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Arcobalenite
di Nico Maccentelli
Riguardo la dichiarazione di intenti che nella cordata Manifesta-De Magistris riunisce tutto il gotha della sinistra cd di classe, non posso non fare alcune osservazioni. Chi mi conosce sa che io provengo dall’area che ha in Potere al Popolo! l’ultima significativa espressione politica di un percorso iniziato anni fa e poi confluito in PaP insieme alla compenente napoletana che aveva dato vita dal CS Je so’ pazzo, a questa organizzazione. Se ben mi ricordo, prima con ROSS@, poi con Eurostop, l’elemento strategico della politica antagonista messa in campo era la rottura con l’UE e l’uscita dalla NATO, nell’ipotesi di costruire un’area Euromediterranea, la cd ALBA Euromediterranea.
Or bene, già nella dialettica interna alla nuova formazione la rottura con l’UE si era stemperata in una più blanda rottura con le politiche neoliberiste della medesima, a dire che tutto sommato poi questa architettura oligarchica ed élitaria si potesse riformare: un vecchio tormentone rifondarolo che ha condotto di sconfitta in sconfitta quegli spezzoni che si mettevano insieme elettoralmente sin dai tempi della lista Arcobaleno. L’ultimo scazzo è stato sul rapporto con la CGIL. Ma ritengo questo aspetto del tutto secondario e una conseguenza di scelte politiche fallimentari già a monte.
A monte poiché l’aver completamente ignorato le vaste lotte sociali contro le restrizioni pandemiche degli ultimi due anni e passa, costituisce un vulnus insormontabile. Diventa insormontabile l’autoreferenzialità di una politica circoscritta alle proprie aree di riferimento, mentre i “sovranisti”, persino componenti politiche già esistenti o createsi nel corso della lotta e derubricate dai nostri a “terrapiattisti”, “novax”, “fascisti” e chi più ne ha più ne metta, si muovevano come pesci nell’acqua in un vasto movimento di massa che raccoglieva ampi settori popolari a partire dal precariato che sia delle libere professioni o del lavoro subordinato.
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Note sulla questione comunista in Italia
di Fausto Sorini
Credo che abbia fatto bene Marco Pondrelli, direttore del nostro sito, ad aprire con un editoriale il dibattito sulla questione comunista, con una particolare attenzione all’Italia. Perchè se è vero – come scrive – che “oggi nell’Unione europea la forza dei comunisti è marginale, … se guardiamo al caso italiano la situazione è ancora peggiore, desolante” e “di scissione in scissione oramai gli iscritti ed i militanti dei tanti partiti sono sempre meno e i gruppi dirigenti sono sempre più litigiosi e lontani dal mondo del lavoro”, privi di autentico radicamento nella società e nei luoghi del conflitto sociale.
Sappiamo bene che le ragioni più profonde di questa situazione, nel Paese che pure fu patria del partito di Gramsci, di Togliatti, di Longo, di Secchia, vengono da lontano e rimandano ai processi degenerativi insiti nella “mutazione genetica” del PCI, nella sua dissoluzione, nella incapacità dei gruppi dirigenti sorti dopo la fine del PCI di ricostruire una forza comunista anche piccola nelle sue dimensioni, ma solida ed espansiva, relativamente omogenea sul piano ideologico, della collocazione internazionale, della concezione dell’organizzazione, espressione dei settori di avanguardia del mondo del lavoro, dei giovani, degli intellettuali (cioè leninista non solo a parole).
A oltre 30 anni dalla fine del PCI – essendo pure stati alcuni di noi protagonisti di esperienze che risalgono già agli anni ’70 del secolo scorso (Interstampa nel PCI, l’Ernesto in Rifondazione, MarxXXI prima serie nel PdCI) – possiamo dire responsabilmente che tutti questi tentativi sono falliti o sono stati sconfitti: sia per limiti soggettivi interni a loro stessi, sia per una inferiorità troppo grande nei rapporti di forza con chi è sceso in campo per osteggiarli, dall’interno e dall’esterno.
