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Il pluralismo di piattaforma

Un modello “conviviale” di economia politica delle piattaforme?

di Tiziano Bonini

Schermata 2018 04 02 alle 16.57.24Per un po’ di giorni, grazie al lavoro di decine di giornalisti investigativi del Guardian, la storia dei dati degli utenti di Facebook finiti nelle mani di Cambridge Analytica ha occupato l’agenda dei media internazionali.

Ma ora che ne sappiamo un po’ di più, dovremmo chiederci qual è il cuore di questa storia. Per cosa, come cittadini e utenti di Facebook, dovremmo indignarci e protestare? Qual è il punto della vicenda?

Non ci piace che un governo straniero abbia avuto accesso ai dati di milioni di utenti americani di Facebook? Non ci piace che gli spin doctor di Trump (Bannon) abbiano avuto accesso a questi dati? Non ci piace che Facebook non sia stata capace di proteggere la privacy dei propri utenti, come scritto nella sua licenza d’uso? Il problema è chi ha fatto uso di questi dati, o il fatto che questi dati siano stati utilizzati per fini di propaganda?

Perché nel primo caso, anche Obama ha fatto uso di questi dati. Come riporta un bell’articolo di Slate, “la campagna di Obama del 2012 ha utilizzato gli stessi tipi di dati ai quali Cambridge Analytica ha avuto accesso. Obama è stato capace di “targetizzare” gli elettori e i potenziali sostenitori utilizzando software che funzionavano al di fuori di Facebook e che si nutrivano di dati Facebook. Era un problema allora. È un problema ora.

Ma nel 2012, la storia di Obama era una storia di speranza, e i modi tecnologicamente avanzati della sua campagna erano oggetto di ammirazione”.

Se Obama usa questi dati va bene e se invece lo fanno Bannon, Trump o Putin non va bene?

O forse, il problema, più ampio del caso Cambridge Analytica, risiede nel fatto che i dati che Facebook raccoglie su di noi finiscano nelle mani di inserzionisti pubblicitari e politici che ci mettono nel loro “mirino” per tentare di “manipolare” il nostro comportamento di consumo e il nostro orientamento politico?

L’importanza di questa vicenda è di aver fatto emergere, una volta per tutte, il problema centrale di Facebook e di tutte le piattaforme digitali che si fondano sul suo stesso modello.

ll problema è l’economia politica di queste piattaforme. Per una volta sono d’accordo con Eugeny Morozov, che in un tweet del 20 marzo 2018 ha scritto: “To think that the problem in this whole debacle is Facebook’s business model is to think that subscription fees – the only non-advertising alternative -would be better. The real problem here is the *absence* of non-corporate, alternative infrastructures for organizing our lives.”

Il vero problema è il monopolio delle piattaforme digitali in sempre più ambiti della vita sociale. Il problema è l’assenza di infrastrutture alternative, non-corporate, per l’intermediazione delle nostre relazioni sociali.

Questo è il tema di una giornata di studi che, insieme a Che Fare, organizziamo presso l’Università di Siena, il 16 aprile 2018 (qui il programma, aperto al pubblico). 

Nick Srnicek, nel suo libro Platform Capitalism (Polity 2017, tradotto e pubblicato in Italia da Luiss University Press: Capitalismo digitale: Google, Facebook, Amazon e la nuova economia del web), analizza nel dettaglio le caratteristiche del capitalismo contemporaneo e individua l’emergere del capitalismo di piattaforma, una forma di capitalismo avanzato che si fonda sull’estrazione, l’aggregazione e l’analisi di dati, dai quali emerge un nuovo tipo di impresa commerciale: la piattaforma.

