Print Friendly, PDF & Email

contropiano2

La rivoluzione in Occidente e la guerra di posizione

Per un nuovo paradigma della rivoluzione oggi e qui

di Raul Mordenti

Gramsci2 720x3000. Ringrazio molto gli organizzatori non solo per l’invito ma specialmente per il tema che mi è stato assegnato: “La rivoluzione in Occidente”.

Forse, è ora che ne parliamo e che – soprattutto – ci pensiamo, e ci pensiamo seriamente. Io credo che la fase storica che viviamo, la fase della crisi del capitale globalizzato e, dunque, della fine di ogni possibile tratto egemonico del capitalismo (una fine ben rappresentata dalla persona stessa di Trump) ci spinga, ci costringa ad una simile riflessione sulla rivoluzione, cioè su come l’umanità associata possa fuoruscire dal capitalismo prima che il capitalismo metta in atto la catastrofe globale che porta nel suo seno.

Insomma, non è più il tempo del sensato consiglio che – a quanto si dice – risale a Togliatti: “Alla rivoluzione bisogna pensarci sempre e non bisogna nominarla mai”.

No, ora è il tempo di pensarla e di nominarla, di nominarla per poterla pensare, e viceversa di ripensare concretamente la rivoluzione, fuori dalla nostalgia e dai dogmatismi, per potere tornare a nominarla, fra le masse, facendone la nostra forza (d’altronde – forse non ce ne rendiamo conto abbastanza – è la proposta concreta della rivoluzione la vera e la sola forza dei comunisti).

 

1. In questo sforzo impervio quanto urgente noi abbiamo tuttavia un vantaggio, e questo vantaggio è rappresentato dal pensiero di Gramsci, che è il massimo innovatore del concetto di rivoluzione e il massimo teorico della rivoluzione in Occidente (le due cose sono evidentemente legate).

Chiarisco subito che per “Occidente” non si deve intendere, e non intenderò, un dato geografico bensì un dato storico e socio-economico, cioè una situazione di pieno sviluppo capitalistico. In questo senso la “rivoluzione in Occidente” è colta da Gramsci nella sua differenza sostanziale con la “rivoluzione in Oriente”, dove per Oriente egli intende evidentemente l’esperienza sovietica – e credo che dobbiamo assumere fino in fondo questo punto, che mi appare rilevantissimo se pensiamo al contesto storico-politico e personale della riflessione gramsciana.

 

2. Il concetto di rivoluzione in Occidente in Gramsci è sempre strettamente connesso al concetto di “guerra di posizione”, direi che sono due facce della stessa medaglia (e dico subito, per non tornarci più, che la “guerra di posizione” non ha nulla di riformistico o di attenuato, insomma è “di posizione” o “di assedio” o “di trincea” ma è e resta una guerra).

Gramsci ne parla specialmente nel paragrafo intitolato “Passato e presente. Passaggio dalla guerra manovrata (e dall’attacco frontale) alla guerra di posizione anche nel campo politico”, che si legge nel Quaderno 6 (§ 138, p.801), un Quaderno miscellaneo datato da Gerratana al 1930-32; e poi ancora nel paragrafo “Guerra di posizione e guerra manovrata o frontale”, nel Quaderno 7 (§ 16, p. 865), un Quaderno intitolato da Gerratana “Appunti di filosofia II e Miscellanea”, e datato, dallo stesso Gerratana al 1930-31.

Il tema era inoltre già contenuto nel § 44 del Quaderno 1, un paragrafo densissimo, di quelli che Gramsci scrive di getto non appena (nel febbraio del 1929) ha la possibilità di scrivere (dopo oltre due anni di detenzione) e dunque può mettere finalmente su pagina la folla di pensieri che lo aveva agitato e su cui aveva riflettuto da anni, così che quelle prime pagine (ora “testi A” nell’edizione Gerratana) contengono quasi ancora come involti in nuce tantissimi temi dei Quaderni, se non l’intera opera.

Il “passaggio dalla guerra manovrata (e dall’attacco frontale) alla guerra di posizione” è definito da Gramsci nel Quaderno 6 (§ 138, p. 801) addirittura “la quistione di teoria politica la più importante (…) e la più difficile  ad essere risolta giustamente” (p. 801).

Non è dunque possibile sottovalutare la centralità che Gramsci attribuisce a questa questione.

