Print Friendly, PDF & Email
lostraniero

La democrazia messa a nudo

di Carlo Donolo

1. Il populismo è la democrazia senza la costituzione. Senza diritti, regole, contrappesi e poteri divisi. Soggetti sociali, che accettano e apprezzano la propria minorità, delegano in bianco a “fare le cose” un decisore che “renda loro giustizia”. È una drastica semplificazione dei processi istituzionali e rappresentativi, una versione caricaturale della democrazia: domina il sorìte, il numero, la maggioranza. Non è la prima volta che succede, anzi nella storia della democrazia questa versione dimidiata e tendenzialmente autoritaria è ricorrente nelle fasi di crisi e di disorientamento. Ma dobbiamo accettare intanto un’implicazione di ciò che ha rivelato il risultato elettorale: la democrazia ha vinto con i numeri e tali numeri sono mossi in primo da un meccanismo di imitazione invidiosa (il rancore di cui parla A. Bonomi, senza peraltro spiegare quanto di illusorio, di autoinganno e di autoassolutorio esso contenga).

Quale popolo si esprime in questa maggioranza? Sebbene le componenti siano diverse, e non poche siano state le frustrazioni anche delle componenti moderate e progressiste indotte a scegliere la soluzione più semplicista  e più drastica, l’elemento dirimente è il manifestarsi del popolo qual è. Ovvero quale risulta essere dopo essere stato plasmato da successive ondate di modernizzazione: nella dimensione del benessere materiale e acquisitivo e nell’esposizione alla cultura di massa. Nella sua cultura c’è una componente trash molto marcata, come risulta dal linguaggio  che è stato sdoganato anche in politica, dalla rinuncia alle buone maniere, dalla preferenza per una volgarità ostentata, per lo stile da avanspettacolo o da convention. Il kitsch è l’elemento unificante tra rappresentati e rappresentanti. È  scomparso l’elemento borghese nella classe dirigente e ciò ha legittimato il plebeismo di tutti.

È il popolo quale è prima di processi di elaborazione riflessiva di preferenze e identità, senza mediatori culturali, nella sua immediatezza popolana. Ha una sua dignità, visto da lontano, per il fatto che esso finalmente può esprimersi direttamente, ritrovando una sintonia con il proprio io più profondo. La democrazia populista è diretta, non intermediata. Ciò rivela fino a che punto sia venuta meno – perfino a sinistra – il ruolo interpretativo dei dirigenti e dei quadri: il loro politichese non parla che un linguaggio ipocrita, non credibile e non creduto. Giustamente deriso dal popolo aristofanesco che agisce in proprio o in sintonia simbolica con carismi più o meno incredibili, maschere di una commedia all’italiana.

Questo popolo in presa diretta va preso molto sul serio, e sebbene sia ben possibile farne la critica, la caricatura e la decostruzione, resta un dato reale ineludibile. Come è stato prodotto, cosa vuole, quali gli impulsi di base, come è possibile reinterpretarlo nel quadro di una democrazia rinnovata? Capace di recuperare radici sociali e territoriali; che ridisegni la divisione dei poteri, che assuma la sussidiarietà responsabile come quadro costitutivo. Le risorse per un compito ricostruttivo di queste dimensioni forse sussistono disperse nei potenziali della società, ma al momento non sono agibili. È probabile che la politica “progressista e riformista” (sono purtroppo necessarie molte virgolette) preferisca seguire strade più semplici e consuete e intanto imitare l’avversario. La nostra è una società profondamente isomorfica dove alla fine, nel mare dei sargassi dei frammenti sociali, tutto si tiene.

