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le monde diplomatique

Dov'è la sinistra? Nel vortice della crisi

di Serge Halimi

Nel momento in cui il capitalismo attraversa la più grave delle sue crisi dopo quella degli anni '30, i principali partiti di sinistra rimangono muti e imbarazzati. Nel migliore dei casi promettono di rabberciare il sistema, ma più spesso cercano di dar prova di senso di responsabilità raccomandando a loro volta purghe liberiste. Quanto potrà durare questa blindatura del sistema politico, mentre la rabbia sociale continua a salire?

Gli americani che manifestano contro Wall Street protestano anche contro i suoi raccordi in seno al partito democratico e alla Casa bianca. E certo ignorano che i socialisti francesi continuano a invocare l’esempio di Barack Obama, sostenendo che contrariamente a Nicolas Sarkozy, il presidente Usa si sia dimostrato capace di agire contro le banche. Ma è davvero solo un abbaglio? Chi non vuole (o non può) puntare il dito contro i capisaldi dell’ordine liberista (finanziarizzazione, globalizzazione dei flussi di capitali e merci) cade facilmente nella tentazione di personalizzare la catastrofe, imputando la crisi del capitalismo agli errori di concezione o di gestione dell’avversario interno di turno. In Francia la colpa sarà di Sarkozy, in Italia di Berlusconi, in Germania della Merkel. D’accordo. Ma altrove? Nelle altre realtà – e non solo in quella degli Stati uniti –, anche i leader politici presentati a lungo come capofila della sinistra moderata si ritrovano a fronteggiare i cortei degli indignati. In Grecia George Papandreou, presidente dell’internazionale socialista, ha attuato una drastica politica d’austerità, che oltre alle privatizzazioni massicce e alla soppressione di posti nel pubblico impiego comporta la consegna della sovranità economica e sociale del suo paese a una «troika» ultraliberista (1). Come ci ricordano anche i governi di Spagna, Portogallo e Slovenia, il termine di «sinistra» è ormai talmente svalutato da non essere più associato a un contenuto politico particolare. Si dà il caso che uno dei maggiori responsabili del vicolo cieco in cui si trova la socialdemocrazia europea sia il portavoce… del partito socialista (Ps) francese. «In seno all’Unione europea – nota Benoît Hamon nel suo ultimo libro – il Partito socialista europeo (Pse) è storicamente associato, grazie al compromesso che lo lega alla democrazia cristiana, alla strategia di liberalizzazione del mercato interno e alle sue conseguenze sui diritti sociali e sui servizi pubblici.