Le piattaforme, secondo Srnicek, sono infrastrutture digitali che permettono a due o più gruppi sociali di interagire tra loro. Si posizionano quindi come intermediari frapposti tra utenti differenti: clienti, investitori pubblicitari, fornitori di servizi, produttori di contenuti, distributori. Google è la piattaforma per la ricerca online, Uber la piattaforma per la domanda/offerta di taxi, Facebook per le relazioni interpersonali, Airbnb per l’offerta/domanda di affitti temporanei, Spotify per la ricerca/scoperta di contenuti musicali. Queste aziende commerciali hanno tutte in comune l’uso di piattaforme digitali per mediare tra utenti e fornitori di servizi/contenuti e possono essere viste quindi come dei veri e propri mezzi di comunicazione, delle vere e proprie piattaforme mediali.

A che serve trattare queste piattaforme così apparentemente diverse tra loro – Uber e Spotify, Facebook e Airbnb – come dei “mezzi do comunicazione di massa”?

Estendere il concetto di media più comune oltre i confini dei mezzi di comunicazione di massa tradizionali, ci permette di estendere i confini della disciplina dei media studies e permette di applicare gli studi di economia politica dei media non solo a piattaforme mediali come Facebook e Spotify ma anche ad altre come Airbnb e Uber. Come sostiene Srnicek, queste piattaforme condividono lo stesso modello di business, ovvero la creazione di valore a partire dalla raccolta di dati digitali.

Srnicek distingue poi tra 5 diversi tipi di piattaforme: advertising platforms (Google, Facebook); cloud platforms (AWS, Salesforce); industrial platforms (GE, Siemens); product platforms (Spotify); lean platforms (Uber, Airbnb), ma tutte hanno in comune un modello di business fondato sulla valorizzazione economica dei dati degli utenti, così come le corporation del petrolio guadagnano non tanto dall’estrazione del petrolio ma dalla loro capacità di raffinare questa risorsa e trasformarla in benzina.

Se iniziamo a considerare queste piattaforme come media “for profit”, forse potremmo iniziare finalmente anche a discutere di come regolamentare questi media, alla luce della lunga storia della regolamentazione delle telecomunicazioni del novecento. Tutte le istituzioni mediali precedenti, a prescindere dalla tecnologia impiegata, hanno sempre risposto a 3 principali modelli organizzativi: media di servizio pubblico, media “for profit” (di proprietà di privati) e media “no profit”, “comunitari”, di “cittadinanza”, “civici”.

Ogni nuovo medium entrato nell’ecosistema dei media che lo precedeva, ha assunto queste tre forme (declinate in ogni paese secondo modalità differenti e con pesi ed efficacia differenti).

Tutti i paesi del mondo hanno dovuto prima o poi regolamentare il settore dei media e delle telecomunicazioni, alcuni lo hanno fatto favorendo i media pubblici, altri lo hanno fatto favorendo quelli privati, a correnti alterne e in momenti storici differenti. Ma tutti i governi hanno deciso di regolamentare (o deregolamentare, cioè allentando, ma non cancellando, i regolamenti) i media, prima o poi.

Se consideriamo queste piattaforme digitali, tutte, nessuna esclusa, come delle nuove forme di mezzi di comunicazione, perché allora dovremmo lasciare che queste piattaforme auto-regolino l’erogazione dei propri servizi agli utenti, senza alcun intervento governativo?

Tanto più ora che ci siamo accorti che queste piattaforme non sono solo spazi dove gli utenti si scambiano informazioni e alimentano relazioni sociali, ma sono spazi dove si informano, offrono e trovano lavoro. Il modo in cui queste piattaforme funzionano e guadagnano ha una ricaduta ormai evidente sul funzionamento democratico del paese, sulla qualità dell’ecosistema informativo, sulla diversità dell’offerta delle industrie culturali e sul mercato del lavoro.

Finalmente, in tutto il mondo, l’opinione che queste piattaforme vadano regolate e non lasciate all’auto-governo, sta diventando sempre più diffusa. Dal 2016 in poi, il partito che chiede una qualche forma di regolamentazione delle piattaforme digitali commerciali si va ingrossando. Eppure quest’onda arriva da lontano. Le tipologie di regolamentazione proposte sono diverse, ma molte si ispirano all’idea che queste piattaforme siano dei monopoli naturali, come l’acqua o le strade, e che debbano essere gestite dallo stato:

Già nel 2012 negli Stati Uniti qualche editorialista parlava di nazionalizzare Facebook (Slate, agosto 2012, “Facebook should be nationalized to protect user rights”).