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La requisitoria di Sahra Wagenknecht e i suoi limiti
di Carlo Formenti
Il titolo del libro di Sahra Wagenknecht - dirigente storica della Linke, partito di cui è stata vicepresidente dal 2010 al 2014 – rischia di suscitare aspettative eccessive: Contro la sinistra neoliberale (Fazi editore) evoca infatti una svolta radicale, una presa di congedo netta e senza tentennamenti da ciò che le sinistre – non solo la tedesca, bensì tutte le sinistre occidentali – oggi rappresentano. Ci si aspetterebbe, insomma, di leggere una condanna senza appello, del tenore di quella contenuta nella lettera aperta di Hans Modrow alla Linke che abbiamo rilanciato su questa pagina https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2022/02/lettera-di-hans-modrow-alla-linke-hans.html
Viceversa il punto di vista della Wagenknecht è più sfumato e contraddittorio. Non che manchino accenti durissimi nei confronti di quella che l’autrice definisce “sinistra alla moda”: come vedremo fra poco, la sua requisitoria è lunga, dettagliata e argomentata, così come è corretta la sua analisi delle radici di classe del fenomeno politico in oggetto. A lasciare perplessi è però il tentativo di tracciare un confine fra neoliberalismo “di sinistra” e liberalismo tour court; un approccio che legittima l’idea secondo cui il liberalismo di sinistra tradizionale, o liberal socialismo, non è il grembo che ha partorito l’attuale sinistra neoliberale, bensì qualcosa di completamente diverso, un patrimonio di idee e valori da cui si potrebbe trarre il materiale per rifondare una “vera” sinistra. Ma procediamo con ordine.
Il bersaglio della Wagenknecht sono coloro che non pongono più al centro della propria attenzione i problemi sociali e politico-economici bensì le tematiche relative allo stile di vita, alle abitudini di consumo e ai giudizi morali sui comportamenti.
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Dugin o non Dugin
di Michele Castaldo
Scrivo queste note prendendo spunto dalle polemiche di alcuni interventi su sinistrainrete.info circa l’utilità di leggere o meno Dugin. Dico subito che molte domande ed altrettante risposte sono mal poste. Chi mi conosce sa che non vado per il sottile e sono solito affrontare le cose di petto, come dovrebbe fare chiunque ama richiamarsi alle ragioni del comunismo.
Anche un uomo di destra può dire cose interessanti? Posta in astratto la domanda chiunque può dire delle cose interessanti, anzi Pirandello dice che per conoscere certe verità di un villaggio bisogna ascoltare il personaggio ritenuto « lo scemo del villaggio », ma Dugin non è « lo scemo del villaggio » e se si apre un dibattito sulle sue tesi vuol dire che le questioni che stanno a monte sono molto più complicate di come le vogliamo rappresentare. Non meniamo il can per l’aia e veniamo perciò alla questione teorica a monte. Prometto di non fare sconti e parto con un esempio.
Molti compagni della mia generazione (i canuti nei paraggi degli ottanta ormai) hanno letto La città del sole di Tommaso Campanella, il filosofo calabrese vissuto tra il ‘500 e il ‘600. Un filosofo apprezzato e stimato. Bene. Ne La città del sole quando parla della procreazione – cito a memoria – indica un criterio di selezione della specie umana, ovvero che i figli devono essere generati da coppie sane preventivamente accertate. Un criterio molto prossimo a Campanella lo esprimeva Hitler, o i filosofi di regime del nazionalsocialismo tedesco. Il nazionalismo tedesco è stato eletto a « male assoluto », mentre Tommaso Campanella continua a essere stimato nella sinistra come un grande filosofo idealista.
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Unità contro la guerra imperialista e contro la Nato
di Coordinamento Nazionale Comunista contro la guerra e contro l'imperialismo
In controtendenza alla continua divisione del movimento comunista italiano si è costituito, sulla base del Documento politico che presentiamo, il "Coordinamento Nazionale Comunista contro la guerra e contro l'imperialismo"
La spinta imperialista alla guerra segna totalmente di sé questa fase storica. Da questa spinta assume verosimiglianza anche la tragica possibilità di una terza guerra mondiale, che addirittura potrebbe essere già iniziata, anche se non si combatte su tutti i fronti.
