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Marxisti e credenti
di Salvatore Bravo
Costanzo Preve fu hegelo-marxiano, egli testimoniò lungo la sua esistenza la necessità ontologica del dialogo. Con il dialogo si attraversano le divisioni ideologiche per ritrovarsi sul fondamento, mai definitivo, della verità. Quest’ultima si rivela nella parresia, ma non è mai “morta cosa”, perché a essa ci si deve sempre riaccostare per ridefinirla e ascoltarne la presenza. L’incomunicabilità è “assenza di pensiero” che la filosofia contribuisce a sanare. Le barriere sclerotizzano la parola e la confinano nel silenzio irrazionale.
La contrapposizione fra marxisti e credenti ha favorito il “potere” che si consolida nel guerreggiare delle opposizioni, le quali contribuiscono alla disgregazione del popolo. Tale condizione ha accompagnato la Guerra fredda e, con la fine del comunismo reale, si è ulteriormente incancrenita, poiché la sconfitta storica ha inoculato nei marxisti sopravvissuti la vergogna di essere tali. Il confronto necessita di “chiarezza emotiva”, per cui la vergogna è sicuramente un limite alla parola. Colui che porta l’impronta della sconfitta e la vive come una colpa non è nelle condizioni di dialogare. Solo la pari dignità dei dialoganti consente alla parola il confronto creativo e razionale:
“Per un confronto infatti occorre essere in due, e mentre i cristiani esistono ancora e si fanno sentire, i marxisti sembrano vergognarsi di esser rimasti tali, e non sembrano neppure essere riusciti a mantenere quella rete minima di contatti e di lavoro comune da cui nascono le “rivoluzioni scientifiche” ed i mutamenti di paradigmi. In proposito l’entusiasmo e la solidarietà verso la cosiddetta “teologia della liberazione” (fenomeno essenzialmente latino-americano) sono fenomeni assai positivi, ma non possono sostituire una riflessione che si voglia realmente “interna” alle nostre difficoltà di “marxisti che non hanno mollato” nei confronti delle nuove problematiche culturali dei credenti[1]”.
La cultura marxiana ha il merito di aver liberato l’economia dai suoi processi di ipostatizzazione. Il metodo genealogico e il materialismo storico hanno liberato l’economia da una visione dogmatica. La critica alla religione mediante la ricostruzione della genesi sociale e di classe dimostra l’uso che di essa è stato fatto per eternizzare i principi economici delle classi dirigenti.
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L’impossibile rinascita dell’industria americana (parte 1)
di Ferdinando Bilotti
Dopo decenni passati a sentire tessere le lodi del libero mercato, la fissazione di Trump per i dazi può destare sconcerto. Tuttavia, considerato di per sé, il principio della penalizzazione delle importazioni è tutt’altro che strampalato. Nel XIX e XX secolo, il protezionismo ha costituito uno strumento fondamentale per i paesi sottosviluppati che aspiravano a dotarsi d’una propria industria. Gli stessi Stati Uniti, nei decenni a cavallo del 1900, fecero ampiamente ricorso ai dazi doganali, per proteggere le proprie imprese nascenti e riuscire così ad assurgere al ruolo di potenza manifatturiera.
Già, ma oggi? Il ritorno a una simile politica è giustificato?
In linea teorica, sì. Come abbiamo già spiegato negli articoli del 21 agosto e del 6 ottobre, gli USA hanno subito un esteso processo di deindustrializzazione, che ha avuto conseguenze molto gravi per la loro economia e che minaccia di compromettere persino la tenuta delle loro finanze pubbliche e le loro capacità militari. Tassare le importazioni sembra dunque una strategia sensata, anzi addirittura obbligata. I dazi riducono la competitività di prezzo dei manufatti esteri e quindi avvantaggiano chi produce in patria. Ciò dovrebbe stimolare le aziende nazionali a riportare negli USA le attività che avevano delocalizzato e quelle straniere che esportano verso gli Stati Uniti a servire questo mercato impiantando in loco delle proprie fabbriche. Beninteso, la messa fuori gioco di chi produce più a buon mercato avrebbe un impatto negativo sul costo della vita; ma la reindustrializzazione accrescerebbe il reddito degli abitanti (si tenga presente che oggi molti statunitensi vivono in condizione di disoccupazione, sottooccupazione od occupazione dequalificata), compensando questa conseguenza negativa.
Tutto bene, quindi? Beh… no. Vi sono infatti alcuni fattori che remano contro la possibilità di rilanciare, tramite il protezionismo, il made in USA. Lo sviluppo industriale richiede abbondante forza lavoro qualificata (dai tecnici laureati agli operai specializzati, passando per il personale amministrativo di vario genere) e quindi un sistema scolastico e universitario in grado di formarla; ma gli Stati Uniti non ce l’hanno, in quanto la loro istruzione pubblica è troppo scadente e quella privata è troppo cara.
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La pressione sul Venezuela come guerra ibrida contro Russia e Cina
di Raphael Machado, chinabeyondthewall.org
La strategia di riavvicinamento al Brasile si basa proprio sullo sforzo di far uscire il Paese dall’“orbita cinese”.
Un vizio comune tra analisti e giornalisti geopoliticamente anti-imperialisti è il tentativo di spiegare tutti i conflitti internazionali con la “causa unica” della ricerca imperialista di risorse naturali – quasi sempre il petrolio. È così che viene classicamente spiegata la guerra in Iraq, ad esempio: le “Big Oil” avrebbero sfruttato l’amministrazione Bush per riaprire i mercati, prima chiusi, attraverso bombardamenti e occupazioni territoriali.
Questo tipo di spiegazione chiaramente materialista nasce da una premessa evidentemente marxiana, in quanto mira a trattare tutti i fenomeni sociali, culturali e politici come epifenomeni di fronte alla realtà preponderante e strutturale delle trasformazioni e degli interessi economici.