 

3. La questione, come spesso (o forse: come sempre) accade nei Quaderni, è legata al dibattito nell’Internazionale e in URSS, e viene fatta risalire al problema della “rivoluzione permanente” di Bronstein (così Gramsci chiama Trotzky per sfuggire alla censura fascista), oggetto qui di un giudizio durissimo di Gramsci:

“Bronstein, che in un modo o nell’altro, può ritenersi il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta”.

Non ci interessa qui discutere se l’interpretazione di rivoluzione permanente data da Gramsci sia esatta; ma notiamo che il concetto si trova già in Marx nella Questione ebraica del 1844, quando – di fronte alle rivoluzioni borghesi – Marx sottolinea che la rivoluzione non può risolversi in un unico atto (insomma evoca ciò che noi chiameremmo la processualità della rivoluzione) e che, di là dal mutamento istituzionale, la rivoluzione deve proseguire per trasformare i rapporti sociali ed economici, fino a eliminare ogni forma di sfruttamento e di alienazione; e ciò richiede tempi lunghi, richiede una “permanenza”, appunto, della rivoluzione, che per Marx non può essere l’attimo di una rivolta. Trotzky riprende questo concetto marxiano dopo la rivoluzione russa del 1905 e teorizza il concetto di rivoluzione permanente (in Bilanci e prospettive, poi approfondito nelle Lezioni dell’ottobre, del 1924, e ne La rivoluzione permanente, del 1930).

Ora in Trotzky il concetto di rivoluzione permanente riguarda non la lunga durata bensì la necessità di saltare le fasi intermedie, di attesa o consolidamento – chiamiamole così – della rivoluzione, in generale le fasi proprie della rivoluzione borghese (ad es. la fase della democrazia), ciò che concretamente significava in Russia negare la fase di un’alleanza operai-contadini sul tipo della NEP. La costruzione del socialismo doveva invece per lui essere immediata: da qui l’accusa di avventurismo che risuona nelle parole di Gramsci

Ed è chiarissimo che Gramsci pensa ai problemi della costruzione del socialismo in URSS (sotto il pallido velo del riferimento a questioni militari), condividendo la teoria staliniana e dell’Internazionale del tempo a proposito dell’inasprirsi della lotta di classe dopo la conquista del potere, quando scrive:

“La guerra di posizione domanda enormi sacrifizi a masse sterminate di popolazione; perciò è necessaria una concentrazione inaudita dell’egemonia e quindi una forma di governo più «intervenzionista», che più apertamente prenda l’offensiva contro gli oppositori e organizzi permanentemente l’«impossibilità» di disgregazione interna: controlli d’ogni genere, politici, amministrativi, ecc., rafforzamento delle «posizioni» egemoniche del gruppo [classe, NdR] dominante, ecc. Tutto ciò indica che si è entrati in una fase culminante della situazione politico-storica, poiché nella politica la «guerra di posizione», una volta vinta, è decisiva definitivamente.”

 

4. Dunque, al contrario di quanto spesso pensiamo, la battaglia decisiva non è quella eroica della “guerra di movimento”, cioè dell’assalto al potere magari armi alla mano, ma – al contrario – è quella lunga e paziente (la parola “pazienza” la troveremo fra poco) della “guerra di posizione”, definita anche “guerra d’assedio”:

“Nella politica cioè sussiste la guerra di movimento fino a quando si tratta di conquistare posizioni non decisive e quindi non sono mobilizzabili tutte le risorse dell’egemonia e dello Stato, ma quando, per una ragione o per l’altra, queste posizioni hanno perduto il loro valore e solo quelle decisive hanno importanza, allora si passa alla guerra d’assedio, compressa, difficile, in cui si domandano qualità eccezionali di pazienza e di spirito inventivo. Nella politica l’assedio è reciproco (…).” (p. 802)

Anche nel paragrafo “Guerra di posizione e guerra manovrata o frontale” del Quaderno 7 (§ 16, p. 865) il punto di partenza è Trotzky (o meglio: la critica di Gramsci a Trotzky) e il riferimento alla situazione socio-economica della Russia si fa evidente; il paragrafo è cruciale e dunque va letto (quasi) interamente: 

“§ 〈16〉. Guerra di posizione e guerra manovrata o frontale. È da vedere se la famosa teoria di Bronstein sulla permanenza del movimento non sia il riflesso politico della teoria della guerra manovrata (ricordare osservazione del generale dei cosacchi Krasnov) [è l’autore del libro-romanzo Dall’aquila imperiale alla bandiera rossa, Salani, 1929 in cui si discute la questione sotto il profilo militare NdR], in ultima analisi il riflesso delle condizioni generali-economiche-culturali-sociali di un paese in cui i quadri della vita nazionale sono embrionali e rilasciati e non possono diventare «trincea o fortezza». In questo caso si potrebbe dire che Bronstein, che appare come un «occidentalista» era invece un cosmopolita, cioè superficialmente nazionale e superficialmente occidentalista o europeo.