Su Salon, l’8 luglio del 2014, un altro editorialista proponeva di nazionalizzare Google e Amazon, che si fondavano su tecnologie finanziate tramite fondi statali.

2015 – Su The Week: “Why we should just nationalize Facebook”.

Nel settembre del 2016 Nathan Schneider sul Guardian propone, al posto della nazionalizzazione, la trasformazione di Twitter in cooperativa di proprietà degli utenti e il 4 novembre dello stesso anno lancia una campagna per chiedere a Twitter di trasformarsi in una cooperativa. La campagna riceve una vasta eco globale.

Verso la fine del 2017 esce anche un articolo sul New York Times, “We Can’t Trust Facebook to Regulate Itself”.

Per ultimo arriva Nick Srnicek, ricercatore del King’s College di Londra e autore di Platform Capitalism, che sul Guardian, sostiene che bisogna nazionalizzare Facebook, Google e Amazon:

“Abbiamo assistito all’ascesa di monopoli di piattaforma sempre più formidabili. Google, Facebook e Amazon sono i più importanti in Occidente. (La Cina ha il suo ecosistema tecnologico.) Google controlla la ricerca, Facebook le relazioni sociali e Amazon l’e-commerce. E ora stanno esercitando la loro egemonia su tutte quelle aziende non ancora trasformate in piattaforme. Basta guardare in che stato è il giornalismo: Google e Facebook stanno accumulando entrate pubblicitarie record attraverso sofisticati algoritmi; giornali e riviste vedono fuggire gli inserzionisti, e la conseguenza sono licenziamenti di massa e di costosi giornalisti investigativi e il crollo di importanti titoli di stampa come The Independent. Un fenomeno analogo sta accadendo nel retail, con il predominio di Amazon che sta minando i vecchi grandi magazzini (…)

Qual è la risposta? Abbiamo solo iniziato a cogliere il problema, ma in passato monopoli naturali come le utilities e le ferrovie che godono di enormi economie di scala e servono il bene comune sono stati i primi candidati alla proprietà pubblica. La soluzione al nostro nuovo problema di monopolio risiede in questa sorta di correzione secolare, aggiornata per la nostra era digitale. Significherebbe riprendere il controllo su internet e la nostra infrastruttura digitale, invece di lasciarli correre alla ricerca del profitto e del potere”

Come leggiamo da questa breve rassegna cronologica, il tema di come regolamentare le piattaforme è sul tavolo già da qualche anno e solo il caso più recente delle elezioni americane ha spinto l’argomento in cima all’agenda politica internazionale.

Gli opinionisti si concentrano su Google, Twitter, Facebook, Amazon, ma altre discussioni minori affrontano gli stessi temi per Airbnb, Uber, Spotify.

E le soluzioni proposte oscillano sempre all’interno delle tre dimensioni di cui sopra: media di servizio pubblico (nazionalizzare Facebook); media civici o comunitari (cooperativizzare Twitter) o media privati, ma regolati.

A proposito di regolamentazione della privatizzazione dei media: se volgessimo lo sguardo al passato, potremmo (ri)scoprire una serie di vicende che potrebbero ispirare possibili soluzioni ai problemi contemporanei.

Prenderò in esame tre casi: il Communication Act americano del 1934; la Fairness Doctrine del 1949 e la legge Mammì italiana del 1990. In ognuna di queste leggi, in gradi diversi, è stato stabilito che un’impresa privata orientata a trarre profitti dallo sfruttamento di una tecnologia per la comunicazione di massa (radio e tv, nei 3 casi citati), dovesse anche assolvere a dei doveri di “servizio pubblico”, in cambio della licenza di sfruttamento commerciale delle infrastrutture comunicative radio-televisive.