2. Si dice che nella Prima repubblica le classi dirigenti, politiche, nei partiti di massa hanno educato o domato il gregge indocile, ignorante, anarcoide, qualunquista delle masse popolari di allora. Impedendo derive pericolose e trattenendolo sempre sul terreno della democrazia costituzionale. C’è del vero, e si tratta di una prestazione di gran conto e che spiega anche i risultati di modernità allora acquisiti. Tuttavia non erano masse sdoganate, ovvero effettivamente emancipate da tutele paternalistiche. Solo dopo il ’68 si è cominciato a intendere cosa potrebbe essere la cittadinanza democratica. Nella sindrome di una subalternità di fondo l’imprinting della Chiesa anche per la sinistra restava dominante. È subentrata però, come esito della crescita e dell’uscita da miserie storiche, l’età dei consumi e della comunicazione di massa. Ciò è avvenuto quando le masse così politicamente “inquadrate” non erano ancora entrate mentalmente nella società della conoscenza, dei saperi, delle competenze, della tecnologia diffusa. Un popolo di analfabeti funzionali, casereccio nelle inclinazioni, incline all’autocaricatura e a calarsi nello stereotipo, e molto ben disposto a credere a promesse fantastiche di felicità. Così ce lo presenta anche il cinema e in questo come sappiamo Pasolini ha individuato l’elemento patogeno, la corruzione di uno stato supposto antecedente di purezza. Mai esistito, ma certo le grandi masse contadine poi inurbate avevano una loro grazia, un senso del decoro e della misura, una voglia di emanciparsi da domini secolari, che fa pensare a quell’epoca come più semplice e più sensata di oggi. La crisi cognitiva del paese è iniziata con questo squilibrio strutturale tra dominio della cultura di massa e masse non acculturate a sufficienza.

Ma oggi appunto quelle masse sono urbanizzate, consumatrici, edoniste, e pur sempre – ma in una forma più coatta e barbara – familiste. Il vecchio familismo aveva una funzione sociale: preservava l’unità della famiglia in un universo di scarsità generale e cronica, e di rapporti di forza anche violenti. La “roba” era emancipatrice, come già vedeva Verga. Ma la cosa per la quale si attiva il nuovo familismo non è più bisogno di beni essenziali, ma invidia, deprivazione relativa, competizione imitativa. Una sindrome che si carica di invidia e quindi di confronto competitivo, che regala soddisfazioni e necessariamente frustrazioni (tanto più forse in quanto reali processi di mobilità verticale sono frenati, cfr. Schizzerotto).  La famiglia diventa azienda capitalistica nell’accumulo e nel consumo, ripete in sé i tratti essenziali dell’intera società che la riproduce all’infinito – da qui l’effetto sorìte – con la serialità delle monadi accumulatrici. La famiglia investe, si espone a rischi finanziari, specula, moltiplica i beni di lusso (quante auto per ogni famiglia, quante case prime e seconde), diventa benestante. Ma ciò avviene velocemente nell’arco di una generazione a partire da condizione generali di miseria, arretratezza culturale e mediocre scolarizzazione. La conseguenza è che gli spiriti animali crescono in proporzione alla carenza di agenzie di socializzazione e responsabilizzazione. Essi risultano perciò molto aggressivi, e una misura di tale aggressività irresponsabile si ha nell’ipertrofico consumo di territorio, di ambiente, nell’impulso ad appropriare privatamente tutto quanto è stato bene comune. Essi sono tarati non solo sull’impulso acquisitivo insieme rassicurante e produttivo di insicurezza, ma anche sulla percezione della labilità delle acquisizioni materiali. Si sente che sono instabili, le rassicurazioni non bastano mai: vedi il valore simbolico assunto dall’abolizione dell’Ici sulla prima casa. Non bastano mai: quanto più si entra nelle turbolenze della globalizzazione, quanto più aumentano le incertezze sul futuro. Lo stesso aumento delle disuguaglianze, implicito nel meccanismo competitivo scatenato, fa crescere l’invidia e la necessità dell’imitazione, le frustrazioni e la rabbia per ogni sentita deprivazione; così anche il rallentamento della crescita del Pil, che è effetto e concausa del meccanismo acquisitivo che si mangia i presupposti stessi della crescita, quanto più aumenta la competizione invidiosa tra simili (seguo qui le indicazioni antropologiche di René Girard e la loro interpretazione economica in Orléan, ma vale la pena di richiamare per il lettore interessato anche i lavori di Boltansky). All’aumento del benessere corrisponde l’aumento dell’incertezza, il benessere non basta mai. Ciò alimenta certo un’etica del lavoro che fa crescere il Pil, ma produce anche redistribuzione di opportunità e reddito fortemente diseguali, che poi finiscono per far cadere la domanda interna, si forma un buco nero nella galassia del benessere cercato a ogni costo. L’egoismo di massa si dà la zappa sui piedi.