Invece Ilici [Lenin, NdR] era profondamente nazionale e profondamente europeo. Bronstein nelle sue memorie ricorda che gli fu detto che la sua teoria si era dimostrata buona dopo… quindici anni (…)” (pp. 865-866).

Ricorda infatti Trotzky, in La mia vita …, che “Lunaciarskj nella sua maniera imprecisa a trasandata” (sic!), lo aveva accusato di essersi sbagliato anticipando di 15 anni la rivoluzione socialista. Radek riprese la medesima critica a Trotzky, una critica che Gramsci conosceva dunque molto bene e che riproduce qui. Riprendo la citazione:

“In realtà la sua teoria, come tale, non era buona né quindici anni prima né quindici anni dopo: come avviene agli ostinati, di cui parla il Guicciardini, egli indovinò all’ingrosso, cioè ebbe ragione nella previsione pratica più generale; come a dire che si predice che una bambina di quattro anni diventerà madre e quando lo diventa a venti anni si dice «l’avevo indovinato», non ricordando però che quando aveva quattro anni si voleva stuprare la bambina sicuri che sarebbe diventata madre.”

Insomma, con questa aspra metafora, Gramsci ci dice che in politica (come peraltro nel gioco degli scacchi, in cui Lenin eccelleva) i tempi sono tutto. A questo proposito si potrebbe notare che anche l’industrializzazione forzata staliniana è in realtà l’attuazione di una proposta di Trotzky, fatta però… una dozzina di anni dopo, nel ’28-’32, quando il consolidarsi del potere sovietico convinse Stalin che si poteva abbandonare la NEP, cioè l’alleanza con vasti strati contadini, un’alleanza che se fosse stata abbandonata nel ’20 avrebbe condotto alla catastrofe il potere sovietico.

 

5. Prosegue Gramsci:

“Mi pare che Ilici aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 17, [e questa è la conferma che per “Oriente” Gramsci intende la Russia sovietica] alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente, dove (…) in breve spazio gli eserciti potevano accumulare sterminate quantità di munizioni, dove i quadri sociali erano di per sé ancora capaci di diventare trincee munitissime. Questo mi pare significare la formula del «fronte unico» (…).”

E qui non posso non pensare all’incontro personale fra Lenin e Gramsci, che avvenne nel novembre del 1922, e su cui la nostra storiografia comunista, chissà perché, ha sorvolato troppo.

Ma cosa era la formula del «fronte unico» citata da Gramsci? La politica del «fronte unico» fu promossa da Lenin al III Congresso della Internazionale Comunista, e trovò la sua prima espressione in Europa nella Lettera aperta rivolta nel gennaio 1921 dal Partito Comunista di Germania (KPD) agli altri partiti operai (SPD, USPD e KAPD) e ai sindacati; la lettera faceva appello ad azioni comuni per le immediate rivendicazioni economiche e salariali degli operai, per il disarmo e lo scioglimento delle formazioni paramilitari borghesi e la costituzione di organizzazioni proletarie di difesa, qualcosa di simile ai nostri ‘Arditi del popolo’. L’appello, respinto dalle dirigenze dei tre partiti, fu allora rivolto dai comunisti alle organizzazioni di base di quegli stessi partiti, con l’invito a discutere insieme alcune azioni comuni.

“I partiti comunisti  – dicevano le Tesi del III Congresso della Internazionale Comunista –debbono avanzare rivendicazioni il cui soddisfacimento costituisce un bisogno immediato e improrogabile per la classe operaia (…)”, (dunque si proponeva di impegnarsi anche in rivendicazioni non necessariamente rivoluzionarie).

Le stesse Tesi raccomandavano ai partiti comunisti di rivolgere la più grande attenzione agli impiegati, agli intellettuali, e in generale alla piccola borghesia urbana e rurale, per cercare di schierarli in un “fronte unico” a fianco del proletariato. Infine, i comunisti dovevano compiere ogni sforzo affinché le lotte rivendicative potessero tradursi in risultati di carattere organizzativo, cioè nella formazione di organismi unitari di massa permanenti nelle fabbriche e fuori (a cominciare dai consigli di fabbrica, ecc.).