Come buona parte degli sforzi pseudoscientifici del XIX secolo volti a ridurre la realtà a un unico principio (come nel caso del freudismo e del positivismo), anche questo materialismo economista non regge al martellamento dell’analisi critica.
Solo per fare un esempio, nel caso iracheno, la spiegazione materialista generica non resiste alla scoperta empirica che le principali compagnie petrolifere statunitensi erano, di fatto, già sulla strada del dialogo con i paesi contro-egemonici del Medio Oriente e, proprio per questo motivo, hanno tentato senza successo di fare pressione per il non intervento e la pacificazione delle relazioni tra Stati Uniti e Iraq.
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7 novembre. La Rivoluzione fu anche lotta per la sopravvivenza, come potrebbe essere oggi
di Sergio Cararo
Le visioni della Rivoluzione d’Ottobre con cui abbiamo dovuto fare i conti nei decenni trascorsi, possono essere riassunte in almeno due narrazioni fuorvianti:
1) Per la borghesia è stato né più né meno che un colpo di mano, un colpo di stato, da parte dei bolscevichi che hanno così impedito una via d’uscita liberale al crollo dell’autocrazia zarista;
2) Per un bel pezzo della “sinistra” è stata invece una rivoluzione tradita dai suoi sviluppi successivi. Una visione da cui è nata l’ipocrisia dell’antistalinismo che ha impregnato gran parte dell’elaborazione della sinistra occidentale, inclusa quella alternativa.
Contro queste due visioni è stato bene combattere nei decenni scorsi, e lo è altrettanto oggi come abbiamo cercato di fare lo scorso anno con le iniziative su “Elogio del Comunismo del Novecento“. Soprattutto se, giustamente, si intende poi riaprire o mantenere aperta la questione della “Rivoluzione in occidente”, la quale rimane la contraddizione rimasta aperta da quando la Rivoluzione d’Ottobre si trovò da sola a dover gestire la rottura rivoluzionaria nell’anello debole della catena imperialista nel 1917.
Non possiamo però nasconderci che esiste una terza attitudine, più genuina ma altrettanto fuorviante, che è quella di ridurre l’esperienza rivoluzionaria, la concezione del partito leninista e il processo di transizione al potere proletario, ad un manuale per le istruzioni.
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La “sinistra” che guarda a New York
di Dante Barontini
Sarà il caso di fermarsi un attimo a ragionare, dopo aver letto e metabolizzato una buona parte dei commenti “sinistri” sulla vittoria di Zhoran Mamdani alle elezioni per il sindaco di New York.
Inevitabile e persino giusto che ci siano molte opinioni diverse, che in tanti scavino tra le sue dichiarazioni – pre o in campagna elettorale – per trovare debolezze, ambiguità contraddizioni con la sua immagine ufficiale (auto-assegnata, e negli Usa era quasi un suicidio politico) di “socialista”.
Inevitabile, comprensibile, ma per nulla giusto, che in tanti si affrettino a trasferire su di lui, e sui “socialisti democratici” Usa, le proprie speranze o le proprie idiosincrasie.
C’è però, secondo noi, da tenersi distanti da queste considerazioni frettolosamente pro o contro proprio perché manifestazioni da tifosi, anziché sforzi di giudizio analitico serio.
Del resto lo stesso avviene sulla guerra in Ucraina, dove qualsiasi analisi oggettiva degli interessi – e persino dei combattimenti – in campo viene liquidata come “putinismo”, fino a certe curiose esibizioni di “comprensione antifa” per un governo infestato di nazisti rei confessi.
Nella “sinistra radicale” italiana, non da oggi, sembra andata perduta la capacità di analizzare i fenomeni in modo “scientifico” per poi poter prendere una “posizione” autonoma. E quindi anche efficace.
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Trump, il "cane pazzo”
di Leonardo Mazzei
Nel caos d’ogni dì del nostro tempo, i fondamentali vanno spesso smarriti. È il caso del dibattito su Trump. Qualcuno lo voleva isolazionista, ripescando una ormai remota tradizione repubblicana. Altri addirittura “pacifista”, non foss’altro che per venire a patti con la realtà di un impero in decadenza.
Dopo Gaza, le bombe sull’Iran e sullo Yemen, siamo adesso alle violente minacce al Venezuela. Forse è venuto il tempo di mettere alcuni puntini sulle “i”, di rimettere un po’ di ordine sulla sostanza delle cose. Che è poi l’unico modo per orientarci nel marasma che, passo dopo passo, ci sta portando verso l’abisso di una Terza guerra mondiale pienamente dispiegata.
Proviamo allora a ricapitolare i punti fondamentali:
(1) Donald Trump è sì un personaggio particolare, un egocentrico al cubo che ama spararle grosse. Ma egli è innanzitutto il quarantasettesimo presidente di quella che è ancora la prima potenza mondiale, e che ambisce a restare tale. Una potenza che vuole impedire in tutti i modi il passaggio da un mondo monopolare a uno multipolare e/o multilaterale.
(2) È proprio questa decisione strategica dell’imperialismo americano, peraltro maturata ai tempi di Obama, la prima vera causa delle guerre in corso, a partire da quella d’Ucraina. Guerra scatenata dall’espansione della Nato verso est, cui è seguita la risposta difensiva di Putin.
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Preparazione alla guerra, formazione alla pace
di Fernanda Mazzoli
Un recente intervento del MIM (Ministero dell’Istruzione e del Merito) ha avuto il doppio merito di chiarire la funzione dei corsi di formazione a scuola e di togliere ogni residuo dubbio sul clima di mobilitazione bellicista cui dovremmo tutti adeguarci in un futuro così prossimo da essere già il nostro presente.
