
La questione palestinese tra totem e tabù
di Alessandro Mantovani
L’attacco palestinese contro il territorio israeliano iniziato il 6 ottobre è stato paragonato alla vittoria dei nativi indiani al Little Big Horn nel 18761. In questa similitudine, le brigate Ezzedin Al-Kassam legate ad Hamas e le altre formazioni militari della resistenza palestinese coinvolte nelle incursioni rappresentano i gloriosi guerrieri di Toro Seduto e di Cavallo Pazzo; Netanyahu e i vertici dell’esercito e dell’intelligence della Stella di David la stupida e razzista sottovalutazione dell’avversario da parte del generale Custer; l’operazione “Tempesta Al-Aqsa" una splendida vittoria incapace però di mutare la realtà di una sconfitta storica. Vediamo.
Si tratta in ogni caso di un episodio destinato a rimanere scolpito negli annali, e come tutti i fatti di tale portata, il colpo scoccato (non solo da Hamas, ma sotto la sua egemonia) pone problemi teorici e politici complessi, che richiedono un’analisi scevra di pregiudizi, e non limitata al presente.
Prevalgono invece, non è cosa nuova, forti emozioni, reazioni contrapposte e ricadute in totem e tabù. Da noi, in Occidente, al vomitevole coro mainstream contro i “terroristi” palestinesi e di solidarietà con lo Stato razzista e colonialista israeliano (e chi obietta è tacciato al minimo di anti semitismo!) si contrappone, nel ben più ristretto ambiente della sinistra “radicale”, il ritornello di appoggio “incondizionato” alla resistenza palestinese; dal quale si dissocia, nell’ambito di una sinistra ancor più minoritaria (e che si pretende più rivoluzionaria) l’altra litania, quella dell’indifferenza, che sdegna la rivendicazione nazionale palestinese perché “le questioni nazionali sono questioni borghesi”, buone tutt’al più, se mai lo furono, nelle rivoluzioni democratiche del passato capitalismo nascente, impossibili e superate ormai nell’epoca dell’imperialismo.
I
Al tabù filo israeliano è inutile (e impossibile per la troppa nausea) contrapporre l’arma della critica. Ci penserà la critica delle armi se mai verrà il fausto giorno della proletaria rivoluzione.
Anche con coloro che negano che nel mondo imperialista di oggi non solo le questioni nazionali permangono, ma – come mille volte spiegò Lenin – si acutizzano, è difficile intavolare una discussione: che mai si potrà loro dire se non si fanno convincere dall’evidenza dei fatti: per limitarci a questo secolo, il XXI, il conflitto (anzi i conflitti) in Siria, in Libano, le guerre in Africa (tanto nera quanto musulmana), i contrasti nazionali nei Balcani, nel Caucaso, la questione curda, il Tibet, l’oppressione delle minoranze etniche in Iran, l’Afghanistan, ecc. Per loro son tutte guerre interimperialistiche per interposta persona. Tutto il loro armamentario teorico si riduce a
- 1) presupporre che il modo di produzione capitalistico abbia ormai preso piede in tutto il globo terracqueo, e questo è già un plateale errore giacché il modo di produzione propriamente capitalistico, non solo è rapporto capitale/lavoro salariato (e questo interessa ancora poco più della metà dei rapporti di lavoro nel mondo), ma – dice espressamente Marx - è questo rapporto quando esso ha superato la mera sottomissione formale del lavoro al capitale, per giungere alla sua sottomissione reale, ossia all’automazione del lavoro, e da questo punto di vista il 50 per cento dei lavoratori del mondo intero non l’ha ancora raggiunto;
- 2) dedurne (dal fatto che Gaia interamente capitalistica sarebbe) con logica puramente economicistica e meccanicamente deterministica che ciò chiude in ogni parte del mondo la necessità per il proletariato di appoggiare i movimenti non puramente proletari che lottano contro l’oppressione nazionale (visto che la loro esistenza non si può negare).