3. Tutto questo operava già dentro la vecchia capsula delle organizzazioni di massa, partiti e sindacati, e solo in piccola parte veniva corretto dai sensi di colpa e di responsabilizzazione negli attivismi sparsi della società civile. Quando l’involucro è venuto meno sono rimaste alla luce del sole le nuove strutture antropologiche formate in alcune ondate di modernizzazione irriflessiva e veloce.

Il popolo che così si rivela è nudo, perché lo è anche il suo re. Rinuncia alla sovranità a favore di una protezione, di qualcosa di “octroyé”. Questo popolo nudo va preso sul serio, non lo si può semplicemente schernire,  far finta che esso sia solo preda di equivoci. Esso è autentico a modo suo, e ci rinvia nello specchio l’immagine di tutto  quello che non c’è stato. Le omissioni: carenza di beni pubblici, mancata cura di beni comuni; fiscalità giusta e non vessatoria; giustizia affidabile; promozione del merito e della capacità. In assenza gli impulsi invidiosi e competitivi prevalgono; si fanno giustizia da sé.

Si diceva una volta: istituzioni deboli, partiti forti; quindi i partiti supplivano. Venuta meno la supplenza, la formula è diventata: istituzioni e partiti deboli, quindi poca mediazione e interpretazione, poco e niente progetto (la fragilità del neoriformismo italiano ha qui la sua radice), quindi in verità, come risultato, pochi beni comuni e poco futuro. A questo per ora siamo. Occorre dire che la crescita (numerica e antropologica) del “nuovo” popolo è stata ampiamente accompagnata da fenomeni degenerativi della rappresentanza, così già dal craxismo che ha sdoganato molte delle cose a venire. E poi sempre più, specie nella Seconda repubblica i partiti hanno imparato un nuovo mestiere, di cui il clientelismo o il collateralismo o il sottogoverno precedente erano solo un modello primitivo: si sono specializzati nella rappresentanza di interessi organizzati, sono diventati tramiti di lobby e hanno costruito il mondo nuovo degli affari. Affari nei quali in Italia la componente di “rent seeking” è sempre stata fondamentale e destinata a crescere e a differenziarsi con il primato della finanza e con la patrimonializzazione delle famiglie. Alla rappresentanza generale, con divieto di mandato imperativo prevista dalla Costituzione, è succeduta la prassi di farsi portavoce di interessi sezionali e di mandanti per conto terzi, venuta meno l’ideologia, cultura di organizzazione, etica del militante e quant’altro, compresa la dottrina sociale cristiana.