Il Ministero ha soppresso un corso di formazione, cui avevano aderito più di un migliaio di docenti, organizzato per il 4 novembre dal Cestes (Centro Studi Trasformazioni Economico- Sociali), annullando l’accreditamento sulla piattaforma Sofia con la motivazione che l’iniziativa ” non appare coerente con le finalità di formazione professionale del personale docente presentando contenuti e finalità estranei agli ambiti formativi riconducibili alle competenze professionali dei docenti, così come definite nel CCNL scuola e nell’Allegato 1 della Direttiva 170/2016. “1
Il ricorso al “pedagoghese”, gergo già di per sé vuoto, conferisce alla motivazione un carattere vagamente surreale e sconcerta prima ancora di indignare: non si comprende, infatti, come una iniziativa volta a sottolineare, presumibilmente rifacendosi all’articolo 11 della Costituzione, il valore della pace in un contesto internazionale contrassegnato da un crescente ricorso alle armi per risolvere situazioni conflittuali possa configurarsi come estraneo all’ambito formativo proprio della funzione docente.
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Se la Cina ha vinto
di Dario Di Conzo
Se l’obiettivo di un titolo apodittico come “La Cina ha vinto” è convincere il lettore della validità della propria tesi, Alessandro Aresu vi riesce pienamente. L’autore invita il lettore a osservare lo scontro di questo inizio di XXI secolo attraverso gli occhi di Wang Huning: il teorico del Partito, professore e attuale membro del Comitato […]
Se l’obiettivo di un titolo apodittico come La Cina ha vinto (Feltrinelli Editore, Milano, 2025, €15) è convincere il lettore della validità della propria tesi, Aresu vi riesce pienamente. Centonove pagine che, pur dense e concettualmente stratificate, si leggono in una sola giornata di pioggia, lasciando anche il lettore più scettico con la persistente impressione che, in effetti, la Cina possa davvero aver vinto. Una volta svanito l’impatto iniziale, sorgono tuttavia le domande: cosa ha vinto, e in che modo? Contro chi, invece, è chiaro fin dall’inizio: gli Stati Uniti.
Il libro si colloca in un dialogo aperto con due decenni di letteratura oscillante tra catastrofismo e trionfalismo. Se The Coming Collapse of China di Gordon Chang (2001) inaugurava il genere ormai screditato della Cina prossima al collasso, Has China Won? (2020) di Kishore Mahbubani ne offriva il riflesso speculare in chiave interrogativa. Aresu, al contrario, trasforma il dubbio in un’affermazione tanto provocatoria quanto rivelatrice. Eppure, la vittoria che descrive non è né economica né militare: prima di tutto, è intellettuale.
L’autore invita il lettore a osservare lo scontro di questo inizio di XXI secolo attraverso gli occhi di Wang Huning: il teorico del Partito, professore e attuale membro del Comitato permanente del Politburo che, da Jiang Zemin a Xi Jinping, accompagna da oltre tre decenni la leadership comunista. Wang è al tempo stesso oggetto e soggetto della narrazione: studiato, citato e utilizzato come dispositivo narrativo. Ispirandosi al suo libro più celebre, America against America, e al diario politico del suo periodo americano, Aresu adotta la voce del professore di Shanghai per fondere teoria politica e introspezione. Le riflessioni di Wang sul declino della vitalità spirituale americana diventano la lente attraverso cui il volume interpreta il riallineamento geopolitico del XXI secolo. In effetti, la lucidità dell’analisi di Wang e la sua straordinaria capacità di anticipare la traiettoria degli Stati Uniti hanno reso questo Tocqueville contemporaneo famoso ben oltre i ristretti circoli della sinologia e degli osservatori del Partito-Stato. Come scrive evocativamente Aresu, “L’assalto a Capitol Hill, il 6 gennaio 2021, ha fatto entrare America contro America nella leggenda”.
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Perché è difficile riconoscere mondi nuovi
Gianluca Carmosino intervista Stefania Consigliere
Lo sguardo coloniale e l’impostazione eroica dell’idea di cambiamento, dice Stefania Consigliere, continuano a logorare la capacità di riconoscere l’esistenza di mondi nuovi e rischiano così di spegnerli: quei mondi prendono forma non come sconvolgimenti, ma come continua attenzione alla qualità delle relazioni che costruiamo ogni giorno. Questa intervista è stata realizzata in vista della due giorni “Partire dalla speranza e non dalla paura”, promossa dalla redazione di Comune, a Roma, il 7 e 8 novembre (programma in coda). Non avremmo potuto desiderare un articolo migliore.
Stefania Consigliere insegna presso il Dipartimento di Scienze Antropologiche dell’Università di Genova. Le sue ricerche, in particolare su immaginario e rivoluzione, raccolte in numerosi articoli e libri, tra cui Favole del reincanto (DeriveApprodi), sono un riferimento essenziale per tanti e tante. Consigliere sostiene che mondi altri, disorganici e imperfetti, sono già qui, ma siamo spesso incapaci di individuarli per diverse ragioni. In questa intervista parliamo di pensare mondi nuovi, di relazioni di potere, dell’attenzione come capacità preziosa.
* * * *
Ernst Bloch ha scritto Il principio speranza in esilio durante gli anni del fascismo e del nazismo. Anche tu, in Favole del reincanto, sostieni che i mondi nuovi che cerchiamo sono già qui, per quanto fragili e limitati. Come possiamo oggi, in questi tempi cupi, imparare a pensare, individuare e proteggere mondi nuovi?
Ho l’impressione che ci siano due cose, nella nostra tradizione culturale ampia, quella della modernità occidentale, che in questo momento ci impediscono di riconoscere i mondi altri, e quindi poi, a maggior ragione, di proteggerli e dar loro spazio.