Come si vede il fronte unico è una lotta anche per la democrazia e prevede una politica di alleanze vasta; è un’anticipazione di quella che sarà la grande alleanza antifascista, cioè il VII Congresso dell’Internazionale del luglio-agosto 1935 (la linea che ci permise di sconfiggere il nazifascismo), e prima ancora è la stessa linea politica delle Tesi di Lione di Gramsci e Togliatti del 1926 con cui si superò il bordighismo. E sarà questa la trama della politica togliattiana, della Resistenza, della Costituzione e della costruzione del Partito comunista di massa in Italia.

Faccio invece notare che quella linea, che forse avrebbe potuto impedire la vittoria del fascismo in Italia, non solo non fu subito applicata ma trovò una ferma opposizione nel Partito italiano, al tempo bordighista, e che toccò a Terracini esprimere tale opposizione del PCd’I, incorrendo nelle reprimende durissime di Lenin e dello stesso Trotzky.

Torniamo a leggereil § 16 del Quaderno 7. Prosegue Gramsci:

“Solo che Ilici non ebbe il tempo di approfondire la sua formula, pur tenendo conto che egli poteva approfondirla solo teoricamente, mentre il compito fondamentale era nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza rappresentati dagli elementi di società civile ecc. In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolìo dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale.”

Faccio notare che la strana parola “gelatinosa” compare in un altro luogo del Gramsci pre-carcerario, in una lettera da Vienna a Zino Zini del 1 gennaio 1924 in cui Gramsci scrive:

“Io sono persuaso che la situazione odierna sia più favorevole alla buona riuscita della rivoluzione di quanto fosse quella del ’19-’20. […] Con un partito com’era il socialista, con una classe operaia che in generale vedeva tutto roseo e amava le canzoni e le fanfare più dei sacrifici”, anche un eventuale successo sarebbe stato “spazzato via irrimediabilmente” dalla controrivoluzione. Ora, dopo la vittoria del fascismo, le illusioni ottimistiche erano crollate ed erano stati distrutti i legami tradizionali che tenevano insieme  il mondo gelatinoso italiano” (cit. in Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria, 2011, p. 46).

Naturalmente non c’è in queste parole nessun “tanto peggio tanto meglio”, a cui Gramsci, come tutti i comunisti, fu sempre del tutto estraneo. C’è invece fortissima la consapevolezza della necessità di superare i limiti dello spontaneismo e specialmente di quello che Gramsci chiama “economismo”, che sottovaluta la portata e la centralità della politica per il proletariato, un errore che Gramsci vede anche in Rosa Luxemburg. Cito solo un passo di questa vasta polemica contro l’ “economismo” (su cui Gramsci si sofferma in diversi luoghi dei Quaderni), riferito al sindacalismo teorico (cioè all’anarco-sindacalismo) che:

“si riferisce a un raggruppamento subalterno, al quale con questa teoria si impedisce di diventare mai dominante, di uscire dalla fase economico-corporativa per elevarsi alla fase di egemonia politico-intellettuale nella società civile e diventare dominante nella società politica.” (Quaderno 4, § 38, p. 460).

E, se leggiamo bene, nel già citato § 16 del Quaderno 7, Gramsci dice anche di più: dice addirittura che la geniale politica indicata da Lenin – a rigore – non poteva essere portata avanti in Russia (“egli poteva approfondirla solo teoricamente, mentre il compito fondamentale era nazionale”). Quella politica richiedeva infatti condizioni storico-politiche diverse da quelle dell’Oriente, cioè rappresentava un’indicazione preziosa specie per i comunisti nell’Occidente capitalistico, e non credo di forzare il testo gramsciano dicendo che qui è quasi prefigurata la linea della “via italiana al socialismo” (abbiamo letto poc’anzi: “il compito fondamentale era nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza rappresentati dagli elementi di società civile”). Cos’altro sono le Tesi di Lione, e soprattutto i Quaderni, se non una simile ricognizione nazionale riferita all’Italia e alla sua storia?