Communication Act, 1934

Prima che il Communications Act del 1934 fosse emanato come legge dal Congresso degli Stati Uniti, nel paese esplose un acceso dibattito sul peso da attribuire alle trasmissioni commerciali rispetto a quelle non commerciali: i senatori Robert Wagner di New York e Henry Hatfield della West Virginia proposero un emendamento alla proposta di legge sulle comunicazioni. Il “partito” degli “educatori” (coloro che vedevano nella radio prima di tutto un mezzo di informazione e democratizzazione della comunicazione) voleva che la legge prevedesse più frequenze disponibili per le radio no profit; l’emendamento Wagner-Hatfield avrebbe dato il 25% di tutte le strutture di radiodiffusione alle istituzioni e organizzazioni senza scopo di lucro. Avrebbe inoltre permesso a queste stazioni educative di vendere pubblicità per auto-sostenersi.

Il senatore Clarence Dill, un lobbista pro-industria commerciale, si oppose a questo emendamento, perché avrebbe significato l’eliminazione di numerose stazioni commerciali.

L’emendamento Wagner-Hatfield non passò e finì sepolto dalla storia. Il Communications Act venne approvato e passò alla storia come il momento in cui il broadcasting americano si commercializzò del tutto (leggere il libro di Tim Wu del 2011, The Master Switch), un po’ come quando, pochi mesi fa, qualcuno scrisse che l’abolizione della net-neutrality significava la fine dell’Internet non commerciale.

La FCC (Federal Communications Commission) concesse però al “partito degli educatori” che le emittenti commerciali si facessero carico di dedicare una quota della loro programmazione a programmi di interesse pubblico e di approfondimento culturale, programmi che per la loro natura non erano facilmente commercializzabili.

Fairness Doctrine, 1949

La dottrina “sull’equità” della Federal Communications Commission (FCC) degli Stati Uniti, approvata nel 1949, richiedeva ai titolari di licenze di trasmissione radiofonica (e poi televisiva) di tipo privato di presentare controverse questioni di importanza pubblica in maniera “honest, equitable, and balanced”.

La Fairness Doctrine si basava su due pilastri: 1) richiedeva alle emittenti di dedicare parte del loro tempo di trasmissione per discutere questioni controverse di interesse pubblico e, 2) dare spazio ad opinioni contrastanti su tali questioni. Le stazioni avevano ampia libertà su come fornire punti di vista contrastanti: poteva essere fatto attraverso brevi servizi, talk show politici o editoriali all’interno di un giornale radio. La dottrina obbligava le emittenti a ospitare queste opinioni, ma non a dedicare loro lo stesso tempo.

La dottrina è stata eliminata dalla FCC nel 1987, all’epoca della deregulation Reganiana, e per molti studiosi di media americani, la sua cancellazione è alla base dell’aumento della polarizzazione politica della società americana e della popolarità di show radiofonici radicali e partigiani come quello di Rush Limbaugh (il modello che in Italia ha ispirato prima Ferrara e poi La Zanzara di Cruciani).

Legge Mammì, 1990

La prima legge italiana che regolamentava la liberalizzazione delle frequenze radio-televisive non stabiliva molti vincoli per le emittenti commerciali, altresì vincolava fortemente le concessionarie di licenza comunitaria, di fatto stroncandone la crescita sul nascere e per questo somiglia molto al Communication Act del 1934.

Però, come il Communication Act americano di 56 anni prima, all’articolo 16, comma 18, stabiliva che:

“18. [È comunque requisito essenziale per il rilascio della concessione in ambito locale l’impegno dei richiedenti a destinare almeno il 20 per cento della programmazione settimanale all’informazione, di cui almeno il 50 per cento all’informazione locale, notizie e servizi, e a programmi comunque legati alla realtà locale di carattere non commerciale (4)] (5)”

Anche questa legge quindi, richiedeva, in cambio della concessione allo sfruttamento commerciale di frequenze di proprietà pubblica, un impegno, da parte dei privati ad assolvere alcuni limitati compiti di “servizio pubblico”.