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Noialtri girardiani
Una riflessione a dieci anni dalla scomparsa del filosofo
di Alessandro Lolli
“Chissà che direbbe se fosse ancora vivo” si sospira pensando a tutti i grandi maestri che ci hanno lasciato e che, per un motivo o per l’altro, supponiamo avrebbero tanto da dire sulla nostra povera contemporaneità. L’idea è che i nostri tempi, che costoro non hanno fatto in tempo a vedere, portino il segno visibile delle loro intuizioni finalmente avverate oppure che presentino nuove sfide che sembrano fatte apposta per essere interpretate dalla loro cassetta degli attrezzi teoretica. Non sono il solo a pensare che entrambe queste affermazioni siano vere per René Girard, il grande filosofo e antropologo francese scomparso precisamente dieci anni fa, il 4 novembre 2015.
Non sono il solo a pensare che il mondo che abitiamo da quindici anni a questa parte sia particolarmente suscettibile di analisi girardiane, un mondo che Girard ha fatto in tempo a scorgere ma non a commentare: le sue ultime apparizioni pubbliche risalgono alla fine del primo decennio degli anni Duemila quando la rivoluzione tecnologica che ci avrebbe costretto a parlare di “capro espiatorio” quasi ogni santo giorno era appena iniziata. Non sono il solo a pensare, infine, che proprio i social network siano, da un lato una sorta di piastra di Petri del pensiero girardiano, dall’altro un acceleratore di queste dinamiche che rende le sue riflessioni più attuali che mai.
Già ai suoi tempi Girard notò che la diffusione nella società della locuzione “capro espiatorio”, tanto nel linguaggio giornalistico quanto in quello quotidiano, comportava importanti conseguenze. A differenza di tanti pensatori che sono gelosissimi della loro ridefinizione tecnica di un concetto noto a tutti e passano la loro carriera a squalificare gli usi “barbari” di quella parola che è diventata il centro del loro programma teorico, Girard riconobbe un sostanziale accordo tra la sua raffinatissima comprensione del termine, fondata su una vera e propria Teoria del tutto, e quella del senso comune. Proprio da questa comprensione generale però, come vedremo, deriva secondo lui la progressiva perdita di efficacia del meccanismo e, allo stesso tempo, una proliferazione dei fenomeni ascrivibili allo stesso: di quelli veri e di quelli falsi.
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Il ‘modello Mamdani’ visto da Israele
di Alessandro Avvisato
Abbiamo seguito da vicino le vicende delle elezioni del nuovo sindaco di New York, Zohran Mamdani, perché sono sintomo, e forse anche un passo ulteriore, nel percorso di crescente conflitto sociale e politico interno agli Stati Uniti. L’arrivo ai massimi livelli della Grande Mela da parte di un musulmano con un programma di governo considerato ‘socialista’.
Siamo ben consapevoli di tutte le ambiguità che rimangono, sul piano strategico, nei discorsi di Mamdani: sul ruolo imperialista degli USA nei confronti del ‘cortile di casa’ latinoamericano (Cuba e Venezuela), ma anche su Israele, nonostante la sua campagna abbia fatto leva largamente sull’opposizione al piegarsi continuo dei politici stelle-e-strisce agli interessi del sionismo internazionale.
Quello che vogliamo evidenziare è un processo, radicato nelle tendenze della crisi capitalistica, piuttosto che un ‘parteggiare’: il fallimento del ‘melting pot‘ statunitense va di pari passo con la sua crisi egemonica e della sua capacità di proiettarsi come ‘polizia’ del mondo intero. Le linee di faglia etniche si allargano insieme a quelle economiche, spesso si sovrappongono, e il legame che hanno con il ruolo USA nell’ordine globale appare sempre più evidente.
In un certo senso, è la declinazione d’oltreoceano di un processo di politicizzazione che abbiamo visto anche in Italia, con milioni di persone scese in piazza contro la complicità nel genocidio dei palestinesi, e riguardo al quale è apparso chiaro l’interesse del complesso militare-industriale che oggi è al centro degli indirizzi politici di tutta la compagine NATO.
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Verso la Mezzanotte del mondo. Cronache dell’escalation nucleare
di Alex Marsaglia
Ci siamo, le conseguenze del fallimentare viaggio di Trump in Asia si stanno manifestando nella maniera più grave, quella dell’escalation nucleare. In un mondo in guerra convenzionale, calda e combattuta su più fronti, l’annuncio della ripresa dei test atomici da parte degli Stati Uniti non poteva passare senza conseguenze. Trump da parte sua, non essendo riuscito a sfondare il muro asiatico con i mezzi convenzionali della guerra commerciale, non poteva che tentare un’altra strada. Così ha scelto la via più pericolosa, ma inevitabile, dati i livelli di sviluppo tecnologico raggiunti: il confronto sullo sviluppo tecnico-militare nucleare.
Le dichiarazioni che si sono susseguite nelle ultime ore tra i vertici russi e quelli americani ci svelano ciò che si cela dietro la svolta tecnologico-militare e nucleare del Burevestnik. Ieri infatti il Ministro della Difesa russo Belousov, nell’annunciare l’immediata ripresa dei preparativi per condurre test nucleari su larga scala, ha svelato che a Ottobre gli Stati Uniti hanno condotto un’esercitazione in cui è stato simulato un attacco missilistico nucleare preventivo contro la Russia. Inoltre, gli Stati Uniti stanno lavorando alla creazione di un nuovo missile intercontinentale con un raggio di 13.000 km con testata nucleare in modo da chiudere immediatamente il gap apertosi con la Russia (vedi qui: https://it.infodefense.press/2025/11/05/il-ministro-della-difesa-russo-andrej-belousov-ha-dichiarato-di-ritenere-opportuno-avviare-immediatamente-i-preparativi-per-test-nucleari-presso-il-poligono-delle-nuovaia-zemljya/).