 

6. Domandiamoci: in che senso la rivoluzione è all’ordine del giorno, è attuale, anzi – come io amo dire – essa è necessaria (il che non vuol dire affatto che essa sia inevitabile, imminente o facile)? La risposta di Gramsci ha fondamenti rigorosamente marxisti, e (fatto non frequente nei Quaderni) propriamente economici, cioè connette la necessità storica della rivoluzione  a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive e alla contraddizione esplosiva che esiste fra tale sviluppo e i rapporti di produzione, cioè l’assetto capitalistico-borghese; più precisamente ancora, Gramsci connette la rivoluzione al momento in cui le controtendenze capitalistiche alla crisi (che consistono nell’incremento del plusvalore relativo) non sono più in grado di fermare la caduta tendenziale del saggio del profitto:

“Quando si può immaginare che la contraddizione giungerà a un nodo di Gordio, insolubile normalmente, ma domandante l’intervento di una spada di Alessandro? Quando tutta l’economia mondiale sarà diventata capitalistica e di un certo grado di sviluppo: quando cioè la «frontiera mobile» del mondo economico capitalistico avrà raggiunto le sue colonne d’Ercole. Le forze controperanti della legge tendenziale e che si riassumono nella produzione di sempre maggiore plusvalore relativo hanno dei limiti, che sono dati, per esempio, tecnicamente dall’estensione della resistenza elastica della materia e socialmente dalla misura sopportabile di disoccupazione in una determinata società. Cioè la contraddizione economica diventa contraddizione politica e si risolve politicamente in un rovesciamento della praxis [cioè in una rivoluzione, NdR].” (Quaderno 10, § 33, p. 1279)

C’è qualcosa che somiglia ai nostri anni in questa descrizione gramsciana?

 

7. Occorre dire che la concezione gramsciana di rivoluzione è anche frutto di una decisiva innovazione a proposito del concetto di Stato, e della sottolineatura della cosiddetta ”società civile”, la quale è il luogo della lotta per l’egemonia. Scrive nel Quaderno 6, § 88, pp.763-764:

“nella nozione generale di Stato entrano elementi che sono da riportare alla nozione di società civile (nel senso, si potrebbe dire, che Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione)”.

Ha fatto così la comparsa nel nostro ragionamento il termine centrale di tutta l’elaborazione gramsciana, quello per cui oggi il nostro Gramsci è studiato in tutto il mondo (direi: in tutto il mondo meno che in Italia): il concetto di egemonia.

Gramsci ne parla in modo al tempo stesso chiarissimo e concentrato in una lettera a Tania del 7 settembre 1931 (che Guido Liguori ha definito “un autoscatto”):

“Lo studio che ho fatto sugli intellettuali è molto vasto […] Questo studio porta anche a certe determinazioni del concetto di Stato che di solito è inteso come Società politica (o dittatura, o apparato coercitivo per conformare la massa popolare secondo il tipo di produzione e l’economia di un momento dato) e non come un equilibrio della Società politica con la Società civile (o egemonia di un gruppo sociale sull’intiera società nazionale esercitata attraverso le organizzazioni così dette private, come la chiesa, i sindacati, le scuole ecc.) e appunto nella società civile specialmente operano gli intellettuali”.

E ancora (Quaderno 4 § 49, p. 476):

“Gli intellettuali hanno una funzione nell’«egemonia» che il gruppo dominante esercita in tutta la società e nel «dominio» su di essa che si incarna nello Stato e questa funzione è precisamente «organizzativa» o connettiva: gli intellettuali hanno la funzione di organizzare l’egemonia sociale di un gruppo e il suo dominio statale, cioè il consenso dato dal prestigio della funzione nel mondo produttivo e l’apparato di coercizione per quei gruppi che non «consentono» né attivamente né passivamente o per quei momenti di crisi di comando e di direzione in cui il consenso spontaneo subisce una crisi. Da quest’analisi risulta un’estensione molto grande del concetto di intellettuali, ma solo così mi pare sia possibile giungere ad una approssimazione concreta della realtà.”

Dunque anche l’altro grande tema dei Quaderni, quello degli intellettuali, va letto tutto dentro questo problema della rivoluzione e dell’egemonia (dunque, diciamo en passant, che per questo motivo in esso non c’è nulla di culturalista o di idealistico).

Non abbiamo certo il tempo di analizzare qui il cruciale concetto di egemonia; diciamo solo che è concentrato in esso il cuore della concezione gramsciana di rivoluzione e la sua strepitosa innovazione; leggiamo (a proposito del Risorgimento) nel già citato densissimo § 44, del Quaderno 1, p.41:

“Ci può e ci deve essere una «egemonia politica» anche prima della andata al Governo e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso dà per esercitare la direzione o egemonia politica.”