Tre fattori, tra gli altri, concorrono a determinare quel “combinato disposto” che si offre come base materiale all’estensione, sul piano planetario, del “sistema” di guerra imperialista:
– Primo, dopo l’89 e il crollo dell’Unione Sovietica e del blocco dei Paesi del socialismo reale la storia non è finita, come al contrario aveva teorizzato il politologo statunitense Francis Fukuyama. Si è rivelata totalmente illusoria e priva di basi storiche concrete l’idea secondo cui il processo di evoluzione sociale, economica e politica dell’umanità avrebbe raggiunto il suo apice alla fine del XX secolo, snodo epocale a partire dal quale si sarebbe aperta una fase finale di conclusione della storia in quanto tale.
Fin dagli inizi degli anni ’90 del XX secolo, i fatti si sono incaricati di smentire clamorosamente quella, idealistica, teoria.
In America Latina una potente pulsione assolutamente contraria, avversa alla prepotenza imperialista inizia a segnare di sé l’intero continente: non solo Cuba resiste e rilancia il proprio progetto socialista rivoluzionario, ma in molti Paesi prende forma, a partire dal Brasile di Lula e dall’avanzato progetto socialista della Bolivia, un progetto di liberazione dal dominio nordamericano che giunge sino alla proclamazione di un inizio di percorso volto al socialismo, come nel Venezuela di Hugo Chávez.
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Ventinove tesi
di Michele Castaldo
Da La crisi di una teoria rivoluzionaria
A dicembre del 2018 pubblicai La crisi di una teoria rivoluzionaria, un libretto breve e conciso, dove cercavo di spiegare le ragioni della crisi di una teoria che si richiama al marxismo. In appendice declinavo 29 tesi che qui pubblico nel tentativo di smuovere un dibattito ormai impantanato in schemi e ideologismi nel quale si dimenano gran parte dei militanti di sinistra, anche i migliori, cioè i più onesti, quelli che non rincorrono arrivismi nel sottobosco del potere politico, oppure quelli dediti a carrierismi e leaderismi in sette chiesastiche. Non mi nascondo: è un sasso nello stagno. La fase è complicata e una riflessione si impone.
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Il moto-modo di produzione capitalistico è un insieme di rapporti degli uomini con i mezzi di produzione e di leggi oggettive che hanno come epicentro il mercato e la concorrenza a cui gli uomini sono incapaci di sottrarsi.
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Il soggetto è il movimento storico divenuto modo di produzione capitalistico, con classi e interessi fra le classi che sono complementari e contrastanti al contempo.
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Questo movimento generale cui gli uomini sono arrivati dopo secoli di sviluppo è la conseguenza di rapporti di produzione precedenti superati da nuove forze produttive.
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Detto movimento sta entrando in una crisi generale non per l’opposizione di una classe al suo interno, ma perché ha saturato il processo di produzione e riproduzione semplice e allargato, con una sovrapproduzione sia di merci che di mezzi di produzione privi di sbocchi.
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In virtù di tale meccanismo il moto-modo di produzione capitalistico è destinato ad avviarsi verso il caos generale senza alcuna possibilità di correggere le leggi che lo regolano.
 
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La mia militanza
Massimo Cappitti intervista Sergio Fontegher Bologna
Sergio Fontegher Bologna*: Io non ho imparato a leggere e scrivere a scuola perché c’era la guerra. Non so se fu per una scelta dei miei genitori o perché la scuola che avrei dovuto frequentare era stata trasformata in caserma. Ho fatto i primi tre anni delle elementari da privatista, con un’insegnante che era nostra vicina di casa, abitava sul nostro stesso pianerottolo. Il marito era un vecchio colonnello di artiglieria e lei un’ex maestra di scuola, per questo la chiamavamo “la colonnella”. Ho imparato a leggere e scrivere a casa di questa signora, in cucina, mentre lei preparava la jota o il gulasch. Alla fine di ogni anno mi presentavano a fare l’esame da privatista e ho cominciato ad andare a scuola in quarta elementare, quando la guerra è finita. Ho trovato nel diario di mia madre, ad esempio, che l’esame d’ammissione alla terza l’ho fatto dieci giorni dopo che c’era stato il peggiore bombardamento che ha avuto Trieste, in cui il nostro quartiere, l’epicentro, ha avuto 463 morti, quasi 1.000 feriti e 5.000 senzatetto.