Sono stati i governi socialisti a negoziare i piani d’austerità voluti dall’Unione europea e dal Fondo monetario internazionale (Fmi). In Spagna, in Portogallo e in Grecia la contestazione dei piani di austerità è ovviamente rivolta non solo contro l’Fmi e la Commissione europea, ma anche contro i governi socialisti nazionali. (...) Una parte della sinistra europea non contesta più le tesi della destra sulla necessità di sacrificare lo stato-provvidenza per ristabilire l’equilibrio di bilancio e lusingare i mercati. (...) In varie realtà del pianeta siamo stati un ostacolo al progresso. A questo non mi rassegno (2)». Per altri questa trasformazione è invece irreversibile, in quanto originata dall’imborghesimento dei socialisti europei, ormai lontani dal mondo operaio. In Brasile il Partito dei lavoratori (Pt), pure abbastanza moderato, ritiene che la sinistra latinoamericana debba prendere il posto di quella del Vecchio continente, divenuta troppo capitalista e atlantista per poter difendere legittimamente gli interessi popolari: «È in atto oggi uno spostamento geografico della direzione ideologica della sinistra nel mondo», sosteneva nel settembre scorso un documento preparatorio del congresso del Pt. «Il Sudamerica si distingue in questo contesto. (...) La sinistra dei paesi europei, che tanto ha influenzato, fin dal XIX secolo, la sinistra nel mondo, non ha saputo dare risposte adeguate alla crisi, e sembra capitolare di fronte al dominio del neoliberismo (3)». Forse il declino dell’Europa è anche il crepuscolo dell’influenza ideologica del continente che vide nascere il sindacalismo, il socialismo e il comunismo, e sembra oggi più disposto di altri a rassegnarsi alla loro scomparsa. Vuol dire allora che la partita è persa? Gli elettori e i militanti di sinistra tuttora più legati ai contenuti che a etichette fittizie possono sperare, anche nei paesi occidentali, di combattere la destra a fianco di compagni conquistati dal liberismo, ma tuttora egemoni sul piano elettorale? Di fatto, il balletto è ormai rituale: per la durata di una campagna elettorale, la sinistra riformista si distingue dai conservatori solo grazie a un effetto ottico. Dopo di che, non appena ne ha l’occasione, si mette d’impegno a governare come farebbero i suoi avversari, badando a non turbare l’ordine economico e a proteggere l’argenteria dei signori del castello. La trasformazione sociale, di cui la maggior parte dei candidati di sinistra alle prese con le responsabilità di governo, proclama la necessità, anzi l’urgenza, richiede evidentemente qualcosa di più della retorica elettorale. Ma anche l’accesso al potere. Ed è proprio su questo punto che la sinistra moderata impartisce lezioni ai «radicali» e agli altri «indignati», proclamando che non può starsene ad aspettare «le grand soir» (leggere alle pagg. 14-15 il dibattito tra Samuel Gompers e Morris Hillquit); e neppure sognare di sottrarsi alle impurità del mondo trincerandosi in una contro-società popolata di esseri eccezionali (leggere a pag. 16 l’articolo di Franck Poupeau). Per riprendere i termini usati cinque anni fa da François Hollande, non intende «bloccare, ma fare; vuole agire, non frenare; conquistare piuttosto che resistere». E pensa che «non battere la destra vuol dire mantenerla al potere, e quindi sceglierla (4)». Mentre a suo parere la sinistra radicale preferisce «cavalcare qualunque tipo di rabbia», pur di non fare «la scelta del realismo (5)». La sinistra di governo – ed è questo il suo principale asso nella manica – dispone «qui e ora» di truppe elettorali e di quadri impazienti, che le permetterebbero di assicurare l’alternanza. Ma l’impegno a «battere la destra» non può di per sé sostituire un programma o una prospettiva. Una volta vinte le elezioni, c’è il rischio che le strutture esistenti – nazionali, europee, internazionali – oppongano uno sbarramento alla volontà di cambiamento espressa durante la campagna elettorale. Di fatto, negli Stati uniti Barack Obama ha potuto sostenere che le lobby dell’industria e l’ostruzionismo parlamentare repubblicano abbiano minato il suo volontarismo e ottimismo («Yes, we can»), pure sostenuti da un’ampia maggioranza popolare. Altrove, i governi di sinistra si sono scusati della loro prudenza – o pusillanimità – accusando i «vincoli» e i problemi «ereditati» (assenza di competitività internazionale del settore produttivo, livello del debito ecc.) di aver ristretto i loro margini di manovra. «La nostra vita pubblica è dominata da una strana dicotomia – aveva detto, fin dal 1992, Lionel Jospin. Da un lato si imputa al potere [socialista] la disoccupazione, il malessere delle banlieue, le frustrazioni sociali, l’estremismo di destra, la mancanza di prospettive della sinistra. Dall’altro gli si comanda di rimanere nell’alveo di una politica economico-finanziaria che rende assai difficile affrontare questi problemi (6)». A vent’anni di distanza, la formulazione di questa contraddizione non ha neppure una ruga. I socialisti sostengono che, in generale, una sconfitta elettorale della sinistra scatena la messa in opera da parte della destra di una bordata di «riforme» liberiste – privatizzazioni, restrizioni dei diritti sindacali, amputazione dei proventi pubblici – che distruggeranno gli strumenti di un’eventuale politica di segno diverso. E quindi invitano al «voto utile» in loro favore. Ma una sconfitta socialista può anche portare vantaggi pedagogici. Come ammette Benoît Hamon, ad esempio in Germania «l’esito delle elezioni legislative [del settembre 2009], che ha valso all’Spd il suo peggior risultato [il 23% dei suffragi] da oltre un secolo, ha convinto la direzione del partito della necessità di cambiare orientamento (7)». I socialisti greci si congratulano con se stessi per aver agito più rapidamente di Margaret Thatcher… Un «riassestamento dottrinale», di portata altrettanto modesta, è intervenuto in Francia dopo la sconfitta dei socialisti alle legislative del 1993, e nel Regno unito in seguito alla vittoria del partito conservatore nel 2010. E senza alcun dubbio si potranno constatare tra non molto sviluppi identici in Spagna e in Grecia. In effetti, è difficile che i governanti socialisti di quei paesi possano imputare la loro sconfitta prossima ventura a una politica esageratamente rivoluzionaria… Per sostenere la causa di Papandreou, la deputata socialista Elena Panaritis si è persino azzardata a ricorrere a un paragone sconcertante: «Margaret Thatcher ha impiegato undici anni a realizzare la sue riforme, in un paese con problemi strutturali meno gravi [dei nostri]. Il nostro programma è stato varato in soli quattordici mesi (8)!» In sintesi, «Papandreou meglio della Thatcher!». Non si esce da questo intrico senza stabilire un elenco delle condizioni preliminari per richiamare all’ordine