Siamo dunque proprio all’inizio dei Quaderni, nel 1929; ma lo stesso argomento ritorna, sviluppato, in un “testo C” quasi alla fine dell’opera del carcere, nel § 24 del Quaderno 19, steso fra il febbraio 1934 e il febbraio 1935 (pp. 2010-2011), a conferma che si tratta di una nervatura fondamentale e costante del pensiero gramsciano:

“Un gruppo sociale [cioè una classe, NdR] può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche «dirigente» [cioè egemonica, NdR].”

Poi prosegue tornando all’esempio dei moderati nel Risorgimento e sul trasformismo (descritto assai originalmente: ma di questo converrà parlare altrove), e conclude:

“Dalla politica dei moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere una attività egemonica anche prima dell’andata al potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una direzione efficace: appunto la brillante soluzione di questi problemi ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effettuato, senza «Terrore», come «rivoluzione senza rivoluzione» ossia come «rivoluzione passiva» per impiegare un’espressione del Cuoco in un senso un po’ diverso da quello che il Cuoco vuole dire.”

 

8. Per concludere vorrei porre solo due problemi che mi sembrano aperti sulla via di ragionamento proposta e inaugurata (ma certo non esaurita) da Gramsci; d’altra parte sono convinto che problematizzare, trarne problemi, sia l’unico modo giusto per attualizzare il pensiero di Gramsci senza imbalsamarlo o tradirlo.

Il primo problema si può così formulare: se una classe deve costruire ed esercitare egemonia anche prima della presa del potere, e anzi se tale esercizio anticipato è addirittura una condizione necessaria perché una tale conquista del potere possa avvenire, allora non si può non chiedersi se la presa del potere in quanto tale resti, oppure no, centrale per i comunisti.

Mi domando, e vi domando se questa ossessione della conquista del potere statuale-governativo non abbia funzionato come un cane di pezza dietro a cui ha corso, stupido come un levriero, tanta parte del movimento operaio comunista, noi compresi; 

mi domando, e vi domando se in questo errore non abbia giocato un ruolo determinante il mito e la narrazione dell’Ottobre, anzi il suo storytelling (come abbiamo cercato di cominciare ad argomentare in occasione della riflessione sull’Ottobre proposta a Firenze dal nostro Partito);

mi domando, e vi domando se non sia erronea questa identificazione dogmatica della rivoluzione con la conquista di chissà quale Palazzo d’Inverno, anche in società dell’ “Occidente” come la nostra in cui il potere sta quasi ovunque meno che in un palazzo governativo: sta nel comando capitalistico in fabbrica, sta nelle banche, sta nei mass media, sta nel reazionario senso comune capitalistico, nel patriarcato, nel maschilismo, nel razzismo, nell’omofobia, sta nei rapporti sociali capitalistici, etc. Direi che questa identificazione della rivoluzione con la conquista del Palazzo è il portato di una quadruplice, surrettizia ed erronea identificazione: a) l’identificazione della rivoluzione con la presa del potere, b) l’identificazione del potere con il controllo dello Stato, c) l’identificazione dello Stato con il governo, d) l’identificazione del governo con il governo dei comunisti e del loro Partito.

Noi siamo tutti maestri nel fare l’autocritica… degli altri, e oggi siamo tutti bravi a dire che il potere dei comunisti in URSS o nei Paesi dell’Est aveva assai poco a che fare con la rivoluzione e con il comunismo. Ma pensiamo per una volta a noi, pensiamo se, in applicazione dello schema “rivoluzione = presa del potere da parte dei comunisti” (uno schema classico di cui – lo vedo dalle vostre facce – stentiamo ancora a liberarci), noi di Rifondazione avessimo preso il potere, magari per un congiuntura favorevolissima o per un’invasione degli UFO, e poco importa se questo potere lo avessimo preso vincendo le elezioni o con una insurrezione armata (né so quale delle due ipotesi faccia più ridere).