Ma se la politica è politica degli interessi e anche di interessi che assumono la maschera dell’identità, allora essi possono essere fatti valere direttamente come risulta dalle infinite forme del farsi giustizia da sé: se tutti gli interessi sono legittimi (come è vero, ma solo dentro i legami di una democrazia costituzionale), allora uscendo con l’invidia mimetica da quel quadro, tutti gli interessi possono essere ugualmente fatti valere e in presa diretta. Più particolaristici sono, meglio è. Ma è stata  la politica che ha trasmesso il messaggio che il particolare prevale sul generale (quando si è dovuto comunque dar peso al generale si sono dovuti chiamare i tecnici al governo, come ancora nell’ultimo governo Prodi). Il triangolo istituzioni deboli, politica debole, interessi forti ha prodotto l’ulteriore indebolimento delle istituzioni; che ha raggiunto il culmine in episodi come la crisi campana o in questi giorni con la sentenza Tar sui parcheggi tariffati. Anzi, si tratta della crisi di ogni fonte di normatività (neppure la Chiesa è realmente “creduta” su tutto quanto concerne la vita empirica e quotidiana; del resto, essendosi politicizzata, cioè facendo i propri interessi come gli altri, non è credibile), con, di conseguenza, l’entropia del politico surclassato dall’antipolitica, il primato degli egoismi: individuali, di gruppo, categoriali, corporativi, localistici, “etnocentrici”; pur che siano egocentrismi mimetici, appropriativi e con il livore della frustrazione da invidia. La Lega ha solo interpretato al meglio questo passaggio. Gli altri la imitano.

Quindi al centro della scena abbiamo ora gli impulsi acquisitivi resi insicuri (non nella legittimità, ma nel successo), e l’enorme dissonanza cognitiva prodotta dalla mimesi invidiosa. Si deve soprattutto credere alle favole che ciascuno si racconta: il nord depredato dal sud, i lavoratori contro i fannulloni, il nord oppresso dalle tasse, che è giusto evadere come è giusto convivere con i poteri criminali, e soprattutto che è giusto chiudere gli occhi per non vedere i costi sociali impliciti nel modello. Tra i quali per memoria cito: il difficile accesso al lavoro per i giovani; la svalorizzazione delle competenze (vedi per una veloce dimostrazione Tinagli 2008); l’ipertrofia delle rendite; il patrimonialismo generalizzato ed egemone sul piano culturale; l’indistinzione tra pubblico e privato; il liberismo cialtrone succhiato come una caramella dagli ex-sinistri; le carenze di tutto quanto è pubblico, perché il tutto è un gioco a somma zero tra ricchezza privata e povertà pubbliche. Il risultato finale è una società senza un vero futuro, giudicata fossilizzata e vecchia in tutti i sensi anche dagli osservatori stranieri più benevoli. Mentre il modello sociale è già oggi insostenibile (e ci allontana rapidamente dal resto d’Europa; e forse anche questo è un esito auspicato).

4. Ma torniamo al popolo “nudo”. In questo suo stato non è certo portatore di virtù, visto che preferisce esaltare i propri vizi da bar sport celodurista, che poi sono i suoi limiti storicamente acquisiti. Ma indubbiamente ci sono anche tante virtù, per lo più mal utilizzate e mal dirette. Non di queste ora parliamo, perché è più difficile dovendo riprendere il filo di buone pratiche disperse e di virtù ufficialmente disprezzate. Vediamo qui le implicazioni più radicali del fatto di essersi reso nudo. Come tale apparentemente la democrazia ha vinto, perché ha vinto il numero. Ma la democrazia moderna – come ogni democrazia – prevede per la propria sopravvivenza ed efficacia divisioni dei poteri, garanzie, correggibilità apprendimento, continua intermediazione tra forze sociali per evitare esiti fatali e garantire una capacità di sviluppo. Il popolo nudo rinunzia alle regole, che sole possono conservare la sua sovranità. Così si esprime rozzamente su tutti i temi critici: sicurezza, immigrazione, libertà civili, dato che tutto è ricondotto alla sua nuda vita di farsi i fatti propri, meglio possibilmente a discapito degli altri per aumentare il proprio vantaggio competitivo.  