Un’altra cosa da dire è che nella nostra casa non c’erano libri. Io non avevo una biblioteca perché i miei genitori avevano avuto un’infanzia e un’adolescenza durissime, mia madre aveva fatto la terza media, mio padre era riuscito a diplomarsi e a diventare un tecnico progettista. Ha tentato di fare l’università per corrispondenza senza riuscirci.
So ancora a memoria quali erano i titoli dei libri che avevo a casa, tipica letteratura popolare: Victor Hugo, Jack London, La vita delle api di Maeterlinck, La cena delle beffe di Sem Benelli, che non so cosa c’entrasse… però i miei genitori erano delle persone molto sensibili e aperte alla cultura.
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Massimo Cappitti: Quali sono stati i tuoi maestri e quali le letture che più ti hanno formato?
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Antagonisti… filoimperialisti
di Nico Maccentelli
È di queste settimane l’attacco politico “da sinistra” a quelle compagne e compagni che da anni sostengono l’autodeterminazione della popolazione russofona del Donbass e dell’Ucraina in generale e che denunciano l’operazione che l’imperialismo USA-NATO sta conducendo contro la Russia e sulla pelle dell’Ucraina.
All’accusa di “putinismo” che i media di regime portano avanti nella loro propaganda contro chiunque osi tematizzare il conflitto in Ucraina e rompere la coltre di luoghi comuni eterodiretti che girano attorno al concetto “aggressore-aggredito”, si aggiunge così quella di “rossobrunismo” sia verso i sovranisti di sinistra, sia verso quelle forze comuniste “nostalgiche” e “vetero soviettiste”, che non fanno di tutta un’erba un fascio, pardon un nazi, ma analizzano le cause e gli sviluppi di questa guerra, individuando le vere responsabilità in campo. Un j’accuse che va da La Repubblica e arriva agli anarchici “duri e puri”, passando per i “disobba” e per vari nodi e tribù di un certo antagonismo che ragiona per principi.
Ma andiamo con ordine. La polemica è saltata fuori nella sua virulenza, guarda caso, in concomitanza con due fatti: l’avvio di un’attività di delinquenza politica da parte degli ucronazi in Italia e la necessità di sostenere la politica delle armi all’Ucraina e della cobelligeranza italiana da parte del governo Draghi e di ambienti euroimperialisti come quelli del PD. Due aspetti collegati tra loro: la politica guerrafondaia di regime il secondo aspetto e il suo braccio armato informale il primo.
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L’inchiesta sociale militante
Il compito da rilanciare dei comunisti
di Raffaele Gorpìa
Sono decenni che si è rinunciato alla capacità di analizzare seriamente la struttura del corpo sociale mentre ci si è persi invece dietro a tatticismi politici, a suggestivi “immaginari e a “nuove narrazioni”, quando al contrario si ha sempre più la necessità di sapere precisamente come sono fatte le classi subalterne e come sono fatti i nostri nemici che, invece, hanno convenienza a far sparire le classi sociali poiché senza di esse rimangono solo gli individui o tutt’al più i gruppi di interesse.
Se vi è un elemento sintomatico della crisi del movimento operaio e delle organizzazioni che un tempo ad esso facevano riferimento, certamente questo risiede nella scarsa presenza se non nella totale assenza di produzione di inchieste sociali sulla composizione di classe in epoca contemporanea. L’inchiesta non può essere solo concepita come lo strumento che l’organizzazione politica di sinistra deve utilizzare per non perdere il contatto con la realtà, quanto come un vero asse strategico attorno al quale costruire, appunto, la strategia politica; l’inchiesta diviene strumento fondamentale per cogliere da un lato la struttura di classe nelle sue diverse articolazioni e nella sua componente soggettiva e di coscienza, per un altro verso è il modo per raccogliere, secondo l’impostazione maoista, le “idee giuste” delle masse rielaborandole come linea politica.