Ma questi sono solo argomenti decorativi: la vera origine di questa posizione, che nasce prima dell’epoca attuale imperialista, è l’indifferentismo che “autorizza”, diciamo così, solo la lotta operaista (ho detto “operaista”, et pour cause) nei paesi evoluti, e tutto il resto appartiene al maligno. Posizione che si ammanta di ultra sinistrismo ma che di fatto ben si sposa con lo sciovinismo e l’imperialismo, ammaestrando il proletariato dei paesi avanzati a pensare ai fatti suoi e a guardare dall’alto in basso i movimenti “spuri” dei paesi “colorati”.
Ebbene questo atteggiamento, che siamo stati costretti a riassumere, si concretizza, oggi, nel bacchettare sulle dita, con fare saputone, la ribellione delle masse diseredate della striscia di Gaza, che hanno il torto di non essere (e come potrebbero esserlo dove la disoccupazione investe il 64% della popolazione?2) puramente proletarie, e nel rimandare alla rivoluzione comunista delle calende greche il soddisfacimento dei diritti nazionali dei palestinesi.
Ma possono i proletari occidentali, e in primis quelli israeliani (se avessero coscienza di classe), non schierarsi per l’autodeterminazione dei palestinesi? Così facendo – e purtroppo al momento così fanno - essi si mettono dalla parte dello Stato sionista e dell’imperialismo. E i proletari palestinesi? Lasciamo un attimo in sospeso la risposta, ed esaminiamo prima, invece, l’atteggiamento di coloro i quali, ogni volta che si parla di palestinesi (o di curdi, ad es.), scattano subito sull’attenti e, perso il discernimento, intonano inni a prescindere di “incondizionato” appoggio all’ “eroica resistenza” del “popolo” palestinese.
Da una parte abbiamo quelli che hanno il tabù della “guerra nazionale”, di cui non vogliono sapere, e fingendo di prendere una posizione rivoluzionaria, anzi fingendo di prendere una posizione, levano ritornelli di solidarietà al proletariato (e non al popolo) palestinese, come se un movimento proletario autonomo in Palestina esistesse; il che significa solo nascondere le pudenda della propria acquiescenza all’imperialismo. Dall’altra quelli che fanno del palestinese in quanto tale un totem, senza distinzione di classe, di linea politica, di appartenenza religiosa, di strategia militare (insomma senza se e senza ma, come è di moda dire oggi), e solo sanno ripetere, come il più ottuso nazionalista palestinese, “viva la Palestina”, ostacolando con questa attitudine acritica ogni possibile presa di coscienza da parte del proletariato palestinese (che pure in mezzo alla massa dei diseredati della striscia di Gaza c’è, e come) della propria identità e della propria differenza dal nazionalismo borghese.
Ieri si osannava – chi non lo ricorda? - l’OLP e il suo braccio militare Al-Fath, saldamente in mano alla vecchia élite di notabili, realtà politiche corrotte e compradore, dimostratesi poi - malgrado la Kefiah che indossavano ovunque servisse - disposte a ogni compromesso, a firmare gli accordi capestro di Oslo (1993), i quali di fatto sancivano il tradimento della guerra di liberazione, la rinuncia alla distruzione dello stato sionista, l’accettazione del principio dei due stati (che mai ha avuto applicazione) in cambio del piatto di lenticchie di una “Autorità nazionale palestinese” che è solo una cricca di potere dipendente dall’imperialismo. E pronti, si capisce, a schiacciare nel sangue le proteste interne dei proletari e delle masse povere.
Grande fu l'imbarazzo dei sostenitori “incondizionati” della causa palestinese quando questo tradimento dell’OLP fece emergere, come forza egemonica della resistenza, un’organizzazione islamista, Hamas3, espressione di una media borghesia palestinese portatrice di un nazionalismo truce (nota la sua strategia di terrore verso i civili) e di un’ideologia patriarcale reazionaria. Sorta, ispirandosi ai “Fratelli musulmani”, nella prima intifada (1987), divenuta poi la principale organizzazione nazionalista palestinese sulla spinta della seconda intifada (2000), essa riprendeva la vecchia parola d’ordine della cancellazione dello Stato d’Israele, al posto del quale intendeva stabilire in tutta la storica Palestina uno stato islamico che non avrebbe riconosciuto i diritti della popolazione ebraica. Dopo aver vinto le elezioni del 2006 nei territori palestinesi, scontrandosi armi alla mano con Al-Fath, nel 2007 prese il controllo della Striscia, mentre la cosiddetta “Organizzazione nazionale palestinese” manteneva quello della Cisgiordania.