la globalizzazione finanziaria. Ma subito sorge un problema: tenuto conto dell’abbondanza e della sofisticazione dei dispositivi che da trent’anni hanno ordito l’incastro tra sviluppo economico degli stati e speculazione capitalista, d’ora in poi qualunque programma di riforme, anche relativamente morbido (meno ingiustizia fiscale, difesa del bilancio per la scuola, moderato incremento del potere d’acquisto dei salari ecc.) impone tutta una serie di rotture, non solo con l’attuale ordine europeo ma anche con le politiche finora fatte proprie dai socialisti (9). Ad esempio, in assenza di una rimessa in discussione dell’«indipendenza» della Bce (i trattati europei garantiscono alla sua politica monetarista l’esonero da ogni controllo democratico), di un ammorbidimento del patto di stabilità e di crescita (che nei periodi di crisi soffoca ogni strategia volontarista di lotta contro la disoccupazione), di una denuncia dell’alleanza tra liberisti e socialdemocratici al parlamento europeo (che ha indotto questi ultimi a sostenere la candidatura di Mario Draghi, già banchiere di Goldman Sachs, alla testa della Bce), per non parlare del libero scambio (la dottrina della Commissione europea) e di una procedura di verifica del debito pubblico (per non rimborsare gli speculatori che hanno scommesso contro i paesi più deboli dell’eurozona), in assenza di tutto questo la partita sarà male impostata fin dall’inizio, e quindi persa prima ancora di incominciare. In effetti, nulla fa credere che François Hollande in Francia, Sigmar Gabriel in Germania o Edward Milliband nel Regno unito riescano là dove già hanno fallito Barack Obama, José Luís Zapatero e George Papandreou. Immaginare «un’alleanza che faccia dell’unione politica dell’Europa il cuore del suo progetto» per assicurare, come spera Massimo D’Alema, «la rinascita del progressismo (10)» somiglia (nel migliore dei casi) a un sogno a occhi aperti. Allo stato attuale delle forze politiche e sociali, un’Europa federale non potrebbe far altro che bloccare ulteriormente i già asfissianti dispositivi liberisti, facendo un passo in più sulla via dell’esproprio della sovranità dei popoli, per affidare il potere a opache istanze tecnocratiche. Forse che la moneta e il commercio non sono fin d’ora «federalizzate»? Eppure, fintanto che la maggioranza dell’elettorato progressista continuerà a votare i partiti della sinistra moderata, sia che aderisca al loro progetto o che veda in essi l’unica prospettiva di un’alternanza in tempi ravvicinati, gli schieramenti politici più radicali (così come gli ecologisti) saranno condannati al ruolo di comprimari, forze ausiliarie o mosche cocchiere. Nel periodo 1981-1984 il partito comunista francese (Pcf), che pure aveva al suo attivo il 15% dei suffragi, quarantaquattro deputati, quattro ministri e un’organizzazione con centinaia di migliaia di aderenti, non ha mai avuto alcun peso nella definizione delle politiche economiche e finanziarie di François Mitterrand. E in Italia il naufragio del Partito di Rifondazione comunista, prigioniero della sua alleanza con i partiti del centro-sinistra, non costituisce certo un precedente esaltante. Si trattava allora, come si ricorderà, di evitare a ogni costo il ritorno al potere di Silvio Berlusconi; che si è verificato ugualmente, anche se un po’ più tardi. Il Fronte della sinistra (del quale fa parte il Pcf) vuole contrapporsi a prospettive del genere, e fa pressione sul Ps, sperando di sottrarlo ai «suoi atavismi»: una scommessa che a priori sembra illusoria, se non disperata. Eppure, se include fattori diversi dai rapporti di forze elettorali e i vincoli istituzionali, può rifarsi a vari precedenti storici. Ad esempio, alcune grandi conquiste sociali del Fronte popolare (ferie pagate, settimana di 40 ore ecc.) non facevano parte del programma (molto moderato) della coalizione vittoriosa nell’aprile-maggio 1936, ma sono stati imposti al padronato francese dal movimento degli scioperi di giugno. Non per questo però la storia di quel periodo si può ridurre all’irresistibile pressione di un movimento sociale sui partiti di una sinistra timida o spaventata. È stata la stessa vittoria elettorale del Fronte popolare a scatenare un movimento di rivolta sociale, liberando gli operai dalla percezione di scontrarsi col muro della repressione poliziesca e padronale. Ma per quanto rincuorati, essi sapevano bene di poter ottenere qualcosa dai partiti che avevano votato solo forzando loro la mano. Da qui la dialettica vincente – ma quanto rara! – tra voto e mobilitazione, tra le urne e le fabbriche. Senza una pressione del genere, un governo di sinistra non tarderebbe a blindarsi a porte chiuse con una tecnocrazia da tempo non più abituata a fare qualcosa di diverso dal liberismo; e con un’unica ossessione, quella di sedurre le agenzie di rating. Anche se tutti sanno che queste ultime «declasserebbero» seduta stante qualunque paese impegnato in una politica autenticamente di sinistra. Come una stella morta, la Repubblica centrista emana i suoi deboli raggi Allora, audacia o impantanamento? I rischi di una politica audace – isolamento, inflazione, declassamento – ce li sentiamo ripetere dall’alba al tramonto. D’accordo; ma quello di rimanere impantanati? Analizzando la situazione europea degli anni ’30, lo storico Carl Polanyi ricorda che in vari paesi «il vicolo cieco in cui si era cacciato il capitalismo liberista» aveva portato allora a «una riforma dell’economia di mercato realizzata al prezzo dell’annientamento di tutte le istituzioni democratiche (11)». Ma quale sovranità popolare possono ancora invocare le decisioni europee prese a rimorchio dei mercati? Anche un socialista moderato come Michel Rocard si allarma: ogni nuovo indurimento delle condizioni imposte ai greci rischia di provocare la sospensione della democrazia in quel paese. «Nello stato di esasperazione in cui si troverà quel popolo – scriveva Rocard il mese scorso – si può dubitare che un qualunque governo greco riesca a mantenersi in piedi senza l’appoggio dell’esercito. Questa triste riflessione vale senza dubbio per paesi quali il Portogallo e/o l’Irlanda, ma anche per altri più grandi. Fin dove si arriverà? (12)» Per quanto sostenuta da tutta la chincagliera istituzionale e mediatica, la repubblica centrista traballa. È in atto una gara di velocità tra l’indurimento dell’autoritarismo liberista e l’avvio di una rottura col capitalismo. Che tuttavia appare ancora lontana. Quando i popoli non credono più a una politica giocata con dadi truccati, quando si rendono conto che i governi hanno deposto la loro sovranità, quando si ostinano a pretendere che le banche vengano richiamate all'ordine, quando si mobilitano senza sapere dove li condurrà la loro rabbia, è segno che malgrado tutto la sinistra è ancora viva.