Tale assenza dal campo politico rimanda sicuramente all’assenza dell’intellettuale organico prefigurato da Gramsci, una figura politica immaginata come interna alla classe e allo stesso tempo avanguardia della stessa capace di guardare al complesso della società senza perdere l’orientamento del punto di vista di classe e ispiratore del proletariato affinché lo stesso possa liberarsi dalle idee delle classi dominanti per sviluppare una propria coscienza di classe e così cambiare lo stato di cose presenti.
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Per rileggere Federico Caffè da una prospettiva rivoluzionaria
di Carlo Formenti
Nella collana Meltemi “Visioni eretiche” è appena uscito il nuovo libro (1) di Thomas Fazi, che quattro anni fa aveva inaugurato la serie con Sovranità o barbarie (2), dedicato al grande eretico della scienza economica, quel Federico Caffè che, dopo la sua misteriosa scomparsa (in data 15 aprile 1987), si è sollecitamente provveduto a rimuovere dai programmi di studio della disciplina perché la lucidità con cui aveva denunciato i rischi della svolta neoliberista – e previsto i disastri che ne sarebbero derivati – è imbarazzante per gli economisti e i politici (in particolare se di sinistra) che di quella svolta si fecero promotori e apologeti. Senza entrare nei dettagli dell’accuratissima ricostruzione che Fazi fa del pensiero e dell’impegno politico e sociale di Caffè, le pagine che seguono si propongono di: 1) ricordare quale fosse il senso comune condiviso dalla maggioranza degli economisti occidentali fino agli anni Settanta del secolo scorso; 2) riassumere i fondamenti teorici su cui si fondava, cioè la teoria keynesiana (e la lettura che ne diede Caffè, il primo a diffondere il pensiero di Keynes nel nostro Paese); 3) ricostruire a grandi linee della svolta neoliberista degli anni Ottanta, legittimata dalle “innovazioni” teoriche della sintesi “neokeynesiana” e della scuola neomonetarista; 4) rievocare la tenace quanto disperata opposizione di Caffè nei confronti del nuovo corso, con particolare attenzione alla sua irritazione nei confronti della conversione del PCI e del sindacato ai paradigmi del pensiero liberal/liberista.
Come ricorda Fazi (3) quando venne avanzata per la prima volta la proposta di istituire una moneta unica europea - con il cosiddetto piano Werner - fu bocciata come una bizzarria se non come una vera e propria follia.
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Sui valori della resistenza
di Michele Castaldo
La giornata del 25 aprile 2022 ha posto sul tappeto il quesito dei quesiti politici: perché era giusto essere resistenti in Italia unitamente alle truppe angloamericane nella lotta contro il nazifascismo dopo il 1943, mentre c’è più di una remora a sostenere la resistenza armata dell’Ucraina di Zelensky contro la Russia di Putin che ha invaso e in parte occupa il paese limitrofo. Inutile girarci intorno: è una questione storica molto complicata e si cammina sempre sul filo del rasoio. E se la sinistra è frammentata da posizioni diverse sullo stesso fatto vuol dire che c’è da riflettere. E per riflettere è necessario spogliarsi delle vesti ideologiche, analizzare i fatti nudi e crudi del passato e fare la stessa operazione con i fatti di oggi senza l’uso di comodi meccanicismi ideologici, ma con lealtà. Solo a quel punto si è realmente credibili oltre le strumentalizzazioni della propaganda di parte. Chiediamo troppo? Pazienza, chi ci sta ci sta e chi no, amen.
C’è qualche analogia tra i fatti della resistenza in Italia contro il nazifascismo dal 1943 al 1945 con la resistenza ucraina contro la Russia? Analizziamo i fatti.