Cosa c’entrano questi tre casi fin qui elencati con le piattaforme digitali, se: A) queste piattaforme non sono apparentemente degli editori e, B) non hanno frequenze in concessione?

C’entrano, perché, se, come abbiamo detto all’inizio, consideriamo queste piattaforme come dei media, che sfruttano per fini commerciali una risorsa pubblica come la connettività fornita dalla rete Internet (considerata negli Stati Uniti, per esempio, fino all’abolizione della net neutrality, un common carrier, cioè un servizio universale), per fornire agli utenti informazioni riguardo lo status affettivo di altri utenti (Facebook), informazioni riguardo la presenza di taxi in zona (Uber), informazioni riguardo la disponibilità di alloggio (Airbnb), informazioni riguardo la disponibilità di un brano musicale (Spotify), informazioni riguardo la disponibilità di un bene di consumo (Amazon), ecc…, questi media possono essere regolati ispirandoci ai principi che in passato hanno informato le leggi sulle telecomunicazioni e che, a seconda del momento storico e della geografia, hanno oscillato periodicamente tra regolamentazioni maggiormente orientate a favorire il mercato, lo stato o le comunità.

Queste leggi ci dimostrano che è possibile regolamentare il mercato dei media digitali, anche senza nazionalizzarlo del tutto e si può scegliere di favorire la competizione o, al contrario, lasciare che si crei un monopolio. Finora abbiamo lasciato che in molti settori (ricerca = google; relazioni sociali = Facebook; intermediazione di immobili temporanei = Airbnb; intermediazione di musica = Spotify e Apple Music, ecc…) prevalessero i monopoli o gli oligopoli. Ora è forse venuto il tempo di discutere forme diverse di regolamentazione, ispirate ai principi del passato ma adattate alle logiche delle piattaforme digitali.

 

Il “pluralismo di piattaforma”: un modello “conviviale” di economia politica delle piattaforme?

A questo proposito propongo di iniziare a parlare di “pluralismo di piattaforma”, un’idea nata da una discussione collettiva sulla “democrazia minima”, un forum organizzato da Fondazione Feltrinelli l’8 marzo 2018 a Milano, il cui tavolo al quale ho partecipato era guidato da Giovanni Boccia Artieri.

Cos’è il “pluralismo di piattaforma”?

In un ecosistema dove social media come Facebook e Twitter si estendono così tanto da rappresentare quasi i confini di Internet e dove le persone usano queste piattaforme per crearsi/alimentare opinioni politiche e di consumo, queste piattaforme non possono più nascondersi dietro la scusa di non essere degli editori. L’algoritmo di Facebook svolge ruoli di gatekeeping forse più potenti dei gatekeepers (i giornali) tradizionali e i suoi moderatori precari pagati due lire in giro per il mondo, censurano contenuti sulla base di regole di comportamento che assomigliano più alla gestione di una discoteca che assolda una security privata di buttafuori, piuttosto che a dei giudici imparziali che agiscono secondo regole condivise dalla comunità.

In questo ecosistema, che, come sosteneva il NYT, si regolerà solo se qualcuno gli imporrà di farlo, il pluralismo di piattaforma (platform pluralism, suona meglio) potrebbe essere un principio in grado di ispirare le future forme di regolamentazione delle piattaforme digitali e che potrebbe essere articolato in vari modi.

Una fairness doctrine per le piattaforme

1) Potrebbe ad esempio tradursi in una sorta di “fairness doctrine” per i social media: Facebook potrebbe essere obbligato, in occasioni tipo le elezioni, a fornire dati sui programmi di tutti i partiti, dando la stessa visibilità a tutti. Oppure potrebbe essere obbligato a tenere un archivio pubblico e accessibile di tutti i messaggi promozionali pagati da partiti o società di comunicazione a loro connesse, per evitare che si scopra, solo dopo faticose investigazioni, che il governo di Putin ha pagato annunci promozionali che hanno raggiunto più di cento milioni di utenti americani di Facebook. Nel mondo fisico gli annunci elettorali sono visibili a tutti. Così come i messaggi politici trasmessi in tv in periodi elettorali sono regolati e monitorati, dovrebbero esserlo i messaggi diffusi su Facebook.