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note:

(1) Composta dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea (Bce) e dal Fondo monetario internazionale (Fmi).
(2) Benoît Hamon, Tourner la page. Reprenons la marche du progrès social, Flammarion, Parigi, 2011, p. 14-19.
(3) Agenzia France-presse, 4 settembre 2011.
(4) François Hollande, Devoirs de vérité, Stock, Parigi, 2006, pp. 91 e 206.
(5) Ibid, pp. 51 e 43.
(6) Lionel Jospin, «Reconstruire la gauche », Le Monde, 11 aprile 1992.
(7) Benoît Hamon, op. cit., p. 180.
(8) Citato da Alain Salles, «L’odyssée de Papandréou», Le Monde, 16 settembre 2011.
(9) Leggere «Il referendum per un’Europa diversa e solidale », Le Monde diplomatique/il manifesto, giugno 2005.
(10) Massimo D’Alema, «Le succès de la gauche au Danemark annonce un renouveau européen», Le Monde, 21 settembre 2011.
(11) Karl Polanyi, La Grande Transformation, Gallimard, Parigi, 1983, p. 305, trad. it. La grande trasformazione, Einaudi.
(12) Michel Rocard, «Un système bancaire à repenser », Le Monde, 4 ottobre 2011. (Traduzione di E. H.)

 
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