Prima questione: La NATO nasce il 4 aprile 1949, dunque a guerra finita e come “difesa” contro l’Urss temuta come insieme di popolazioni e etnie che cercavano una propria via per sottrarsi al dominio euro-atlantico, quella potenza economica, politica e militare che aveva fino a quel momento dominato il mondo. Altrimenti detto: la NATO perciò nasce come difesa contro la rivoluzione dei paesi poveri capeggiati dall’Urss contro i paesi ricchi capeggiati dagli Usa.
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Intervista a Valerio Evangelisti
Ci ha lasciati Valerio Evangelisti, storico e scrittore militante bolognese, animatore di diversi progetti, tra cui «Carmilla». Ha contribuito a creare un immaginario attraverso i suoi numerosi romanzi, da quelli legati alla famosa figura dell’inquisitore Eymerich al ciclo del Pantera, nel clima della guerra civile americana, dai pirati di Tortuga agli intrecci dei percorsi biografici de Il sole dell’avvenire, dagli Iww alla rivoluzione messicana, fino ai volumi dedicati a raccontare un’altra storia del Risorgimento italiano. Lo ricordiamo con un estratto dell’intervista del 18 marzo 2000, per il volume Futuro anteriore. Dai «Quaderni rossi» ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano (DeriveApprodi, 2002).
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Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della tua attività militante?
La mia storia è abbastanza lunga perché io cominciai ad accostarmi al movimento nel 1969, quando ero uno studente medio. Sulle prime chi interveniva nella mia scuola erano i maoisti e quello fu il primo contatto, anche un po’ traumatico, con la sinistra, come allora si diceva, extra-parlamentare; ma quasi subito passai a Lotta continua. A dire la verità a spingermi non era tanto un calcolo ideologico: Lotta continua era il gruppo ritenuto il più duro e cattivo di tutti, vidi una loro manifestazione che mi impressionò, e quindi alla fine del 1969 vi entrai, tra i primi studenti bolognesi a farne parte (allora era appena nata anche in Italia). Rimasi con loro diversi anni: va detto che era un gruppo molto affiatato dal punto di vista umano, interno, però con quasi nessuna forma di organizzazione, cosa che lasciava spazio a un amplissimo leaderismo; poi c’era la venerazione di Sofri come una sorta di divinità.
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Il 22 aprile la “variante operaia” incontra quella studentesca
Contropiano intervista Roberto Montanari
Intervista a Roberto Montanari sindacalista della Usb nel settore della logistica. Nel nostro viaggio verso lo sciopero operaio e studentesco del 22 aprile, abbiamo chiesto alcune valutazioni a chi agisce in un settore strategico della catena del valore capitalistica come la logistica.
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Il 22 aprile ci sarà uno sciopero “operaio” convocato da Usb e una manifestazione nazionalea Roma. Avete declinato questa giornata di conflitto come la rimessa al centro della “variante operaia” nell’agenda politica del paese. Che cosa significa?
Nel passaggio a questo terzo millennio il capitale ha avuto la capacità di riarticolarsi, nella crisi, mutando anche “tecnicamente” la forma di chi coopera alla produzione della sua ricchezza.
La classe operaia di tipo fordista, così densamente compatta, così fortemente relazionata al tessuto sociale e addirittura territoriale, è stata segmentata, divisa addirittura sul piano globale, dando corpo a quelle che Luciano Vasapollo (tra i primi e più rigorosi studiosi/militanti) ha definito le catene globali del valore.
Utilizzo come esempio l’immagine del vecchio quartiere operaio Mirafiori di Torino. Era un mondo che conteneva altri mondi: c’era il fabbricone, c’era un territorio circostante nel quale lavorava l’indotto, vivevano gli operai, studiavano i loro figli, si muovevano, si divertivano, organizzavano la resistenza operaia allo sfruttamento. Ora è un “non luogo”, vuoto, con reperti di archeologia industriale, un quartiere senza servizi, abbandonato a se stesso.