2) Potrebbe altresì tradursi in un obbligo per Facebook di garantire alle agenzie informative no profit e alle testate indipendenti no profit (per esempio negli USA Pro Publica) la possibilità di sponsorizzare i propri contenuti a prezzi accessibili per una no profit.

3) Potrebbe tradursi in una nuova politica dei dati personali, che rafforzi gli obblighi per le piattaforme di proteggere la privacy degli utenti e renda obbligatori dei meccanismi di verifica. Sarebbe fondamentale anche che si affermasse il principio di portabilità dei propri dati, per decidere di migrare liberamente da una piattaforma all’altra, portando dietro la nostra identità digitale e il nostro archivio storico.

4) Potrebbe tradursi infine, in forme più hard, in una storica decisione anti-trust, che spezzi il monopolio di queste piattaforme, sulla scia della storica divisione della AT&T in sette diverse società (le baby Bell) del 1982. Zuckerberg potrebbe essere costretto a vendere Whatsupp, Instagram e altre sue società minori, per frammentare l’ecosistema di raccolta dati degli utenti e favorire l’ascesa di nuovi attori sulla scena. Questo chiaramente non metterebbe al riparo gli utenti da casi come quello della Cambridge Analytica, ma ad esempio, costringerebbe Uber a fronteggiare nuovi competitor che offrono migliori condizioni di lavoro ai propri taxisti e per lo meno eviterebbe che una così grande mole di dati personali risiedesse nelle mani di una sola azienda (privata).

Una serie di regolamenti che provino a favorire un maggiore pluralismo e una maggiore diversità di modelli di sfruttamento di piattaforme digitali, potrebbe in futuro favorire l’ascesa di nuove piattaforme non profit, orientate verso la comunità, i cui dati degli utenti sono di proprietà né di una azienda statale nazionalizzata, né di una corporation, ma della comunità degli utenti (la piattaforma Mastodon è già così, ma in questo ecosistema de-regolamentato e senza finanziamenti che sostengano queste forme organizzative, è destinato a sopravvivere, per poco, ai margini del sistema).

Un principio come il pluralismo di piattaforma potrebbe essere orientato a favorire un ecosistema delle piattaforme più variegato di quello che abbiamo ora e più vicino alle quattro dimensioni di organizzazione economica delle piattaforme immaginato dal fondatore della Peer -to-peer Foundation, Michel Bauwens. Secondo Bauwens, le attuali economie politiche della rete sono raggruppabili in quattro possibili scenari diversi, organizzati secondo due polarità, quella tra controllo centralizzato o controllo distribuito delle infrastrutture p2p, e quella tra un orientamento no profit o for profit.

Invece di sostenere ideologicamente l’utopica materializzazione dal nulla di piattaforme cooperative (pensate alla brutta fine di Diaspora), o al contrario, l’utopica nazionalizzazione completa di giganti come Facebook, si potrebbe più realisticamente ragionare su un ecosistema di piattaforme orientato al pluralismo (o, come suggerisce la teorica dei media Kate Crawford, uno scenario in cui le piattaforme siano basate su “algoritmi agonistici”), dove dei nuovi “Communication Act”, ritagliati su misura delle contemporanee evoluzioni tecnologiche, siano approvati con il fine di creare il terreno fertile per favorire, nel lungo periodo il rafforzamento di modalità non profit di istituzioni comunicative basate su piattaforme digitali e vincolare le piattaforme profit già esistenti a maggiori obblighi in termini di servizio pubblico e protezione della privacy.

È possibile regolamentare le piattaforme per ottenere un maggiore pluralismo? Sì, se questo pluralismo ha come obiettivo favorire la crescita di ecosistemi “conviviali” dei media. Quando uso la parola “conviviale” intendo l’idea di convivialità espressa da Ivan Illich in Tools for Conviviality (1973). In questo libro Illich (che ha ispirato molti degli hacker californiani che hanno poi creato i primi personal computer) affermava che per rendere gli uomini più autonomi, più liberi, più capaci di realizzare i propri desideri, bisognava innanzitutto progettare strumenti (tecnologie, istituzioni, relazioni) al servizio dell’uomo, strumenti in grado di liberare le potenzialità e la creatività umana, strumenti che non dividessero gli uomini in master e slaves, in padroni e schiavi. Questi strumenti, Illich li chiamava “conviviali”, in opposizione al modo di produzione industriale (fosse esso capitalista o socialista).

“Le persone hanno bisogno non solo di ottenere delle cose, ma anche della libertà di costruirsi le cose di cui hanno bisogno per vivere, di dargli forma a seconda dei propri gusti (…) Ho scelto il termine conviviale per designare l’opposto della produzione industriale. Intendo con questo tutte quelle relazioni creative e autonome che intercorrono tra gli individui e tra gli individui e il loro ambiente. Considero la convivialità come quella libertà individuale che si realizza nell’interdipendenza tra persone” (p. 11).

Una società conviviale, proseguiva Illich, è una società che garantisce ad ogni suo membro il più ampio e libero accesso possibile agli strumenti in possesso della sua comunità.

Gli strumenti sono conviviali nella misura in cui possono essere facilmente usati da tutti per raggiungere obiettivi direttamente scelti dagli utenti stessi. Non richiedono una certificazione preventiva (un diploma, una laurea, un attestato) per essere utilizzati.

Illich fa alcuni esempi di strumenti conviviali. A noi interessano di più quelli legati ai media: il telefono per esempio, sarebbe uno strumento conviviale, perché permette a chiunque di dire ciò che si vuole a chi si vuole, senza che i burocrati possano restringere questa possibilità o si debba passare da un centro, un gatekeeper, per poter parlare con qualcuno. La televisione invece sarebbe uno strumento non conviviale. Seguendo il suo ragionamento, uno strumento sarebbe conviviale quando può essere liberamente manipolato e adattato ai bisogni di chi lo usa, non è sottoposto a un controllo centralizzato, può essere usato da tutti e amplifica la creatività di ognuno.

Se le tecnologie attorno a noi sono progettate per incanalare le nostre azioni entro determinati comportamenti di numero limitato, che possono essere misurati e quindi analizzati, gestiti e trasformati in previsioni di consumo futuro, ecco che il nostro potere contrattuale nei confronti di queste tecnologie è molto basso, e i nostri sforzi, la nostra “risposta individuale”, il tentativo di resistere alle affordances previste dalle tecnologie risulta debole, o irrilevante.

La risposta collettiva, per me centrale, è invece quella di “invertire la struttura profonda degli strumenti che utilizziamo”, riappropriarci di questi strumenti, reclamarne il controllo, la possibilità di manipolarli, di deciderne le sorti, hackerarne non solo i contenuti, ma anche l’architettura con i quali sono stati progettati.

E per “invertire la struttura profonda degli strumenti che utilizziamo”, cioè rimettere in discussione il modello di business di queste piattaforme, non basta una coscienza collettiva, servono delle leggi, dei governi che intervengano, senza tare ideologiche né inutili demonizzazioni (come invece ora sta accadendo, con le campagne contro le Fake news e Cambridge Analytica)

Forse il platform pluralism è più realistico del “platform cooperativism”? O ne rappresenta solo il primo passo, la cornice entro la quale far fiorire doverse forme di “essere piattaforma”?

Di tutto questo, e nello specifico dell’economia politica di piattaforme digitali come Facebook, Spotify, Airbnb, Uber e delle potenziali forme di resistenza, ne discuteremo all’Università di Siena, al convegno When Everything is a Platform. Siete tutti invitati.

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