Ebbene avrebbe avuto qualche somiglianza con la rivoluzione un Governo, sia pure monocolore, del PRC? Magari con Bertinotti o Cossutta alla Presidenza del Consiglio, Ferrero al Lavoro, Loredana o Vito Meloni alla Pubblica Istruzione, perfino Mordenti (perché no? mi piacerebbe!) all’Università, e magari – per non farci mancare niente – Gennaro Migliore agli Interni, Boccadutri alle Finanze, Oggionni ai Beni Culturali e Sansonetti direttore della “Pravda”. Noi ci ridiamo, vero? Eppure molti dei presenti hanno votato (e non un secolo fa) Migliore come segretario del Partito e Sansonetti come direttore di “Liberazione”. Noi oggi ci ridiamo, per non piangere.

Ebbene, compagni, le masse popolari su questa ipotesi ci hanno riso prima di noi, e per questo ci hanno per ora abbandonato.

Mi domando, e vi domando, se non sia allora il caso di criticare in radice lo schema che ho definito “classico”, cioè “rivoluzione = presa del potere da parte dei comunisti”, e magari ragionare sull’ipotesi avanzata da Franco Rodano di rivoluzione come esercizio oggi e qui del potere proletario o su quella (alquanto diversa) che John Holloway (sulla base del movimento dei movimenti dei primi anni 2000) ha cominciato a pensare in Cambiare il mondo senza prendere il potere  (il titolo del suo libro del 2002).

Un secondo e ultimo problema: nel ragionamento gramsciano sulla rivoluzione in Occidente come guerra di posizione (che ci siamo sforzati di delineare) è fortissima la sottolineatura del momento soggettivo e – come abbiamo visto – nulla è più lontano da quel progetto dello spontaneismo economicista. In questa sottolineatura del momento soggettivo nella rivoluzione Gramsci si conferma essere essenzialmente un leninista. Direi anzi che il partito comunista gramsciano, in quanto organo, centro e motore dell’egemonia proletaria, è più che mai necessario, ed è  – per certi aspetti – un iper-partito, perché è chiamato a esprimere al massimo grado l’autonomia politica, culturale, morale, organizzativa etc. del proletariato.

Ma la domanda è: questo necessario e centrale momento soggettivo proletario può ancora assumere la forma del partito leninista, dei partiti comunisti che abbiamo conosciuto? O non deve valere anche per il partito, cioè per il momento soggettivo della rivoluzione, il ragionamento fatto a proposito dell’ “Occidente”, cioè delle società complesse e stratificate in cui la società civile è sviluppata e da conquistare egemonicamente? Non c’era forse una evidente simmetria fra la semplice e rigida forma del partito leninista come è delineato nel Che fare? e la semplicità – chiamiamola così – delle società dell’ “Oriente” in cui “lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa”? Così che anche il momento soggettivo della nostra rivoluzione (che – come vedete – ho qualche difficoltà a definire ancora “partito”) sembra dover assumere forme assai stratificate e complesse, per renderlo capace di essere altrettanto pervasivo, diffuso e complicato della società civile che si tratta di egemonizzare, luogo per luogo, situazione per situazione e – per usare una terminologia gramsciana – affrontando e conquistando una per una la “robusta catena di fortezze e di casematte”.

Francamente, se dovessi sforzarmi di immaginare un simile inedito partito per la rivoluzione in Occidente, io penserei piuttosto  a un sistema permanente e organizzato di movimenti politici di massa a egemonia comunista. La lista “Potere al popolo” comincia a somigliare a questo sogno: vediamo di non rovinarlo.

Come vedete, tante domande e poche risposte. Ma ci sono fasi storiche, e la nostra è una di queste, in cui è più importante porsi le domande giuste, per impervie e inedite che siano, che non attardarsi nelle risposte dogmatiche del passato che non ci servono più.


Relazione di Raul Mordenti al convegno “Antonio Gramsci – pensatore e rivoluzionario”