Eppure il popolo – qui si potrebbe dire “la gente” – non può essere preso com’è, come vuol essere, come crede di dover essere. Contrariamente a quanto sembrano suggerire tanti commentatori, che prendono per buona la sindrome dell’invidia competitiva e prendono i numeri per ragioni. Né la democrazia rappresentativa, né quella deliberativa possono accettare questo volto del popolo; lo devono trasformare: i motivi antipolitici vanno elaborati in modo da riportarli nel quadro costituzionale; i temi impolitici – che pure sono presenti in modo confuso – vanno elaborati tenendo ferma la distinzione tra elaborazione culturale e programmatica politica (i crescenti abusi nell’uso pubblico della storia sono un brutto indice dell’incapacità di distinguere i livelli). In nessun caso la politica democratica può subire passivamente né la forza dei numeri tal quale, né una sindrome così autodistruttiva e che da sintomo finisce anche per essere una concausa dei mali cronici e insostenibili del paese; negando ogni sviluppo futuro e proponendo la regressione come panacea.

Era però storicamente necessario che il popolo si mostrasse nudo, per rivelare fino in fondo le patologie della nostra democrazia politica, ora essa stessa messa a nudo. Il popolo nudo è l’emblema della crisi cognitiva di lunga durata del nostro paese, derivante certo dalla formula fatale iniziale “istituzioni deboli e partiti forti”: esaurita la sua spinta propulsiva – già arrivata al limite tra ’68 e mani pulite – essa ha generato mostri. La sinistra con il suo imperante politicismo ed economicismo giustamente non ci ha capito niente. Il tamponamento è avvenuto con il ricorso a modernismi di facciata tra veltronismo e berlusconismo, tra precarie chimere liblab e robuste transazioni sul terreno degli interessi capaci di farsi forti; senza una propria cultura delle regole (per contro il prodismo esprime ancora l’idea di un ruolo di un’élite tecnocratica quale classe dirigente generale che supplisce alla crisi della rappresentanza e deriva genealogicamente dai punti alti del riformismo all’italiana della Prima repubblica). Tali modernismi non sono in grado né di rispondere ai bisogni esistenziali del popolo nudo, né di produrre istituzioni per gestire una crisi di lunga durata; crisi cognitiva che avrebbe richiesto massicce dosi di Lisbona, ma di questo la classe dirigente, forse specialmente quella di sinistra (l’unica in astratto chiamata a governare la transizione) non ha la minima cognizione, frastornata dalla perdita d’identità e di radicamenti. Della società non sa e non vuole sapere, essendo ormai sradicata, e così ecco arrivata la dura lezione delle cose.

Se il popolo è nudo lo è perché lo sono anche i poteri e la politica. Sarebbe compito delle istituzioni offrigli l’opportunità di giochi più intelligenti, ma questo è diventato molto difficile da quando la classe politica, specialmente a livello nazionale, si è adattata a essere il riflesso passivo dell’esistente (altro che politiche attive, di cui si parla tanto senza nemmeno sapere cosa sono), rafforzandolo proprio nelle sue pieghe e impulsi più oscuri. Mai che nel discorso politico abbiano avuto qualche peso significativo e non retorico la sostenibilità ambientale, la coesione sociale e territoriale, le questioni ormai gravi di giustizia sociale, le grandi questioni nazionali che solo se affrontate possono in parallelo farci superare la crisi cognitiva dominante che insidia la democrazia. E la democrazia è apprendimento o decade a rituale irrilevante. Nuda non può restare. Solo il popolo, rivestendosi, la può salvare.

 

Autori e opere richiamati
A. Bonomi, “Il rancore”, Feltrinelli, Milano 2008.
R. Schizzerotto (a cura di), “Vite ineguali”, il Mulino, Bologna 2002.
R. Girard, “La violenza e il sacro”, Adelphi, Milano 1980 e gli altri suoi testi pubblicati da Adelphi.
A. Orléan (a cura di), “Analyse économique des conventions”, PUF, Paris 2004.
L. Boltansky, L. Thévenot, “De la justification”, Gallimard, Paris 1991 e “Le nouvel esprit du capitalisme”, Gallimard, Paris 1999.
I. Tinagli, “Talento da svendere”, Einaudi, Torino 2008.

Add comment

Submit