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paroleecose 

Guerre spaziali

di Mario Pezzella

conf wisnik 1024x710 1024x7101. Nei saggi raccolti in Spazio e politica. Il diritto alla città II (Ombre corte 2018)[1], Henri Lefebvre descrive lo spazio come prodotto sociale. Esso non è una forma a priori neutrale o un trascendentale sempre uguale a se stesso: si incurva secondo le linee divisorie della lotta di classe e dei rapporti di potere dominanti, che ne determinano la relatività e la mutevolezza. Non si producono “cose nello spazio”, ma lo spazio stesso, entro cui esse poi assumono configurazione concreta. Il capitalismo novecentesco ha interamente colonizzato lo spazio esistente, in funzione della produzione, circolazione e fantasmagoria delle merci. Anche il tempo acquisisce un valore, dipendente dalla rapidità con cui le distanze sono percorse, che determina la percezione della sua durata rapida o lenta. L’esaltazione della velocità si esaspera fino alla virtuale cancellazione della differenza dei luoghi in una ideale simultaneità sincronica. La distanza tende a divenire un algoritmo mentale ed astratto.

Lo spazio costruito dal capitale negli ultimi decenni del Novecento cancella la distinzione fra tempo di lavoro e tempo di vita, uniformati in un unico tempo produttivo. Non si tratta più solo di riprodurre i mezzi, ma anche i rapporti di produzione: questa “si realizza nella quotidianità, nel tempo libero e nella cultura… attraverso l’intero spazio” (46).

In apparenza si accentua la differenza tra i luoghi destinati al divertimento e alla vita quotidiana (centri commerciali, parchi-gioco, città nuove) e quelli del lavoro; ma in realtà questa disgiunzione è complementare a una unità coercitiva. Il tempo libero e le sue attività comunicative sono assorbiti nel tempo di produzione, che esorbita dagli antichi siti industriali e si espande “nel quadro del consumo organizzato, del consumo dominato”(47).

 

2. Gli elementi della vita sociale vengono disgiunti; e riunificati astrattamente come valori di scambio. E’ questa “l’unità del potere nella frammentazione” (47). Essa è sostenuta da un estetismo architettonico, “che unisce i frammenti funzionali di uno spazio dislocato”, maschera il loro carattere allo stesso tempo “omogeneo e fratturato” (47). Come nei centri commerciali, “simulacri di festa”, “simulacri di ludico”, vengono tenuti insieme dalla ferrea “legge coercitiva” della realizzazione di valore[2], che si impone su uno spazio in cui ogni legame concreto e vitale è stato precedentemente dissolto: “la fittizia coerenza dello sguardo non può nascondere la sua disarticolazione e addirittura la sua disgregazione” (49). Il capitale nella sua fase attuale è –secondo Lefebvre- congiunto-disgiunto. Da un lato separazione e dispersione di tutti i centri, quelli urbani, ma anche quelli produttivi: le città di dilapidano in una urbanizzazione estensiva e nella ruralizzazione delle periferie. A questa disgiunzione, fa però da contrappeso una congiunzione coercitiva all’insegna del consumo.

Nota 1. Il capitalismo presenta come separati elementi che in effetti funzionano secondo una ferrea regola unitaria, almeno da quando il dominio del capitale non è più formale, ma reale: così il profitto, la rendita, il salario, appaiono distinti e sono in verità uniti nel processo di valorizzazione del capitale. Ciò che apparentemente è diviso è in realtà unito. Ma è anche vero il contrario: il lavoro salariato è presentato come un elemento tra gli altri del processo produttivo, un mezzo comparabile nel suo prezzo ai macchinari e al capitale costante, occultando completamente la sua natura produttiva di plusvalore: ciò che qui appare unito è in realtà essenzialmente diviso[3]. C’è in tal senso un’affinità tra la concezione di Lefebvre e quella della società dello spettacolo di Debord: questa crea un “linguaggio comune”, un sistema simbolico, fondati su una simmetria e reciprocità di rapporti, che esistono solo sul piano della rappresentazione: e celano la dissimmetria che governa ogni rapporto sociale. Lo spettacolo è indispensabile perché la separazione reale sia tollerabile e possa espandersi ulteriormente. L’unità astratta del capitalismo approfondisce la distanza tra gli individui, la loro scissione dal proprio stesso corpo e dalla propria vita psichica, la sempre minore autonomia di ogni singolo. Sono “unificato” quanto più sono identico al mio essere cosa; sono separato quanto meno possiedo un essere-in-comune con gli altri. Sono unificato in quanto funzione, sono separato in quanto singolarità esistente: “Lo spettacolo non è che il linguaggio comune di questa separazione. Ciò che avvicina gli spettatori non è che un rapporto irreversibile al centro stesso che mantiene il loro isolamento.”[4].

 

3. La produzione capitalistica dello spazio dissolve la città antica, con la sua idea di centro e la lenta accumulazione di esperienza che ne faceva un’opera. La città è ora divenuta un prodotto.

Lo spazio in cui si svolge la vita quotidiana è divenuto esso stesso merce in ogni sua piega. L’urbano, che ha sostituito la città, non ha un nucleo unico e riconoscibile, ma si disperde poliedricamente in più centri commerciali: ogni centro, in questa pluralità, vive solo nel rinvio ad altro, si afferma e si distrugge contemporaneamente: “…si distrugge per saturazione; si distrugge perché rinvia a un’altra centralità; si distrugge in quanto provoca l’azione di coloro che esclude ed espelle verso la periferia” (73). Questo processo di urbanizzazione è dunque al contempo di ruralizzazione: l’amorfa continuità dell’una nell’altra sostituisce l’antica dialettica di città e campagna. In effetti il capitale disgrega la città in quanto luogo di riunione e di incontro delle soggettività e dell’esistenza sociale; mantiene bensì un centro svuotato di vita come sede “di potere e di decisione politica”, un centro istituzionale e irrigidito che si contrappone all’esplosione informe delle periferie ruralizzate. È questa una contraddizione dello spazio (121), in cui si ripresenta quella più generale tra fluidità e stabilità, che caratterizza le forme attuali del capitale.

Ogni epoca produce il suo spazio secondo una tonalità dominante, che riflette il suo esistenziale storico. Il tardo medioevo, ad esempio, si esprime nello slancio arcuato delle guglie gotiche; il pieno Rinascimento con la rotondità circolare delle cupole, che simulano il firmamento. Ideologie, conflitti politici, passioni nobili e avidità di potere si esprimono grazie al loro rispecchiamento nella configurazione fisica della città: l’architettura diventa il simbolo privilegiato delle dinamiche storiche e sociali. Lo spazio capitalistico in cui siamo immersi è dominato –secondo Lefebvre- dal visuale-fallico: una “dittatura dell’occhio”, che celebra la propria potenza in torri, grattacieli, verticalità di ogni tipo, che non rinviano ad alcuna trascendenza. L’altezza dei grattacieli in cui si configura e si raccoglie il potere dello Stato e della finanza esalta gli “sguardi sovrani della presenza statuale. Controllo. Dominio astratto sulla natura che implica e cela il dominio concreto sugli uomini riuniti in società” (117). Dalla terrazza di un grattacielo si ha il dominio visuale su tutto lo spazio circostante, mentre l’edificio stesso è l’erezione di una brutale forza fallica sulla terra.

Nota 2. Dal punto di vista teorico, il concetto di produzione dello spazio viene formalizzato dai teorici del Bauhaus, che concepiscono uno spazio organizzato secondo un piano unitario, “dal più globale al più locale”, fino al mobile in una stanza (114). Anche gli architetti sovietici ragionano in modo simile. Se questo è il grande merito delle avanguardie storiche, esse rischiano però di sacrificare ogni aspetto qualitativo e singolare dell’esperienza alla preminenza del piano astratto di costruzione, il gioco sociale alla funzione. In particolare Lefebvre non ama Le Corbusier; il trionfo in lui “dell’angolo retto e della linea retta” gli sembra esprimere un verticalismo del tutto consonante con i valori di Stato e ordine della borghesia francese.

 

4. La produzione capitalistica dello spazio produce nuova scarsità. Mentre prodotti che erano rari o destinati al lusso vengono messi a disposizione del consumo, la penuria riguarda ora forme elementari della vita, come l’acqua, l’aria, la terra, un tempo inalienabili beni comuni, che divengono commerciabili, hanno un prezzo ed “entrano così nel circuito degli scambi”. “Gli elementi stanno perdendo la loro natura” (103), sono condizionati o filtrati, richiedono un processo di produzione e di valorizzazione, sono alla base delle più cospicue speculazioni edilizie e perfino dell’attività delle grandi organizzazioni criminali: “fanno parte delle ricchezze”.

L’industria del tempo libero (dal turismo alle varie forme di spettacolo) da branca relativamente secondaria, diventa un settore centrale della produzione, destinata a giocare un ruolo sempre più importante nella creazione complessiva di plusvalore. Il mercato immobiliare diviene un rifugio per investimenti declinanti in altri ambiti, e può gonfiarsi a tal punto –noi lo sappiamo meglio di quanto potesse supporre Lefebvre- da generare vere e proprie bolle, destinate a esplodere con conseguenze rovinose e squilibranti sull’economia globale: “Le parti dello spazio, sezionato, diventano scambiabili. La subordinazione dello spazio al denaro e al capitale comporta un processo di quantificazione che si estende dalla valutazione monetaria e dalla commercializzazione di ogni lotto a quelle dello spazio intero” (124). Se però lo spazio e gli “immobili” in esso vengono mobilizzati divenendo fonte di credito finanziario, la speculazione può spingersi fino alla volatilizzazione integrale del loro valore d’uso materiale e alla loro trasformazione in titoli virtuali: salvo poi dover subire il contraccolpo violento della sproporzione tra valore astratto illimitato e loro materialità comunque parziale e limitata. Il capitalismo gestisce a fatica il contrasto tra la fluidità illimitata delle forze produttive attuali e la persistenza di stabilità e di fissità che le necessità di comando sociale gli impediscono di eliminare completamente: “Le istituzioni, la burocrazia, i centri, la proprietà del suolo, etc.”(140). Certo, in un modo che Lefebvre non poteva prevedere, il recente sviluppo iperfinanziario globale del capitale segna una potente spinta alla liquidazione delle stabilità resistenti o alla loro definitiva sottomissione.

 

5. Lefebvre distingue tra l’epoca urbana in cui siamo entrati e quella industriale. In quest’ultima il tempo-spazio era omogeneo e continuo; noi invece viviamo in spazi-tempi differenziali che “si sovrappongono e si intrecciano, dalle reti stradali ai canali d’informazione, dal mercato dei prodotti allo scambio di simboli” (74). Le forze produttive perdono la stabilità di luogo e divengono sempre più flussi, energie, informazioni, in continua metamorfosi nello spazio e nel tempo. La creazione di questi differenziali, benché attualmente dominati dal capitale, contiene un possibile utopico. Lo spazio omogeneo visuale-fallico con il suo funzionalismo impietrito, la sua verticalità impositiva, è dominato da una pulsione distruttiva; un nuovo inizio può scaturire dalla liberazione dei flussi, della loro molteplicità: “Lo spazio visuale-fallico decreta la morte del corpo dopo quella dell’uomo, della storia, di Dio”. L’affermazione di spazi-tempi differenziali richiede però la loro inclusione in una unità sociale non economica, che concepisca i siti come luoghi di incontro e riconoscimento di differenze (umane, culturali, estetiche).

Il dominio del mercato determina l’articolazione dello spazio a livello mondiale. Le diverse aree del mondo vengono sezionate e utilizzate secondo il margine di profitto economico che in esse si può ricavare e i modi più o meno primitivi o evoluti dell’estrazione di plusvalore, secondo la composizione organica del capitale che in ognuna di esse è possibile. La localizzazione e i rapporti spaziali sono legati a doppio filo con i rapporti sociali e quelli di produzione: “Il plusvalore non si realizza più là dove viene prodotto, ma si distribuisce su scala mondiale in funzione della strategia delle potenze economiche, finanziarie e politiche. La produzione, la realizzazione e la divisione del plusvalore riguardano così l’intero spazio planetario”(128). La divisione del lavoro si riproduce a livello sovranazionale, determinando le zone in cui si possono praticare sfruttamento e accumulazione primitiva e quelle dove prevalgono le forme più raffinate del lavoro mentale, con le sue reti informatiche e comunicative: la divisione del lavoro corrisponde a quella dello spazio, in una geografia politica determinante “rispetto alle scale locali, regionali, nazionali, continentali”(139).