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Riflessioni sul programma minimo e su un movimento politico organizzato[1]
di Enzo Gamba e Francesco Schettino
Riceviamo e volentieri pubblichiamo come spunto di dibattito alcune importanti riflessioni sulla necessità di trasformare l'enorme dissenso sociale presente in Italia in un movimento politico organizzato che sappia rappresentarlo degnamente
Sarebbe ingeneroso nei confronti di tutte le compagne e i compagni non tener conto del grande impatto pratico ed emotivo che hanno avuto gli eventi collegati alla lunghissima pandemia nell’ultimo biennio abbondante, così come le vicende belliche contemporanee. È vero, e facciamo bene a riconoscerlo, che ne siamo usciti tutti con le ossa più frantumate di quanto non lo fossero prima. Per quanto le nostre conoscenze ci abbiano tenuto al riparo da danni ancora maggiori – rinvenibili in tutto mondo – due anni abbondanti di stato emergenziale ci hanno resi probabilmente più deboli. Le nostre iniziative vedono sempre meno adesioni, il coinvolgimento di larghi settori delle classi più povere e subalterne è ancora più arduo e il clima di angoscia e sfiducia di certo non rende più semplice il nostro lavoro.
Tuttavia, queste considerazioni non possono agire da pretesto per limitare la nostra azione o addirittura per decidere che non c’è più nulla da fare. Al contrario questi fenomeni, diffusissimi in ogni angolo della nostra società, sono assai utili per comprendere la misura di quanto, in una fase di crisi perdurante come quella che viviamo, il nostro ruolo sia ancora più centrale, nonostante la sostanziale invisibilità che ci viene ormai concessa.
Sono tanti i presunti tentativi di riunificazione alla sinistra del PD, come ce ne sono stati tanti nel passato e probabilmente altrettanti ce ne saranno nel futuro. Nonostante le buone intenzioni si tratta troppo spesso di fusioni “alle proprie condizioni” che determina rapidamente un deteriorarsi dei rapporti interni e dunque la pressoché immediata interruzione di percorsi, di fatto, mai iniziati. Tuttavia, non possiamo che cogliere con favore le aggregazioni di vasti settori popolari attorno alle iniziative degli operai Gkn (Insorgiamo tour) il cui lavoro è al contempo originale ed encomiabile e della nuova formazione istituzionale che ha visto la nascita di un nuovo soggetto, ManifestA, che unisce PRC e Potere al Popolo!, nella Camera dei deputati.
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Camionisti e soggetto
di Michele Castaldo
Carissimi compagni,
capisco che in una fase molto complicata, come più volte l’ho definita, si possa essere attratti da qualsiasi cosa si muova contro lo stagno della lotta di classe secondo almeno certi canoni, ma occorre lucidità proprio in certi frangenti per evitare di prendere abbagli.
Mi riferisco alla posizione dei compagni di Assemblea militante sulla lotta dei camionisti canadesi che, attratti da una mobilitazione contro le misure restrittive dell’agibilità sociale più che politica, si schierano con essa, la esaltano e si augurano « Che l’atto di forza in corso sul teatro canadese dia fuoco alle polveri, in una serie di pronunciamenti di massa e di piazza a catena in grado di far crollare il castello di menzogne e la realtà da incubo nella quale siamo piombati ».
Visti i tempi, sono costretto a parlare in prima persona, che non è buona cosa, ma quando è necessario esporsi è giusto farlo. Il mio approccio alla questione - ripeto molto complicata e chi la semplifica sbaglia e i fatti si incaricheranno di dimostrarlo – si rifà al metodo che usò Rosa Luxemburg rispetto alla mobilitazione dei contadini in Russia nel novembre del 1917, che pur appoggiando le ragioni del sostegno dei bolscevichi alla causa rivoluzionaria dei contadini, mise in guardia Lenin dicendo: « questi saranno i tuoi aguzzini».
L’aquila reale Rosa prese anche qualche abbaglio quando criticò lo scioglimento dell’Assemblea costituente, e molti comunisti di scuola trockista e democratici occidentali usano proprio la critica di Rosa contro Lenin, per denigrare la Rivoluzione russa e il comunismo.
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