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I fascisti italiani e la strategia atlantica negli anni ’50
di Antiper
Questo è il primo di una serie di articoli che intendiamo proporre sulla base della lettura del nuovo libro di Davide Conti, Fascisti contro la democrazia. Almirante e Rauti alle radici della destra italiana (1946-1976), Einaudi, 2023
Si sente ripetere spesso che il Movimento Sociale Italiano, il partito neofascista che negli anni ’40 intese raccogliere l’eredità del fascismo e della Repubblica Sociale Italiana (RSI), fosse un partito dall’approccio internazionale “terzocampista” che rifiutava l’alleanza con gli americani per ragioni storiche (proprio gli USA erano stati tra gli artefici della caduta del fascismo) e a maggior ragione rifiutava l’alleanza con l’URSS per analoghe ragioni storiche e per evidenti ragioni ideologiche.
Questa storiella del “terzaforzismo” inizia con lo stesso Mussolini che aveva avuto l’ardire di descrivere il fascismo come “terza via” tra capitalismo e comunismo (senza disdegnare però la sponsorizzazione del capitale industriale e agrario, della monarchia e del Vaticano nonché la loro protezione nell’ascesa verso il potere, protezione senza la quale non vi sarebbe stata alcuna ascesa) e prosegue con alterne vicende fino addirittura al terrorismo nero degli anni ’70; per fare un esempio, il gruppo terroristico Terza Posizione, i cui membri parteciparono alla strage di Bologna del 1980, si era dato quel nome per suggerire la propria “equidistanza” (!) tra comunismo e capitalismo.
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Il momento della verità: l’Occidente di fronte ai progressi militari della Russia
di Thierry Meyssan
Da due anni noi occidentali ci illudiamo di riuscire a mettere in ginocchio la Russia e di fare entrare l’Ucraina nell’Unione Europea e nell’Alleanza Atlantica; nonché di portare in giudizio Vladimir Putin e di farla pagare cara alla Russia. Questo mito deve fare i conti con la realtà: Mosca dispone ormai di armi devastanti, senza eguali in Occidente, che rendono vana ogni speranza di vittoria delle nostre coalizioni. Saremo costretti a riconoscere di aver preso un abbaglio.
l 26 ottobre il presidente russo Putin e il capo di stato-maggiore Valeri Gerassimov hanno annunciato di aver completato il progetto di miniaturizzazione di una centrale nucleare per installarla su un missile. Hanno dichiarato di aver lanciato un missile 9M730 Bourevestnik a una distanza di 14.000 chilometri. La particolarità di quest’arma a propulsione nucleare, quindi illimitata, è quella di poter essere guidata in modo da aggirare i siti d’intercettazione. Secondo le autorità russe, questo la rende non-abbattibile.
Il 29 ottobre il presidente Putin ha testato un siluro Status-6 Poseidon, pure a propulsione nucleare. Durante il periodo dell’Unione Sovietica i ricercatori militari euroasiatici ritenevano che le esplosioni atomiche sottomarine potessero provocare giganteschi tsunami. Per questo motivo cercavano il modo di lanciare siluri molto più lontano di quanto si riuscisse a fare all’epoca, in modo che i cataclismi provocati non colpissero anche l’URSS.
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Francesca Albanese: Quando il mondo dorme
di Edoardo Todaro
Francesca Albanese, Quando il mondo dorme, Rizzoli, Milano 2025, pp. 288, euro 18
Di rapporto in rapporto, mettere in evidenza la politica sistematica, deliberata di genocidio portata avanti dall’entità sionista che occupa da decenni la Palestina, è quanto sta facendo Francesca Albanese.
Francesca Albanese, relatrice speciale ONU per i territori palestinesi occupati, è stata messa al bando, sottoposta a sanzioni imposte dagli USA. Sanzioni dovute a quanto da lei denunciato, come nelle ultime 24 pagine di Quando il mondo dorme, dove si evidenziano i legami militari, commerciali e diplomatici, perché – riprendendo l’ultimo suo rapporto- “Il genocidio …. è un crimine a livello internazionale”.
Sono passati 5 mesi dal momento in cui Rizzoli ha edito Quando il mondo dorme, e quanto l’autrice ci descrive è tutto lì: un genocidio in piena regola. Quanto abbiamo sotto mano travalica, volutamente e consapevolmente, la denuncia su quanto l’occupazione sta portando avanti. In queste pagine ci imbattiamo in qualcosa che non può, e non deve, essere rimosso: storia, presente e futuro di una Palestina in pericolo; un’occupazione che non può essere, stando a quel diritto internazionale al quale in tanti si appigliano, che illegale. Assistiamo, succubi, a un’ opera di distruzione totale, metodica e pianificata. I luoghi comuni: “Israele vuole colpire Hamas e non i palestinesi” verso i quali la propaganda di parte tende a orientare l’opinione pubblica, vengono metodicamente confutati.
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La sconfitta dell’Occidente e la Guerra Mondiale a Pezzi II
di Alessandro Visalli
Il vuoto nel cuore dell’occidente. Dall’austerità alla disperazione
Il 13 settembre 2014, profeticamente, Papa Francesco nel centenario della Prima Guerra Mondiale ricordò che “anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni”[1]. Con questo breve enunciato dichiarò il segno del nostro tempo tragico.
Sono passati solo pochi anni, ma sembrano un’eternità. Si era nel tempo del Job Act di Renzi, in quello di Schäuble che al G20 si oppose alle richieste di manovre anticicliche degli Usa riaffermando il vangelo dell’austerità e il surplus di bilancio europeo e tedesco. Era il tempo in cui Obama spingeva perché fossero firmati due trattati di libero scambio, in chiave anticinese e a vantaggio delle aziende tecnologiche. Il TTIP (con l’Europa) e il TPP (con l’Asia) avevano infatti un solo scopo, come Jack Lew chiarì al G20: quello di creare le condizioni per ribilanciare le partite commerciali statunitensi. Allora come ora il mondo esportava negli Stati Uniti molto più di quanto importasse da essi, e i cittadini americani consumavano più di quanto producessero. Allora come ora il debito pubblico, traduzione di quello privato, cresceva sempre di più. Allora come ora il sistema-America era complessivamente indebitato verso il mondo. E, infine, la fiducia nella capacità sul lungo periodo (oggi anche sul breve) di sostenere questo ritmo era sfidata, minacciata.
