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manifesto

Il secolo CHE BRUCIA

L'EVENTO DI UNA POLITICA «SENZA PARTITO»

di Fabio Raimondi

«L'ipotesi comunista» e «Il secondo manifesto per una nuova filosofia», gli ultimi due volumi di Alain Badiou. Ripensare i movimenti sociali e la prassi teorica a partire dalle esperienze, le sconfitte e l'eredità della Comune di Parigi, del Sessantotto e della Rivoluzione culturale

aristotele e platoneParlare di comunismo oggi è certo per molti il segno di una malattia inguaribile, di un'ostinazione a perseverare nell'errore che rende ridicoli o pericolosi. Come predica l'«anticomunismo americano» dagli anni Cinquanta, il comunismo, cioè lo stalinismo, è il Male. Per il filosofo francese Alain Badiou, ormai uno dei pochi che prova pervicacemente a «ri-pensare» il comunismo, parlarne è invece il segno tangibile del coraggio, la «virtù» politica odierna contraria all'«espressione di sé», a cui costringe il capitalismo contemporaneo.

Virtù che si manifesta nella fedeltà all'«Idea comunista» e al fatto che non ci sia vita senza Idee, rifiutando sia l'opinione che grida «vivi solo per la tua soddisfazione e, dunque, vivi senza Idee» sia il «terrorismo linguistico», che trasforma in sovversivo chiunque osi pronunciare certe parole. Con Saint-Just, Badiou ricorda che chi non vuole né la virtù né il terrore vuole solo la corruzione.

Ne L'hypothèse communiste (Lignes, pp. 208, euro 15), raccolta di scritti più e meno recenti, il comunismo è un'ipotesi, i cui fallimenti, dando luogo dialetticamente, come nelle scienze, alle condizioni per il suo ripensamento, sono considerati tappe di un cammino di costruzione, esaminato analizzando tre episodi: la Comune di Parigi del 1871, il Maggio '68 francese, ma più in generale il decennio 1968-78 (evento complesso e stratificato) e la Rivoluzione culturale cinese del 1965-76.

Oltre il muro del ruolo
Il comunismo ha innanzitutto a che fare con la fine dei «ruoli» ossia con un tipo di «società ugualitaria che, tramite il proprio movimento, abbatte i muri e le separazioni» e, dunque, con una società il cui modello di organizzazione politica «non è la gerarchia dei ruoli». Rispetto a una «vecchia concezione» della politica, secondo la quale esiste «un agente storico «oggettivo» che porta la possibilità dell'emancipazione» e che, dunque, deve solo essere organizzato (dal partito, dalle organizzazioni di massa, dal sindacato.), si fa strada una nuova concezione, che non accetta «di lasciare ciascuno al proprio posto» e che, ricercando «percorsi inediti, incontri impossibili, riunioni tra persone che normalmente non si parlano», tende verso «uno sconvolgimento delle classificazioni sociali» che dovrebbe portare non a conservare «ciascuno al proprio posto, ma, al contrario, a organizzare degli spostamenti, materiali e mentali, stupefacenti».

L'ipotesi comunista è che, una volta trovata la forma organizzativa propria di un tale processo, si possa arrivare a un «mondo liberato dalla legge del profitto e dall'interesse privato»: forma che non può essere né «il movimento "puro", che non risolve nessuno dei problemi che contribuisce a porre» né «la forma partito marxista-leninista, a cui bisogna rinunciare» dopo la fallimentare «sequenza staliniana».

Il «comunismo che viene» esige un'organizzazione nuova ed è per questo che non possiamo non dirci contemporanei del '68. Un'idea che oggi, di fronte al «disastro» economico-finanziario che ha generato la crisi attuale, si rinnova al fine di «organizzare una politica di natura totalmente diversa, che comincia con l'alleanza tra i nuovi proletari venuti dall'Africa o da altrove e gli intellettuali eredi delle battaglie politiche degli ultimi decenni; alleanza che non intratterrà alcun rapporto organico con i partiti istituzionali e il sistema elettorale e istituzionale che li fa vivere».

Convergenze generazionali

La Rivoluzione culturale mostra, dal canto suo, che non è «più possibile assegnare né le azioni rivoluzionarie di massa né i fenomeni organizzativi alla stretta logica della rappresentazione di classe», quindi al «partito-Stato come produzione centrale dell'attività politica rivoluzionaria». Ne furono prova le «organizzazioni culturali permanenti», che avevano un compito di critica verso il partito e nelle quali vigeva «la democrazia di massa e non l'autorità del partito», come durante la Comune di Parigi, per quanto spettasse poi al partito, cioè alla componente capace di imporsi al suo interno, la parola finale sulle loro critiche.