Il totem è un totem, e quell’appoggio che dette sinistre, per orrore dell’integralismo religioso, negarono (e fu un errore di indifferentismo) alla rivoluzione iraniana del 1979, o alla lotta di liberazione del popolo Afghano - non comprendendo come dentro l’involucro religioso, e connesso al patriarcalismo reazionario, si celasse un risveglio nazionalista islamico - mai fu negato invece ai palestinesi, tacendo sul fatto che islamista era il movimento egemonico della loro resistenza. Perché il totem si impone. E si badi, il problema non è l’appoggio al movimento nazionalista palestinese (che fu ed è un dovere internazionalista elementare), ma il tacere del suo carattere ottusamente nazionalistico e antiproletario (anche Hamas ha schiacciato a più riprese le proteste venute dal basso, come ad es. nel marzo 20194). E taccio dei diritti femminili.
È esattamente quanto vediamo verificarsi oggi, con eccessive lodi a una strategia che, com’è tipico del nazionalismo piccolo-borghese, ammette il terrorismo contro la popolazione civile. Attenzione: non abbiamo nulla contro l’uso della violenza. Non vi è rivoluzione senza terrore. Ma dato che la guerra è la continuazione della politica, una strategia di resistenza nazionale egemonizzata dal proletariato molto differirebbe dalla strategia di Hamas nell’uso del terrore. Il proletariato, che è internazionalista, e non predica l’odio nazionale, bensì la solidarietà e l’unione dei contingenti proletari delle diverse nazioni, non userebbe una violenza indiscriminata, bensì – fatti salvi gli inevitabili effetti collaterali – mirerebbe quanto meno a neutralizzare, se non a guadagnare, almeno una minima parte del proletariato israeliano, scegliendo prevalentemente obiettivi militari o politici, con un “occhio di riguardo” per le strutture dello Stato e la classe dominante.
Oh sì, lo sappiamo, il proletariato israeliano, disgraziatamente, è corrotto, economicamente, ideologicamente e politicamente, dallo Stato sionista, opposizioni comprese. E nessuno sconto andrebbe fatto a quei proletari ebrei che attivamente si oppongono al diritto palestinese all’autodeterminazione. Malgrado questo non bisognerebbe lasciar nulla d’intentato per non gettare la classe lavoratrice giudea ancor più tra le braccia del sionismo. Ben diversa la politica di Hamas. E ben diverso sarebbe un movimento palestinese a egemonia proletaria anche nei confronti delle donne. O no?
II
Chi vuol a tutti i costi giustificare il tipo di azione scelto dall’organizzazione che guida oggi la resistenza palestinese a Gaza fa appello alla disperazione di una gioventù (oltre metà della popolazione di Gaza ha meno di 18 anni, il 40% meno di 14) traumatizzata e senza futuro. Ma un’operazione come “Tempesta Al-Aqsa" non è frutto di disperazione, bensì di accurata preparazione. E di calcolo politico.
A un primo sguardo, l’impresa appare azzardata, se non suicida. La vittoria militare contro Israele è impossibile. È ben vero che almeno da cinquant’anni a questa parte non si è mai vista da parte palestinese una capacità offensiva di questa portata, ma la risposta che - mentre scriviamo – è già iniziata da parte israeliana, sarà devastante, comporterà morte e distruzione inenarrabili tra i civili, cui si aggiungeranno le sofferenze dei profughi costretti a fuggire. Hamas non può non averlo messo in conto.
Cosa dunque ha spinto i dirigenti della Resistenza a esporre la popolazione civile a un sicuro martirio? Si è parlato, non a torto, della volontà di bloccare il processo in corso di normalizzazione dei rapporti fra Israele ed le capitali arabe, Riyad in primo luogo; normalizzazione che comporterebbe l’isolamento definitivo dei palestinesi e accelererebbe l’agonia dei territori palestinesi e di Gaza soprattutto, la quale dal 2007 sta subendo un embargo micidiale che ne ha strozzato l’economia. Ma perché fornire a Tel Aviv il pretesto di un intervento su vasta scala, perché favorire in Israele l’union sacrée di governo e opposizione in un momento in cui il governo di Netanyahu era in crisi per la sua lotta contro la magistratura, e nelle stesse fila dei soldati serpeggiava sempre più l’opposizione contro il costante olocausto dei civili palestinesi loro imposto?
Per comprenderlo occorre riavvolgere un po’ il nastro degli ultimi accadimenti.
A maggio vi erano stati scontri tra israeliani e “jihâd islamica”, secondo gruppo di Gaza, e un mese prima dell'attacco di Hamas le azioni dei giovani palestinesi contro i soldati della Stella di David si stavano spontaneamente moltiplicando. Non da parte di membri di Hamas, ma di giovani raccolti sotto la sigla “Shabab al-Tha'er” (“Gioventù rivoluzionaria”). Attivisti palestinesi emergenti, tra cui figure di spicco che guidarono nel 2018 la “Grande Marcia del Ritorno”5. Per tutto il mese di settembre, a centinaia avevano marciato ogni giorno verso il muro di separazione israeliano in una potente dimostrazione di indignazione e frustrazione all’interno dell’enclave assediata. Le battagliere manifestazioni – svoltesi in gran parte a mani nude – furono brutalmente accolte dall’esercito israeliano con armi da fuoco, gas lacrimogeni e micidiali attacchi aerei. Molte sono state, ancora una volta, le vittime di parte palestinese. Il 19 settembre Israele chiudeva il valico di Beit Hanoun, di fatto impedendo a più di 18.500 lavoratori di Gaza di recarsi al lavoro oltre il confine.
I manifestanti rivendicavano la fine delle restrizioni israeliane sulla circolazione di merci e persone attraverso i valichi di frontiera, la liberazione dei detenuti palestinesi in Israele, la fine della profanazione della Moschea di Aqsa a Gerusalemme6. Denunciavano inoltre gli accordi di Oslo, di cui si celebra il trentennale.
Le proteste a Gaza si inseriscono nel contesto di un’intensificazione degli attacchi israeliani anche verso i gruppi armati palestinesi che operano nelle principali aree della Cisgiordania come Jenin e Nablus, inclusa l’invasione su larga scala del campo di Jenin all’inizio di luglio.
Questo ci dice che - benché la dirigenza di Hamas rivendichi di essersi preparata per due anni all’attacco - il timore di perdere il controllo del sostegno popolare non è estraneo alla scelta del momento attuale per sferrarlo. Sicuramente le brigate combattenti non si illudevano di poter vincere: la loro unica carta risiede - di fronte all’inevitabile reazione israeliana - nel provocare la sollevazione dei palestinesi della Cisgiordania e la solidarietà delle masse arabe, onde costringere i governi arabi a fare marcia indietro rispetto alla normalizzazione con lo Stato sionista. Ed è questo probabilmente il calcolo politico che sta dietro quanto è accaduto.
Per la sua natura di classe però, Hamas non può spingersi sino in fondo nel fomentare il malcontento delle masse arabe verso i propri governi. Dal 2004 l’organizzazione oggi dominante nella Striscia di Gaza ha dichiarato la sua disponibilità a rinunciare alla prospettiva della distruzione dello Stato d’Israele e ad accettare de facto l’esistenza di due Stati. Ciò che allora e negli anni seguenti fu dichiarato come tattica temporanea che rimandava, ma non cancellava, l’obiettivo di ristabilire lo statu quo ante la creazione artificiale di Israele, è divenuto dal 2017 rinuncia ufficiale inserita nello Statuto dell’organizzazione7. Con queste premesse, non possiamo attenderci che l’attuale dirigenza di Gaza vada oltre le mezze misure. L’apporto delle masse di Cisgiordania, Giordania e arabe, è tanto desiderato e necessario, quanto temuto se giungesse a oltrepassare certi limiti.