Oggi tutti quei nodi sono giunti al pettine[2].
Per questa ragione l’Occidente appare disperato e pronto a tutto. Il punto di svolta è stato lungamente preparato dal progressivo svuotamento della posizione di forza americana, internamente preparata dalla perdita del senso comune della nazione, dell’etica del lavoro, del concetto di morale sociale vincolante, della capacità di sacrificarsi per la comunità[3]. Quindi ha subito una netta accelerazione quando lo shock del Covid ha mostrato la fragilità delle linee di approvvigionamento interconnesse e determinato una devastante crisi economica, contrastata con programmi di spesa a debito senza precedenti[4]. E quando tutto ciò si è infranto sul muro della crescente competizione cinese e del confronto con la Russia.
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Il più grande alleato di Trump è il Partito Democratico
di Chris Hedges* - Scheerpost
L'unica speranza per salvarci dall'autoritarismo di Trump sono i movimenti di massa.
Dobbiamo costruire centri di potere alternativi – inclusi partiti politici, media, sindacati e università – per dare voce e potere a coloro che sono stati privati del loro potere dai nostri due partiti al governo, in particolare la classe operaia e i lavoratori poveri.
Dobbiamo organizzare scioperi per paralizzare e contrastare gli abusi perpetrati dall'emergente stato di polizia. Dobbiamo sostenere un socialismo radicale, che includa il taglio di mille miliardi di dollari spesi nell'industria bellica e la fine della nostra dipendenza suicida dai combustibili fossili, e risollevare le vite degli americani abbandonati tra le macerie dell'industrializzazione, del calo dei salari, di infrastrutture in rovina e di programmi di austerità paralizzanti.
Il Partito Democratico e i suoi alleati liberali denunciano il consolidamento del potere assoluto da parte della Casa Bianca di Trump, le ripetute violazioni costituzionali, la flagrante corruzione e la deformazione delle agenzie federali – tra cui il Dipartimento di Giustizia e l'Immigration and Customs Enforcement (ICE) – trasformandole in cani da attacco per perseguitare gli oppositori e i dissidenti di Trump. Avvertono che il tempo sta per scadere. Ma allo stesso tempo, si rifiutano fermamente di convocare mobilitazioni di massa che possano smantellare i meccanismi del commercio e dello Stato. Trattano come lebbrosi i pochi politici del Partito Democratico che si occupano di disuguaglianze sociali e abusi da parte della classe miliardaria – tra cui Bernie Sanders e Zohran Mamdani. Ignorano spensieratamente le preoccupazioni e le richieste dei comuni elettori del Partito Democratico, riducendoli a semplici oggetti di scena usa e getta durante comizi, assemblee cittadine e convention.
Il Partito Democratico e la classe liberale sono terrorizzati dai movimenti di massa, temendo, a ragione, di essere spazzati via anch'essi. Si illudono di poterci salvare dal dispotismo aggrappandosi a una formula politica morta, proponendo candidature insipide e a contratto come Kamala Harris o la candidata del Partito Democratico e ufficiale di marina in corsa per la carica di governatore del New Jersey, Mikie Sherrill.
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Venezuela. Gli Usa sono i nuovi pirati dei Caraibi
di Davide Malacaria
Abbiamo ripreso il titolo da un editoriale del Washington Post del 28 ottobre, perfetto per fotografare quanto sta avvenendo, con le forze statunitensi che infestano i mari del Venezuela e affondano navi e naviganti.
Omicidi, peraltro, niente affatto chirurgici: i video dei droni che affondano le barche dati in pasto ai media sono l’ennesima trovata propagandistica volta a magnificare l’efficienza dell’Us Army.
In realtà, come rivelato il 16 ottobre da The Intercept, per affondare le prime barche – e si presume anche le successive – sono serviti “molti attacchi missilistici” e, in un caso, il naviglio colpito è stato finito a colpi di mitragliatrice. Cambia poco per gli sfortunati naviganti, ma il particolare macchia l’immagine “chirurgica” per virare sulla ferocia.
E ancora, un articolo del New York Times, dopo aver sottolineato l’illegalità di tali azioni, che dovrebbe spingere i militari alla disobbedienza, prosegue annotando che si stanno uccidendo persone che non hanno intenzioni ostili contro gli Stati Uniti e che “potrebbero essere arrestate facilmente anziché uccise sommariamente”.
Quest’ultima annotazione, in combinato disposto con quanto accennato in precedenza sugli attacchi, evidenzia il sadismo sotteso a tale operazione: nessuna pietà per i naviganti, nonostante la Us. Navy sia perfettamente attrezzata per recuperare gli uomini in mare.
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La retorica intercambiabile dell'assistenzialismo per ricchi
di comidad
Una notiziola di qualche giorno fa è che Jeff Bezos è riuscito a inserirsi alla grande nella mangiatoia degli appalti federali per l’esplorazione spaziale; una mangiatoia che fino a qualche tempo fa sembrava avviarsi a essere un’esclusiva di Elon Musk. Il faccendiere sudafricano non ha comunque di che lamentarsi, visto che in questi giorni ha rimediato un altro appalto da un paio di miliardi. Va notato però che l’azienda di Bezos, dal nome suggestivo di Blue Origin, nonostante sia stata fondata da parecchio tempo, non si è mai distinta per ricerche e tanto meno per risultati in campo tecnologico, ma solo per la fiduciosa attesa di contratti federali, che alla fine stanno arrivando.