Questa contraddizione - per Badiou, caratteristica principale della Rivoluzione culturale - dipese dal tentativo di Mao e dei suoi di ricorrere «alla mobilitazione politica di massa, ammettendo anche forme non controllate di rivolta e di organizzazione, ma di riportarle tutte dentro lo spazio generale del partito-Stato». Crocevia tra il «vecchio» e il «nuovo» l'esperienza cinese è importante proprio per questo suo limite, come dimostra anche l'istituzione delle «guardie rosse» e la «barbarie» cui diede luogo il loro comportamento incontrollato. Ne segue che «ogni organizzazione politica deve essere transgenerazionale e che organizzare la separazione politica della gioventù è sbagliato». Anzi è necessario «per la forza anarchica e violenta dei giovani, riconoscere sopra di loro un'autorità "di massa"».

La Comune di Shanghai fu, in questo quadro, «la traccia senza futuro di una nuova articolazione tra iniziativa politica popolare e il potere dello Stato», perché anziché porsi, tra esigenze di trasformazione e di conservazione, nel luogo della loro contraddizione per creare la «tripla unione», l'alleanza tra giovani rivoluzionari, vecchi quadri e militari, cercò di scioglierla a favore dei primi. In altri casi, come nel Wuhan, la «guerra della fazioni» portò sull'«orlo della guerra civile», cosa che Mao l'«uomo del partito-Stato» non voleva accadesse, perché dello Stato egli cercava «il rinnovamento, anche violento, non la distruzione».

Il suo culto post-mortem, dimostra proprio che «"Mao" è un nome intrinsecamente contraddittorio nel campo della politica rivoluzionaria. Da un lato, il nome supremo del partito-Stato (...); dall'altra, il nome di ciò che, nel partito non è riducibile a burocrazia di Stato». Aver vissuto la contraddizione come il reale, senza cedere alle sirene della logica o dell'ingenuità purista che ne desideravano lo scioglimento, fu la sua grandezza: l'idea è sempre, in senso etimologico, paradossale.

Potenza del soggetto

Infine, l'esempio della Comune di Parigi dice che oggi «ogni politica d'emancipazione deve farla finita col modello del partito o dei partiti e affermarsi come politica "senza partito", senza tuttavia ricadere nel modello anarchico», sempre in agguato, anche se proprio l'esperienza cinese mostra le difficoltà di «liberare realmente la politica dal partito-Stato». Si tratta allora, di compiere «un'operazione» chiamata «idea del comunismo» e che, a dispetto delle apparenze, non è esclusivamente intellettuale, ma «potenza affermativa» o «ideazione», come spiegato nel Second manifeste pour la philosophie (Fayard, pp. 158, euro 14), ottima sintesi, tra l'altro, di Logiques des mondes (Seuil), oltre che una dimostrazione di come la filosofia possa smettere di essere «predica moralizzante» e riattivi il suo rapporto con la verità, che si «origina sempre da un evento» ossia «dall'apparire di ciò la cui esistenza non era apparente».

L'ideazione ha bisogno di «tre componenti primitive: una politica, una storica e una soggettiva». La prima è «una verità politica: cioè una sequenza concreta e datata in cui sorgono, esistono e spariscono una pratica e un pensiero nuovi dell'emancipazione collettiva»: procedura che necessita di un «Soggetto» irriducibile all'individuo; la seconda indica la «dimensione storica di una verità», il suo essere localizzata nel tempo e nello spazio umani; la terza indica «la possibilità per un individuo di decidere di diventare parte di una procedura di verità politica» ossia di diventare un suo «militante»: questa scelta comporta «soggettivazione (ossia) il movimento tramite il quale un individuo fissa il posto di una verità rispetto alla propria esistenza e a quella del mondo». Ciò che Badiou chiama «Idea è una totalizzazione astratta dei tre elementi primitivi, una procedura di verità, un'appartenenza storica e una soggettivazione individuale: un'Idea è la soggettivazione di una relazione tra la singolarità di una procedura di verità e la rappresentazione della Storia»: una «incorporazione».

Presa di parola

L'Idea, dunque, non è solo astratta, perché è ciò che innesca «la possibilità, per un individuo, di comprendere che la sua partecipazione a un processo politico singolare è anche una decisione storica». È in questo senso che il l'Idea del comunismo non indica solo le dimensioni della politica, della storia e della soggettivazione, ma la loro «sintesi». Badiou arriva a dire che «l'Idea è ideologica», perché è l'«operazione immaginaria per mezzo della quale una soggettivazione individuale proietta un frammento del reale politico (l'evento a cui si è scelto di essere fedeli) nella narrazione simbolica di una Storia» rendendo così possibile la soggettivazione stessa. L'Idea cioè consente di continuare a rendere (o di far tornare a essere) visibile nella storia qualcosa di invisibile. E, come lo scritto sulla Comune di Parigi ricorda, «far esistere un inesistente», anche solo prendendo la parola, vuol dire iniziare a trasformare il piano dell'apparire politico facendovi irrompere un impensato (un supposto inesistente) e creare così un «possibile futuro».

Non solo l'ideologia è attiva politicamente, ma è anzi il viatico principale per ogni soggettivazione. L'Idea è un immaginario che produce, tramite la «potenza possibile del divenire-Soggetto», effetti nel reale (verità politica) e nel simbolico (narrazione storica).

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