La soluzione dei due Stati in ogni caso è destinata – come già in passato - a fallire. Innanzitutto – la storia lo ha dimostrato - non c’è governo israeliano in grado di adottare questa politica poiché lo Stato sionista nasce colonialista, Stato “senza confini”8, e tale non può non rimanere. L’espansione territoriale non è per esso un’opzione bensì, tanto per motivi economici quanto militari, una necessità esistenziale9. In secondo luogo uno Stato palestinese limitato a Gaza e Cisgiordania (come noto separate tra loro dal territorio occupato da Israele) sarebbe uno Stato fantasma, la copia riverniciata della medesima situazione di oggi.
L’unica soluzione possibile potrebbe essere uno Stato laico, pluralista e multi confessionale, esteso a tutta la Palestina storica, in cui palestinesi e israeliani (e le altre minoranze), schiacciato il sionismo, godessero di pari diritti. Non è possibile aspettarsi che Hamas lotti per questa prospettiva, che potrebbe essere perseguita solo da una rivoluzione democratica radicale, di fronte alla quale inevitabilmente il movimento islamista si presenterebbe come avversario.
Quale forza potrebbe condurla a termine? Dopo il vecchio notabilato dell’OLP anche la borghesia rappresentata da Hamas, pur non avendo abdicato alla lotta armata, ha iniziato la parabola della rinuncia agli obiettivi originari. D’altra parte per aver ragione dello Stato sionista le forze del solo popolo palestinese non sono sufficienti. È necessario l’intervento delle masse arabe, e a quel punto la lotta non sarebbe più solo contro Israele, bensì anche contro tutto l’assetto del mondo arabo. Un così ampio sconvolgimento finirebbe per superare ben presto gli obiettivi democratici, anti colonialisti e anti imperialisti, puntando a una redenzione sociale ben più radicale. La direzione di una simile rivoluzione, non certo confinata alla Palestina, solo nell’energia e nel radicalismo del giovane proletariato arabo potrebbe trovare una direzione adeguata. Una prospettiva possibile e ben diversa da quella dei nativi americani dopo il Little Big Horn.
Parliamo ovviamente di un futuro non alle porte. Oggi bisogna schierarsi, e ci si può schierare solo dalla parte del popolo oppresso contro l’oppressore, ma se vogliamo favorire - all’interno delle masse palestinesi e arabe - una sempre maggiore indipendenza e autonomia del proletariato, non possiamo rinunciare, neanche ora, alla critica del nazionalismo piccolo piccolo borghese, laico o islamico che sia.






































Israele somiglia sempre piu a una base armata degli Usa a presidio dell'area geografica, anzi, e' una base degli Stati Uniti, la piu forte dell'area ...
senza il sostegno Usa (e dell'occidente collettivo) destinata a una tragica sconfitta in una guerra con i vicini ... che non sono solo palestinesi.
Purtroppo una soluzione ragionevole al momento in Israele non e' supportata da abbastanza persone.
Gli sponsor di Israele appoggiano governi spietati perche' fa comodo avere un esercito pronto a qualsiasi evenienza e azione ..... a cui peraltro IDF si presta volentieri, vedi incursioni in Siria e dovunque coltivano interessi loro e del loro Padrone
Le conclusioni di S.Romano sono inquietanti
Oggi i cristiano-sionisti sono particolarmente forti negli Stati Uniti dove molti evangelici (complessivamente circa 70 milioni) credono nella seconda venuta del Cristo, annunciata da Giovanni nell’Apocalisse, e sono convinti che avverrà soltanto quando gli ebrei avranno ripreso possesso della Terra promessa. Gli evangelici credono altresì che gli ebrei dovranno allora convertirsi al cristianesimo o soffrire eternamente le pene dell’inferno. Ma negli amichevoli incontri fra i cristiano-sionisti e la lobby filo-israeliana degli Stati Uniti questo particolare viene generalmente omesso.
https://www.corriere.it/lettere-al-corriere/13_Aprile_16/SIONISTI-CRISTIANI-E-ISRAELE-LE-RAGIONI-DI-UNA-AMICIZIA_22a83ac6-a659-11e2-bce2-5ecd696f115c.shtml