Ovviamente certe fortune non si costruiscono solo sugli appalti pubblici, ma anche sui sussidi governativi, cioè i regali in cambio di nulla; ciò in nome del mantra secondo il quale dare soldi ai ricchi fa bene a tutta l’economia. Secondo le ultime stime per difetto, a Musk sarebbero già andati circa trentotto miliardi di sussidi governativi sotto varie forme, dalle erogazioni dirette agli sgravi e incentivi fiscali. Un quadro da cui esce che Musk è uno dei principali miracolati dell’assistenzialismo per ricchi. Alcuni commentatori hanno sottolineato la protervia di Musk nel farsi censore dei pubblici sprechi per poi andare a riscuotere allo stesso sportello del denaro pubblico.
Nella sua breve esperienza nell’agenzia governativa per l’efficienza, istituita da Trump, il faccendiere sudafricano ha effettivamente operato molti tagli; ma pare che non fosse quello il vero scopo della sua presenza in quel ruolo governativo di presunto castigatore degli sprechi.
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Alcune note circa gli effetti dell’entrata in vigore del cosiddetto “Decreto sicurezza”
di Pietro Garbarino
Al di là delle appropriate e puntuali osservazioni svolte dall’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione circa la nuova normativa sulla sicurezza approvata dal Parlamento alcuni mesi fa, pur con il “sotterfugio” della procedura di conversione di decreto legge, va rilevato che l’entrata in vigore di tale normativa ha completamente modificato non solo una rilevante serie di norme di legge sostanziali e del codice di procedura penale, ma ha altresì inciso sulla stessa struttura del reato penale così come configurata, e consolidata nel tempo, dalla dottrina penalistica a partire dal testo dell’Antolisei.
Tale consolidato e imponente orientamento dottrinale analizzava il reato penale e ne individuava gli elementi fondamentali nel modo seguente:
• Antigiuridicità del fatto obbiettivo; cioè il fatto commesso deve essere contrario a norme giuridiche che tutelano beni e situazioni ritenute a loro volta degne di tutela da parte dell’ordinamento giuridico come, ad esempio, l’integrità della persona o la tutela dei beni pubblici o privati,
• L’elemento soggettivo in capo a colui che commette il reato, sia nel senso della volontarietà (dolo) che nel senso della imprudenza, negligenza, imperizia (colpa) di chi agisce.
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Un “pericoloso comunista” sindaco di New York… E vai!
di Il Pungolo Rosso
Ce l’ha fatta. Il “pericoloso comunista”, l'”odiatore degli ebrei”, l’uomo che “distruggerà New York” (copyright del solito Donald Trump), per giunta musulmano, è il nuovo sindaco di New York.
Ne discute ormai il mondo intero. O almeno il mondo occidentale intero.
Con una furia incontenibile Trump e i trumpiani; con molta cautela i centro-sinistri, a cominciare dalla vecchia guardia del partito democratico amerikano fino all’organo italiano della “sinistra per Israele”, al secolo “la Repubblica”. Secondo loro ha vinto la “Z Generation”. Sono molto preoccupati per le aspettative dei votanti per Mamdani, per questo puntano sul dato della giovane età, su cui ha insistito anche l’abile neo-sindaco nel suo discorso di investitura.
Ma non è questione d’età. E’ questione che da 26 anni, dalle giornate del movimento No Global (30 novembre-1 dicembre 1999) a Seattle – con l’assedio ai vertici del WTO e l’annessa battaglia di strada con la polizia – gli Stati Uniti sono il teatro di ondate di movimenti sociali e politici in tendenza sempre più radicali. Questi movimenti, il più potente dei quali è stato finora il Black Lives Matter scoppiato a fine maggio 2020, hanno espresso, insieme ad una ripresa delle lotte sindacali operaie, il profondo malessere, la rabbia di vastissimi settori del proletariato statunitense, e la necessità di una nuova fase della vita politica statunitense, sollecitando la nascita di nuove rappresentanze politiche.
Non essendoci all’oggi una situazione rivoluzionaria né negli Stati Uniti né nel resto del mondo occidentale, era giocoforza che le nuove rappresentanze politiche nascessero dentro il partito democratico e dentro il partito repubblicano. In quest’ultimo è nato e si è affermato il trumpismo, che ha come suo obiettivo politico la spaccatura in profondità del proletariato statunitense, da realizzare attraverso la violenta contrapposizione tra settori di proletariato bianco esasperato e decaduto e la massa dei proletari immigrati e delle minoranze di colore, indicati come il capro espiatorio per la decadenza dell’Amerika.
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Luxemburg vs Bernstein. Le crisi economiche e il dilemma tra riforma sociale e rivoluzione
di Eugenio Donnici
Ci sono dei dilemmi, che sebbene siano risolti da lungo tempo, continuano ad assillare la mente e, in generale, la vita quotidiana di coloro che sono coinvolti attivamente nelle vicende politiche e sindacali. Il muoversi lungo questa direttrice, in modo quasi funambolico, continua a produrre sterili contrapposizioni, non solo all’interno di quel che resta nella “galassia della sinistra”, ma anche tra il “sindacalismo di base” (di classe) e i sindacati “concertativi”, che contemporaneamente, influenzano e gravitano nella connessa galassia.
Le parole riforma e rivoluzione esprimono due concetti, i cui significati etimologici, nel fluire del tempo e dello spazio, oltre a mutare il corso del fiume, che è un processo che rientra nel piano semantico, hanno svilito la loro “potenza” evocativa e sono diventati indifferenti, muti, nel senso che dicono tutto e il contrario di tutto.
Quando si ricorre al termine riforma, per introdurre provvedimenti legislativi che fanno finta di cambiare il contesto in cui si agisce o addirittura peggiorano le condizioni di vita di chi deve rispettare quella norma retrograda e reazionaria, la società non ne trae nessun beneficio, anzi entra in confusione ed entrano in gioco le spinte regressive, così quando ascoltiamo spot pubblicitari come la “Rivoluzione gentile del latte”, è chiaro che siamo di fronte alla vendita di illusioni, in un determinato contesto, e che quella sostanza liquida biancastra, non produce cambiamenti significativi nella vita reale.