 

6. Lo spazio dominato dal capitale è comunque segnato da contraddizioni: “L’informatica e l’automazione vanno di pari passo…Ciò che compare all’orizzonte è il non lavoro…Il lavoro produttivo non può più essere attribuito alla sola classe operaia…l’importanza, la funzione e la struttura sociale del lavoro produttivo si modificano” (136), perché diminuiscono il lavoro localizzato nelle fabbriche e quello manuale semplice (nel senso inteso da Marx). D’altra parte, lo spazio stesso si espande a una dimensione informatica, che si sovrappone a quella concreta, annullando “le distanze mediante la istantaneità dell’informazione” (96) e creando forme di comunicazione e di trasmissione del pensiero in cui la distanza materiale sembra abolita. La tensione utopica e “fourierista” implicita in queste trasformazioni, si scontra però col suo recupero in chiave strettamente finanziaria da parte del capitale.

Nota 3. Riprendendo termini un tempo noti di Marx ed Hegel e oggi divenuti quasi esoterici, l’aspetto utopico è in sé latente come possibile nella situazione, non ancora giunto a manifestazione), ma non è per sé (cioè non si è ancora realizzato come presupposto di una forma di vita complessiva). Nessun determinismo e nessuna mitica negazione della negazione porta dall’in sé al per sé, ma solo l’iniziativa insorgente che produce uno scarto, un evento differenziale rispetto alla situazione data. E’ per questo che Lefebvre –diversamente da Althusser- non sacrifica a “un pensiero struttural-funzionalista”(134) la dimensione soggettiva ed esistenziale della politica.

L’idea del non-lavoro si presenta come una utopia concreta. Secondo Lefebvre esiste su questo punto una differenza tra Marx ed Engels. Per Marx “il senso e il fine del lavoro è solo il non-lavoro”, per Engels si tratta “di rendere il lavoro libero e attraente”(87-88). In effetti da queste prospezioni utopiche si può ricavare un’idea di attività e di opera, che -diceva Arendt- col lavoro prometeico e fabbrile non ha più molto in comune, mentre ha invece affinità col gioco e con la creazione artistica ed estetica del mondo e della propria forma di vita. L’automazione –oggi ulteriore fonte di asservimento, perché rende il lavoro precario- contiene in sé il non lavoro come utopia concreta[5], tendenza possibile del presente. L’organizzazione dello spazio articola gerarchie di potere, diviene strumentale, come già nella Parigi di Haussmann: ma può essere ritorta contro se stessa. La Comune di Parigi fu tra l’altro un tentativo di riappropriarsi dello spazio, che Haussmann aveva sottratto ai ceti popolari: “Tentarono di riprenderne possesso, in una atmosfera di festa (guerriera, ma radiosa)”(137).


Note
[1] D’ora innanzi citato con numero di pagina tra parentesi nel testo. Cfr. anche Il diritto alla città, Ombre corte, Verona 2014.
[2] E’ anche lo spazio “informe e violentemente coercitivo delle periferie e delle banlieues”(47).
[3] Cfr. Marx, Il capitale, libro III, sez.7, cap. 48.
[4] G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, SugarCo, Milano 1990, p. 96.
[5] “L’utopia concreta è un concetto ripreso da E. Bloch, che più di recente è stato di grande rilievo anche nel pensiero di M. Abensour: “L’utopia concreta si fonda sul movimento di una realtà di cui essa scopre le possibilità. In senso dialettico il possibile è una categoria della realtà, purché si considerino nel reale le sue tendenze, invece di fissarlo sul posto”(83).

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