel “centro di gravità permanente” che solo un partito teoricamente e ideologicamente forte e strutturato può fornire. Quindi, al posto di derisione e altezzosa supponenza, riteniamo sarebbero forse più appropriati un ascolto spassionato di questi pentastellati delusi e, nelle sedi appropriate, una cauta apertura che possa tessere le fila di un dialogo che, senza abdicare ai punti fermi del nostro essere comunisti, marxisti e leninisti, si apra ad un confronto concreto sulla situazione concreta.

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Comments

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AlsOb
Tuesday, 08 February 2022 19:56
Lo sfogo è a grandi linee condivisibile per il contenuto, ma vi è troppo volontarismo semplicistico e infantile per impostars una analisi concettuale di sinistra non emotiva.
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E Sem
Monday, 07 February 2022 12:23
Ma veramente pensavamo che esistesse una possibilità di scegliere democraticamente il curato della nostra miserevole parrocchietta di campagna? Volevamo forzare le regole sottoscritte tacitamente? Il teatrino, per quanto ignobile ha appagato le aspettative di buona parte del pubblico pagante: puo' bastare! Solo una cosa non riesco a capire: l' imbarazzante postura dei pensanti di sinistra, perche' continuiamo a parlare di uscita da ue e non del cambiamento radicale rivoluzionario dell' europa. Non ci siamo mai chiesti perché le rivoluzioni cinese e sovietica hanno potuto andare oltre ad una reazione spietata del mondo capitalista e feudale del tempo? Forse vogliamo solo dormire tranquilli, mai osare solo ridicoli obbiettivi e sognarci rivoluzionari.
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