È pur vero che l’espressione linguistica richiamata possa esprimere una metafora, tuttavia è facilmente percepibile, anche alle sensibilità più ingenue, che si tratti di una promozione di una marca di un prodotto particolare, in luogo particolare.
Nel lontano 1899, Rosa Luxemburg, nell’esporre le sue critiche al “metodo opportunista” e alla posizione revisionista di E. Bernstein, nell’ambito della Seconda Internazionale e dei conflitti interni al partito socialdemocratico tedesco, chiede: «La socialdemocrazia può contrapporre la rivoluzione sociale, il rovesciamento dell’ordine esistente, che costituisce il suo scopo finale, alla riforma sociale?». (1)
La sua risposta è: «Certo che no!».
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Il Segretario di tutte le guerre
La visione MAGA di Pete Hegseth
di Alberto Toscano
La visione che Hegseth porta dentro l’amministrazione Trump è quella di un’America che può tornare «grande» solo riconoscendo la guerra come sua condizione naturale. Non più guerra soltanto contro nemici esterni, ma contro tutto ciò che — dentro e fuori i confini — viene percepito come ostacolo al primato americano: la cultura «woke», i migranti, i Paesi latinoamericani troppo autonomi, la Cina come avversario sistemico.
Questa idea di un’America «prima tra le Americhe» traduce il vecchio privilegio imperiale in una dottrina di sicurezza emisferica, dove difendere la patria significa estendere la sua influenza militare e politica sull’intero continente. Fare l’America «great again» coincide, in pratica, con rimettere ordine nella geoeconomia del Sud e riaffermare un ruolo egemonico ormai in crisi.
A tenere insieme questo progetto è una retorica da crociata, che fonde il linguaggio della fede e quello della forza: la guerra diventa una missione morale e la battaglia culturale contro il «woke» assume i toni di una purificazione necessaria. Nella visione di Hegseth, come in quella degli aderenti al «partito della guerra», la potenza americana non si misura più solo nei mezzi militari, ma nella capacità di ridare forma e senso a un’identità ferita, anche per distogliere l’attenzione dalle cause profonde delle sue crisi sociali interne.
Un articolo di Alberto Toscano, come sempre chiarificatore su quanto accade dall’altra parte dell’Atlantico e sulla natura del governo Trump.
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UE: l’Ucraina presenta il conto
di Mario Lombardo
L’avvicinarsi minaccioso del collasso forse definitivo delle linee di difesa ucraine sul fronte del Donbass sta alimentando un’amarissima riflessione in Europa circa gli effetti disastrosi delle politiche di sostegno incondizionato al regime di Zelensky messe in campo a partire dal febbraio 2022. Le soluzioni allo studio non lasciano tuttavia intendere un ravvedimento o inversioni di rotta per cercare almeno di salvare il salvabile, ma prevedono anzi un raddoppio degli sforzi per raggiungere obiettivi economici e strategici inarrivabili. Questo auto-inganno e il persistere di tendenze autolesioniste sorprendono d’altra parte solo in apparenza. Se fosse esistito un minimo di pensiero razionale e autonomo nella classe dirigente europea odierna, il vecchio continente non si sarebbe ritrovato sulla strada del declino e dell’irrilevanza.
Tra le analisi più allarmate apparse sui media nell’ultimo periodo si può citare quella pubblicata questa settimana dal network paneuropeo Euractiv. Il sito di informazione multilingua definisce “orribile” la situazione economica europea, per poi elencare una serie di problemi consolidati che pesano sul futuro dell’Unione. In linea generale, emergono dall’articolo alcune delle cause immediate di stagnazione, perdita del potere d’acquisto e livelli di debito alle stelle. Allo stesso tempo, però, la ragione alla base di questa involuzione traspare solo tra le righe oppure è deliberatamente taciuta. Mai, cioè, si accenna a un’avventura, come quella ucraina, lanciata in maniera intenzionale per provocare una reazione da parte della Russia che fornisse l’occasione per indebolire e, nella più fervida immaginazione occidentale, frantumare questo paese, così da consentire a USA ed Europa di neutralizzarne la “minaccia” alla loro egemonia e controllare le ricchezze di cui dispone.
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Come li freghiamo e ci riprendiamo tutto: una guida pratica
di Giuliano Marrucci
Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà: è uno dei concetti di Gramsci più bacioperuginizzati di tutti, insieme al famoso odio per gli indifferenti e a quello per il capodanno. Non poteva essere altrimenti; la frase, infatti, in realtà è una citazione dell’intellettuale francese e Nobel per la Letteratura Romain Rolland ed effettivamente, in mano sua, era esattamente l’appello un po’ retorico e moraleggiante che sembra: cercate di analizzare razionalmente il mondo per quello che è, con tutte le sue brutture, ma non arrendetevi e continuate a praticare il bene. Ma quando Gramsci la fa sua, cambia tutto, dalla morale all’azione politica: la citazione accompagnerà tutte le fasi dell’elaborazione politica di Gramsci, dagli editoriali dell’Ordine Nuovo alle lettere ai familiari e i Quaderni scritti durante la prigionia; e, col tempo, arriverà a riassumere non solo un’intera analisi della realtà capitalistica di una profondità senza pari, ma anche un vero e proprio programma d’azione per superarla. “Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà“ scriveva, ad esempio, Gramsci in un editoriale del 1920, “dev’essere la parola d’ordine di ogni comunista consapevole degli sforzi e dei sacrifici che sono domandati a chi volontariamente si è assunto un posto di militante nelle file della classe operaia”: ma in che senso? Per capirlo, bisogna prima focalizzare un punto fondamentale e, cioè, che dal punto di vista della biografia intellettuale, prima di ogni altra cosa Gramsci è un filosofo della crisi.
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