Comments

Search Reset
0
Mario Galati
Thursday, 15 February 2018 09:14
Ci sono cose interessanti nell'articolo, ma se queste sfociano nell'assunto che la guerra di posizione e la concezione del partito in Gramsci, la posizione di Togliatti, possano avere qualcosa in comune con le concezioni di Holloway, tutto frana rovinosamente.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Eros Barone
Wednesday, 14 February 2018 19:19
L'articolo di Mordenti, nonostante taluni aspetti pregevoli (l'autore è uno studioso serio di Gramsci) obbedisce sostanzialmente ad un'impostazione di stampo kautskiano e togliattiano. Un allargamento del raggio dell'indagine, che nell'articolo è così ristretto da nuocere ad una piena intelligibilità delle questioni in esso trattate, al periodo, di poco antecedente allo scoppio della prima guerra mondiale, in cui si svolse il celebre dibattito fra Kautsky e la Luxemburg sulla strategia del movimento operaio, è necessario per chiarire la portata sia teorica che pratica delle soluzioni proposte ad una questione - la cosiddetta "rivoluzione di maggioranza" - che aveva costituito l’asse del pensiero dell’ultimo Engels. Nel 1910 Kautsky sostenne infatti che la classe operaia tedesca avrebbe dovuto adottare nella lotta contro il capitale una ‘Ermattungstrategie’, una ‘strategia del logoramento’. Egli, polemizzando con la Luxemburg, aveva esplicitamente contrapposto questa concezione a quella che egli chiamava ‘Niederwerfungstrategie’, cioè ‘strategia del rovesciamento’ (si veda nell'articolo di Mordenti il classico 'topos' revisionista della impossibilità di identificare, in Occidente, la rivoluzione con la presa del Palazzo d'Inverno). Questo dibattito costituì l’equivalente socialista del grande dibattito sulla storia militare che aveva coinvolto la Germania di Guglielmo II e la stessa terminologia era mutuata da Hans Delbrück, uno storico della guerra molto apprezzato da Engels e da Mehring. Nella prospettiva kautskiana della ‘Ermattungstrategie’ - così come nella ‘guerra di posizione’, teorizzata da Gramsci negli anni ’30 - il ruolo predominante è attribuito alla conquista dell’egemonia culturale, cioè al convincimento ideologico delle masse. Certamente, in una simile prospettiva il pericolo dell’avventurismo scompare, ma, insieme con esso, scompare anche il momento della distruzione della macchina dello Stato borghese, che per Marx, Engels e Lenin è inseparabile dalla rivoluzione proletaria. Secondo i princìpi del materialismo storico, la guerra di posizione corrisponde alla fase in cui un partito rivoluzionario cerca di conquistare ideologicamente le masse alla causa del socialismo, fase che precede quella in cui esso le guiderà politicamente verso l’insurrezione contro lo Stato borghese. In questo senso l’egemonia verrebbe esercitata nella società civile per la formazione di un blocco sociale degli sfruttati alternativo al capitalismo, mentre la dittatura verrebbe istituita nei confronti degli sfruttatori dopo la distruzione dell’apparato statuale che ne garantiva il dominio. L’esperienza storica ha dimostrato che la prospettiva della guerra di posizione, connessa alla dicotomia fra Occidente ed Oriente (con tutto ciò che ne consegue per quanto riguarda il modo di intendere sia il binomio ‘società civile-Stato’ sia il binomio ‘coercizione-consenso’), è sfociata in un vicolo cieco - così come tutta la tradizione teorico-politica che ad essa si ispira -. Vale la pena di osservare che il pessimismo storico-politico, di cui la formula gramsciana della "guerra di posizione" è, nel contempo, figlia e madre, tende inesorabilmente a degradare nell’adesione al liberalismo (vedi la sequenza PCI-PDS-DS-PD). Riproporre l'interpretazione gramsciana della guerra di posizione come via maestra della rivoluzione in Occidente significa soltanto 'piétiner sur place', ossia girare a vuoto in un vicolo cieco. D’altra parte, il pessimismo storico-politico è il tratto distintivo del cosiddetto ‘marxismo occidentale’ (rappresentato dalla scuola di Francoforte, da un certo Gramsci, dalla maggior parte degli esponenti delle due principali scuole marxiste fra anni ’60 ed anni ’70, quella italiana di Della Volpe e quella francese di Althusser). Non è un caso, bensì la necessaria conseguenza teorico-politica di una posizione sbagliata, se ciò che ha accomunato in una sorta di ‘discordia concors’ queste diverse tendenze è stato l’“anti-engelsismo”, ossia il rifiuto di riconoscere il carattere originale e fondamentale dell’apporto di Engels alla elaborazione, allo sviluppo e all’approfondimento della teoria marxista. Infine, un appunto storico-filologico: la frase attribuita a Togliatti, "pensarci sempre e non parlarne mai", risale al repubblicano borghese Léon Gambetta ed esprime l'ostilità francese verso il II Reich dopo la guerra del 1870, nonché la rivendicazione dell'Alsazia-Lorena strappata alla Francia da Bismarck. Ammesso che Togliatti se ne sia servito per indicare l'obiettivo della rivoluzione proletaria, andrebbe riformulata in questi termini: "parlarne il meno possibile e non pensarci più".
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit