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La Patria è di destra o di sinistra?
di Carlo Clericetti
La sinistra dispersa e litigiosa ha trovato un nuovo motivo di divisione e di insulti. L’occasione è stata la costituzione di una nuova associazione culturale, promossa da Stefano Fassina con Alfredo D’Attorre e un nutrito gruppo di intellettuali, che ha lo scopo di incidere sul dibattito politico costruendo una cultura per la sinistra dell’attuale momento storico. Ma a scatenale le polemiche è stato soprattutto il nome, che Fassina ha scelto nonostante i dubbi avanzati da alcuni partecipanti alla discussione: “Patria e Costituzione”. Tanto è bastato per attirare l’insulto di moda, peggiore anche di “populismo” e “sovranismo”, ossia quello di “rossobrunismo”, cioè un ibrido tra posizioni di estrema sinistra ed estrema destra.
Se usare il termine “Patria” basta per essere accusati addirittura di filo-nazismo (le “camicie brune”, come si ricorderà, erano appunto i nazisti), bisogna dire che il dibattito politico è scaduto a livelli inferiori a quelli di un Bar Sport. Noti rossobruni, in questo caso, sarebbero per esempio Che Guevara (con il suo “Patria o muerte”), Palmiro Togliatti, Lelio Basso e tantissimi altri che trovano posto nel pantheon della sinistra storica. E persino la rivista dell’associazione dei partigiani (l’Anpi), come ha ricordato Fassina, si chiama “Patria indipendente”.
Sgombrato il campo dagli insulti lanciati non si sa se per ignoranza o malafede, ci si può chiedere perché rispolverare un termine che da molti anni non fa più parte del vocabolario della sinistra. L’intenzione di Fassina e compagni è che i due termini vadano strettamente legati: la “Patria” è quella disegnata dalla nostra Costituzione, i cui principi dovrebbero essere prevalenti rispetto a tutto, anche a quello che viene deciso in sede di Unione europea. Il che ha una logica.
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Missione ONU in Italia: da migrante vi racconto chi sono i veri razzisti
di Daniel Wedi Korbaria
Cara Italia,
dopo l'Eritrea adesso tocca a te. L'Alto Commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet1 ha deciso di mandarti i suoi ispettori per indagare sul tuo razzismo contro i migranti africani e i ROM. Il mondo intero è preoccupato del tuo disumano atteggiamento. Certo, qualcuno potrà obiettare come ha fatto Left contro Salvini: “non in mio nome”. Ma lo stesso sarà come cantava il poeta De André: "Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti".
Se ci fosse un po’ di giustizia a questo mondo le indagini Onu non si dovrebbero concentrare solo sul Ministro dell’Interno e la sua decisione di chiudere i porti ma anche e soprattutto su come è stata gestita l’accoglienza nell’ultimo decennio quando sono stati fatti sbarcare in Italia ben 700.000 migranti. "Come li avete accolti? Che fine hanno fatto queste persone? Dove sono ora? Quante di loro sono state poi integrate nella società italiana?" Ovviamente l’integrazione non ha nulla a che fare con il disgustoso spettacolo degli immigrati col berretto in mano fuori dai locali mentre aspettano un’elemosina e neppure con quello di vederli dormire all’addiaccio all’esterno delle stazioni o bivaccare in uffici dismessi occupati abusivamente. L’integrazione non è nemmeno quella che per quattro soldi li sfrutta nei campi di pomodoro e neppure quella che li rinchiude in campi di accoglienza moltiplicatisi a dismisura in un decennio su tutto il territorio italiano. Questa non è integrazione.
A rispondere alle accuse di razzismo, a mio parere, dovrebbero essere tutti gli umanitari che finora sono campati grazie al business dell'accoglienza e anche chi in qualsiasi forma abbia favorito il traffico degli immigrati. Ed è questo il punto. L'Onu dovrebbe venire qui per indagare sul razzismo di chi ha sfruttato quegli immigrati.
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Tomaso Montanari, “L’identità inventata degli italiani”
di Alessandro Visalli
Tomaso Montanari ha scritto e pubblicato sul Fatto Quotidiano un lungo e denso articolo che attacca con grande vigore e notevole tensione morale la temuta involuzione identitaria che la destra italiana starebbe suscitando e sfruttando a fini di raggiungere il potere e conservarlo. Il suo punto è fondato, sono anche io convinto che sia in corso un cinico utilizzo, a fini di distrazione dai più pressanti problemi economici, di una problematica molto sentita da parte dell’elettorato della Lega, ma, come si vede dai risultati, anche da parte maggioritaria della popolazione italiana.
Credo, più precisamente, che la Lega stia facendo un gioco molto pericoloso in qualche modo strettamente connesso con le dinamiche politiche interne. Il 4 marzo il paese, come scrivevo in “Fase politica, Aquarius e diversioni” si è spaccato infatti su una linea che attraversa le sue borghesie, portandosi a traino i ceti popolari, e, insieme, che la attraversa geograficamente. In estrema sintesi si è manifestata la defezione della borghesia nazionale rispetto la borghesia coinvolta con il modello economico mercantilista, e rivolto alla competizione per acquisire quote di mercato estero, che è contemporaneamente sotto attacco da parte del vecchio acquirente di ultima istanza americano. Si è formata una maggioranza politica conforme alla maggioranza sociale che ha clamorosamente sconfitto la vecchia coalizione da anni al potere, elitaria quanto a rappresentanza sociale, cosmopolita quanto a cultura e esteroflessa politicamente ed economicamente (con la sua cultura del “vincolo esterno”).
Del resto, la parte della ‘strana’ coalizione che sviluppa questa retorica ha come constituency, detto in modo sintetico quanto brutale, il mondo delle Piccole e Medie Imprese impegnate soprattutto nel mercato interno e poco interconnesse sui mercati globali, i professionisti che con tale mondo e con quello delle famiglie borghesi intermedie sono legati, operai ed impiegati di questi settori.
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Chi ha paura del patriottismo costituzionale?
di Nello Preterossi
Intervento di Nello Preterossi alla Assemblea Nazionale di Patria e Costituzione, 8 Settembre 2018 Roma
Legare Patria e Costituzione non è affatto uno scandalo. Anzi, significa riscoprire un nesso necessario e fondante. Le comunità politiche poggiano su un senso di appartenenza collettiva. “Patriottismo costituzionale” sta a indicare la fedeltà a una comunità politica democratica e pluralista, sulla base dei principi fissati dalla Costituzione. Nel caso di quella italiana, la realizzazione del progetto sociale delineato dall'art. 3, l’autodeterminazione collettiva che presuppone l’inclusione attraverso i diritti (innanzitutto quelli del lavoro e sociali). Un senso non meramente procedurale e formale, ma sostanziale, di patriottismo, all’insegna della giustizia distributiva.
A furia di ripetere il mantra della crisi dello Stato, del diritto pubblico e della stessa sovranità popolare, considerati ferrivecchi o addirittura regressivi, si è lasciato campo libero alla governance tecnocratica e alla polemica antidemocratica in nome delle “competenze” e delle élites “illuminate”, cioè dei ceti di “proprietà” e “cultura” (come li chiamava Rudolf Gneist nell’Ottocento). Ma come si fa a pensare che negando lo Stato e la sovranità democratica si possa portare avanti un programma di sinistra sociale?
Il concetto di sovranità è scandaloso proprio perché in esso convergono grandezze (Stato, popolo, pubblico, autonomia della politica, identità collettive) oggi imprescindibili ai fini della lotta per l’effettività dei diritti sociali e la piena realizzazione di una democrazia progressiva. Non è un caso che rimuovendoli o osteggiandoli si finisca per entrare in rotta di collisione con le istanze dei ceti popolari, e in oggettiva sintonia con quelle neoliberali. Lo Stato è democratizzabile, il mercato no.
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Sul postmodernismo. Conversazioni con Stefano Garroni (21-01-1999)
https://www.youtube.com/playlist?list=PL8F1B6A1B6665F176
PREAMBOLO: I titoli degli incontri seminariali non sono mai rigorosamente indicativi dell’argomento trattato, poiché il tono colloquiale delle lezioni di Stefano Garroni e la stessa natura degli incontri (una serie di seminari collettivamente autogestiti miranti alla formazione marxista di quadri comunisti) fanno sì che la sua esposizione, fatta a braccio e sovente improvvisata, non sia mai sistematica (come sarebbe stata in un intervento scritto), né circoscritta all’argomento richiamato dal titolo, ma sempre aperta ad allargarsi verso ulteriori tematiche, inizialmente non previste; spesso suggerite dagli interventi degli altri compagni che lo seguivano nei seminari.
NOTA: fra parentesi quadre il Redattore fa delle aggiunte per rendere più semplice la comprensione degli interventi e la stessa esposizione.
* * * *
1/8
Stefano Garroni: Questa serie di conversazioni è dovuta all’iniziativa di un gruppo di compagni, iniziativa che va fortemente lodata perché questi compagni hanno proposto intanto un tema di grande intelligenza, cioè ricostruire attraverso queste conversazioni quel momento del passaggio dalla dissoluzione del sistema hegeliano ai due sbocchi: quello marxista e quello esistenzialistico. È utile ricordare che c’è un bel libro di Karl Lowith (Da Hegel a Nietzsche), che in sostanza tratta questo tema. Fu pubblicato da Einaudi diversi anni fa, però si può trovare ancora.
Ma la cosa importante è che effettivamente questo processo della dissoluzione del sistema hegeliano e dei due esiti – marxista ed esistenzialista -, è un processo le cui conseguenze sono costitutive del clima culturale, morale e ideologico attuale, e quindi noi affrontando questo tema, entriamo nel vivo della situazione culturale ideologica attuale.
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Riportando tutto a casa: osare l’impossibile
di Paolo Selmi
Dopo un breve momento di riflessione, rieccomi. Mi sono rafforzato ancor più nella convinzione che sia necessario passare dalla pars destruens a quella construens. E mi sono deciso a tradurre Planomernost', Planirovanie, Plan. Ma non solo, renderlo fruibile, divulgabile, spiegarne le ragioni, predigerirlo, renderlo accattivante, per quanto un testo di economia lo possa essere. Lo scopo è quello che spiego nelle pagine seguenti, di doverosa premessa. Davvero mi piacerebbe che si ritornasse a parlare in questi termini
Per questo ti invio il tutto, rimettendomi come sempre al tuo giudizio. Spero davvero che ti piaccia e che possa piacere ai compagni, interessarli, smuoverli e smuoverne sempre di più, sulla base di questi appunti di lavoro e altri che spero verranno più acuti, più efficaci dei miei.
Che ci volete fare, mi piacciono i vecchi libri e le vecchie fotografie. Questa foto, che rappresenta una giovane contadina mentre guarda attraverso un teodolite per geometri, rappresenta forse la sintesi di questo nuovo ciclo di appunti: guardare il futuro da un punto di vista di classe, il nostro punto di vista. Il futuro lo guardano già in tanti, in troppi, ciascuno dal proprio punto di vista piccolo,medio, o grande borghese: Steve Jobs o Bill Gates, piuttosto che il Sig. Huawei (Ren Zhengfei 任正非 ), con i loro chip sottopelle, insieme ai loro epigoni in piccola, infima, scala, tipo Casaleggio e associati e le loro “democrazie” del futuro, piuttosto che i loro riproduttori su grande scala come le grandi, attuali, potenze imperialistiche: USA, RPC e i loro corridoi economici che segnano le rotte intorno a cui dare ulteriore sostanza alle loro mire egemoniche. Come questo accada e stia portando il pianeta all’autodistruzione, è stato materia del primo quaderno1 .
In questo secondo quaderno, mi piacerebbe rimettere la classe giusta dietro quel teodolite. Mi piacerebbe che si smettesse di parlare di “narrazioni” e “visioni”, come recentemente sottolineato da Carlo Galli2 , ma si iniziasse a parlare di piani concreti o, meglio ancora, di “piano” (план). Già, perché questi appunti saranno stesi partendo da un presupposto, che potrà piacere, far sorridere, o inorridire: ripartiremo da dove il discorso era stato, frettolosamente, interrotto, da dove il bambino era stato buttato via con l’acqua sporca, da dove le socialdemocrazie occidentali avevano preferito avventurosi percorsi alternativi, terze vie intrise di finta responsabilità, di vera paura del “che fare” una volta raggiunto il potere, nonché implicita ammissione di impotenza di fronte ai mutamenti epocali che il Capitale ha rovesciato sulla popolazione di questo pianeta, per la quasi totale maggioranza composta di classi subalterne, dicendo loro: “La Storia va in questa direzione, questa è la minestra”.
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Sovrani rispetto a chi e a che cosa?
di Michele Castaldo
Inutile ciurlare nel manico, la questione è seria e complicata, molto complicata; il modo peggiore di affrontarla è di usare un metodo tutto politicistico e ideologico, o peggio ancora, cercando di risvegliare le anime del passato, senza capire che l’acqua di un fiume non è mai la stessa.
L’Europa di questi anni, e di quello che il futuro riserva ai suoi abitanti, è tutt’altra cosa rispetto ai vecchi paesi colonialisti del tempo che fu. Vale per l’Europa ed a maggior ragione per la Russia, gli Usa, la Cina, l’India, i paesi latinoamericani e quelli mediorientali. Insomma ne è passata di acqua sotto i ponti dal ‘500, dall’’800 e dallo stesso ‘900.
Veniamo alla materia del contendere, al cosiddetto sovranismo, un termine molto in voga in questi ultimi anni, un contenitore dentro cui ognuno ci mette quel che più gli aggrada. Poi la solita domanda di rito: ma questo sovranismo è di destra o di sinistra? Domanda piuttosto capziosa perché si pretende di definire di sinistra o di destra secondo la classe che ne è espressione: di sinistra se a rivendicarlo è la classe proletaria diretta ovviamente dai comunisti; di destra se è la borghesia a mobilitarsi. Si tratta di un manicheismo teorico-politico un po’ infantile che non aiuta a capire l’evoluzione della storia in questa fase in Europa e nel resto del mondo.
Piuttosto che anteporre le nostre – legittime, ci mancherebbe - aspirazioni ideali, mettiamo i piedi per terra e cerchiamo di analizzare la realtà per quella che è, e a quali scenari andiamo incontro in Europa e non solo.
La storia ci dice che alcune grandi unioni di nazioni – dunque di etnie, di culture ecc. – si sono date solo a seguito di grandi guerre o di lotte di liberazione e guerra civile al proprio interno. Basta pensare agli Usa, all’Urss, o anche in misura ridotta, alla ex Jugoslavia, un paese, quest’ultimo, vero e proprio laboratorio per tutto il nostro ragionamento.
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L’immigrazione nel vero dibattito politico di France Insoumise e di Aufstehen
di Giacomo Marchetti*
Il lancio del movimento “Aufstehen” in Germania, il 4 settembre, e l’inizio della campagna elettorale per le europee di fine maggio prossimo di France Insoumise, hanno visto concentrare l’attenzione su alcune posizioni delle formazioni politiche, e dei loro esponenti, sulla questione dell’immigrazione, talvolta dando vita al fuoco incrociato della “sinistra liberista” e dei competitor politici.
I due contesti, quello tedesco e quello francese, hanno alcuni tratti comuni e alcune differenze che pertengono alla questione migratoria che devono essere tenuti in dovuta considerazione, così come il posizionamento delle due formazioni.
In Francia, il progetto di legge della maggioranza governativa sulla questione del diritto d’asilo e dell’immigrazione ha avuto un’opposizione in cui differenti forze hanno fatto fronte comune, di cui la France insoumise è stata il perno.
Invitiamo i sostenitori del “fronte europeo da Macron a Tsipras” – secondo la chiarissima formula di Massimo Cacciari – contro l’emergere delle forze populiste di destra a rileggere i contenuti dei provvedimenti della maggioranza governativa francese; è sufficiente per comprendere come il leader di En Marche sia parte integrante del problema, e non certo la “soluzione” riguardo la lotta alla destra xenofoba.
Durante il dibattito su questa legge, Jean-Luc Mélenchon, deputato e leader di France Insoumise, ha esortato i deputati dichiarando: “non dimenticate mai che noi stiamo discutendo di fronte ad un cimitero, quello dei 30.000 che sono morti nel Mediterraneo”.
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Liberali contro populisti, una contrapposizione ingannevole
di Serge Halimi e Pierre Rimbert
Le risposte alla crisi del 2008 hanno destabilizzato l’ordine politico e geopolitico. Le democrazie liberali, a lungo considerate la forma compiuta di governo, sono sulla difensiva. In opposizione alle «élites» urbane, le destre nazionaliste portano avanti una controrivoluzione culturale sul terreno dell’immigrazione e dei valori tradizionali. Ma hanno lo stesso progetto economico dei loro rivali. La mediatizzazione a oltranza di questa contrapposizione è fatta per costringere le popolazioni a scegliere fra uno di questi due mali
Budapest, 23 maggio 2018. Stephen Bannon, giacca scura un po’ abbondante e camicia viola aperta su una maglietta, si rivolge a un parterre di intellettuali e notabili ungheresi. «La miccia che ha innescato la rivoluzione Trump è stata accesa il 15 settembre 2008 alle 9, quando la banca Lehman Brothers è stata costretta al fallimento.» L’ex stratega della Casa bianca sa che qui la crisi è stata particolarmente violenta. «Le élite si sono aiutate da sole. Hanno socializzato interamente il rischio, sottolinea Bannon, ex vicepresidente della banca Goldman Sachs, che si fa finanziare le attività politiche da fondi speculativi. Ma la gente comune, chi l’ha salvata?» Questo «socialismo per i ricchi» avrebbe provocato in diversi punti del globo una vera «rivolta populista. Nel 2010, Viktor Orbán arriva al governo in Ungheria»; è stato «Trump prima di Trump».
A distanza di dieci anni, la tempesta finanziaria, il crollo economico mondiale e la crisi del debito pubblico in Europa sono scomparsi dai terminali Bloomberg dove scintillano i grafici vitali del capitalismo. Ma l’onda d’urto ha amplificato due grandi deregolamentazioni. In primo luogo, quella dell’ordine internazionale liberale del dopo guerra fredda, centrato sull’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico (Nato), sulle istituzioni finanziarie occidentali, sulla liberalizzazione dei commerci.
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L’anno che può sconvolgere l’Europa
di Antonio Lettieri
Le elezioni del Parlamento Ue in primavera indeboliranno ancora, con ogni probabilità, le coalizioni che hanno tradizionalmente guidato la maggior parte dei paesi, alla vigilia dei rinnovi delle principali cariche di vertice. In Italia, nonostante le ambiguità e contraddizioni, il governo giallo-verde gode dell’appoggio popolare. Se davvero attuerà una politica più espansiva sarà un segnale importante. E’ possibile un cambio di rotta sia da noi che nell’Unione
Nei sondaggi correnti la maggioranza degli elettori si schiera a favore del governo basato sulla coalizione fra Cinquestelle e Lega. Ma se si chiedesse ai militanti di ciascuno dei due partiti della coalizione quale sarebbe stata la sua scelta preferenziale, almeno una parte avrebbe espresso una scelta diversa: l’una a favore di una coalizione chiaramente di destra; l’altra per un’alleanza fra Cinquestelle e Partito democratico. La ragione è chiara. La lega di Salvini è un partito inequivocabilmente di destra. Mentre in una parte dei Cinquestelle, forse la maggioranza, prevale un’inclinazione di sinistra.
In mancanza di possibili soluzioni alternative, i due partiti hanno formato una coalizione di governo per molti versi eterogenea, come ha dimostrato la laboriosa elaborazione del “Contratto”, mediando le evidenti dissonanze su temi importanti come i migranti, la tassazione, le nazionalizzazioni, i rapporti con la giustizia, oltre alle divergenze nei rapporti europei come ha dimostrato l’incontro fra Salvini e Orban.
1. Ma prima di giudicare, a seconda dei diversi punti di vista, il governo in carica, è giusto porsi una domanda preliminare: da dove nasce questo quadro politico segnato da indubbie ambiguità e contraddizioni? E perché, non ostante le dissonanze, la coalizione gode del consenso di una inusuale maggioranza degli elettori? Posta in altri termini la domanda è: per quale ragione i due partiti che hanno governato il paese in alternanza nell’ultimo quarto di secolo - Il PD e Forza Italia - hanno insieme raggiunto una misera somma di voti inferiore a quella del solo Movimento Cinquestelle, nato da appena qualche anno? E’ sufficiente eludere la domanda ricorrendo all’etichetta del populismo, nuovo passepartout dell’analisi politica? E, infine, non si tratta dello stesso elettorato che appena quattro anni fa aveva votato con una schiacciante maggioranza di oltre il 40 per cento per Matteo Renzi, acclamato alla testa del partito democratico?
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Verona e dintorni
di Franco Romanò
L’aggressione omofoba e nazista di Verona non può essere ridotta semplicisticamente a effetto dell’esistenza di un governo Salvini (Conte è un prestanome senza dignità e Di Maio solo il primo napoletano che si è fatto fregare da un milanese), sebbene come appare evidente dal 4 marzo in poi le aggressioni di questa natura siano aumentate e con una escalation di pericolosità continua. Non si può tuttavia distaccare questo evento da un processo di più ampia portata e durata nel tempo e che ha le sue origini negli anni ’80 del secolo scorso. Proprio ripensando a questo mi sono ricordato di due libri importanti, uno recente di Marco Revelli, Non ti riconosco, un Grand Tour che comincia in Brianza e finisce a Taranto (guarda caso), Einaudi 2016. Rileggendo la sua drammatica descrizione della fine del mito del nord est, la memoria mi ha riportato al secondo libro, un romanzo – forse il solo - che abbia colto fin dall’inizio che cos’erano i distretti industriali e chi erano i personaggi di quella effimera fortuna: Vita standard di un venditore provvisorio di collant di Aldo Busi, con i suoi due protagonisti, Angelo Bazarovi e Celestino Lometto. Busi seppe condensare in questi due uomini che si mescolano fino a diventare un personaggio unico a due teste, per poi separarsi nel finale, un mostro sociale, i cui esemplari si sono poi moltiplicati. Revelli si occupa marginalmente della tipologia umana, ma mette maggiormente in evidenza gli aspetti tragicomici di alcuni progetti da un punto di vista sociologico e li condensa in due capitoli. Il primo è dedicato a Consonno, paese dell’alta Brianza che avrebbe dovuto diventare la Las Vegas d’Italia, il secondo dedicato appunto ai distretti industriali del nord est.
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Il dibattito (guasto) tra Fassina e gli anti-Fassina
di Militant
Sembrerebbe tutto un proliferare di patrioti, a giudicare dall’ennesima iniziativa promossa questa volta da Fassina e D’Attorre. In realtà, tutto si muove nel placido solco della virtualità, dove rossi, bruni e rossobruni se le danno di santa ragione a patto di non incontrarsi mai nella realtà. Fassina è però riuscito ad aizzare uno scombinato dibattito che merita d’essere commentato. Patria e Costituzione, dunque. Su cui si sono scatenati i cacciatori di rossobruni. Che partono da un dato incontrovertibile: Fassina è un essere squalificato. Basterebbe questo a chiudere il discorso (e noi la pensiamo proprio così: in politica non conta cosa dice chi, ma chi dice cosa). Eppure – come sempre – il dibattito sulla “questione nazionale” (perché, al fondo, di questo parliamo quando parliamo di “rossobrunismo”, “populismo”, “sovranismo” e “internazionalismo”) parte immediatamente per la tangente e il problema non è più Fassina, ma i temi politici che Fassina solleva malamente. Fassina è un pretesto, il problema è altrove. Vediamo cosa dice Fassina nel pezzo pubblicato sul manifesto del 6 settembre:
«da un lato, non regge più l’impalcatura mercantilista del mercato unico e dell’euro e, dall’altro, è venuta meno, in realtà è stata sempre un miraggio, la prospettiva della sovranità democratica europea. Così, gli europeisti, sia liberal conservatori, sia delle sinistre, in tutte le sfumature, sono senza programma fondamentale, cornice per un’opposizione convinta e convincente».
E’ la spudorata verità di questi anni, eppure tale contesto viene semplicemente eluso dagli europeisti di ogni risma, soprattutto di quelli provenienti da sinistra. L’Unione europea ha fallito, è un progetto politico-economico totalmente dentro logiche capitalistiche e ordoliberali, e va dunque combattuto e abbattuto.
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Agamben, stato di eccezione
di Antonio Coratti
Giorgio Agamben: Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 120, € 14,00
La straordinaria attualità del saggio di Agamben, Stato di eccezione (2003), è propria di una visione che non può essere ridotta all’analogia con il singolo evento “eccezionale” di cui ci aggiornano con sempre maggiore frequenza le cronache dei media; essa riguarda, piuttosto, lo spirito di una intera epoca, di cui i singoli eventi non sono che manifestazioni contingenti. In particolare, a partire dalla prima guerra mondiale si è costituito «uno stato di eccezione permanente», poi diventata «una pratica corrente nelle democrazie europee», che, nel corso dei decenni, ha affrontato l’emergenza militare, l’emergenza economica[1], quindi nucleare, fino a giungere all’emergenza terrorismo e alla “questione migranti” dei nostri giorni. In tutte queste manifestazioni di problemi politici, è stata proprio “la politica”, con tutti i suoi rapporti inter-istituzionali, a venir meno e a cedere spazio allo stato di eccezione che, normalizzato, diventa un dispositivo letale per la democrazia stessa messa tra parentesi, per i diritti che si cedono in nome dell’emergenza e, in definitiva, per tutte le nostre vite. Nella sua analisi, Agamben mette in luce i risvolti che lo stato di eccezione permanente impone ai rapporti tra diritto e politica, tra legge e vita, tracciandone confini inediti rispetto alla tradizione della Repubblica romana, in cui lo stato d’eccezione si dispiegava in tutt’altro modo e per altri fini. Contrariamente alla teoria moderna dello Stato, per la quale il concetto di sovranità assume una connotazione particolare, contrassegnata dall’unità indistinta e indeterminata di auctoritas e potestas, nel mondo della Repubblica romana auctoritas e potestas sono funzioni differenti, demandate a soggetti diversi e, per certi aspetti, in lotta continua e dialettica fra loro.
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Riflessioni a sinistra
di Francesco Fustaneo
Riceviamo da Francesco Fustaneo e volentieri pubblichiamo come contributo alla discussione
Oramai da più di un decennio la c.d. sinistra “radicale” è confinata in aree extra-istituzionali con percentuali elettorali irrisorie e come se ciò non bastasse è frammentata in tanti partiti, movimenti e correnti, spesso guidati da leader impalpabili.
E’ pacifico che utilizzando il termine “radicale”(di per sé comunque criticabile), si discerne quelle forze politiche comuniste o postcomuniste o comunque collocabili alla sinistra del P.D.; quest’ultimo ormai è rimasto un partito “di sinistra” solo per i media mainstream; è innegabile infatti che avendo propinato per anni politiche neoliberiste, abbattendo i diritti dei lavoratori e il welfare, tale compagine politica sia riuscita a realizzare per stessa ammissione dei suoi avversari, obiettivi prefissati però rimasti sempre preclusi alle stesse destre al governo.
Eliminerei dal novero delle forze radicali di sinistra il gruppo di S.e.l., attualmente trasformatosi in L.e.u. che puntando ad un rapporto ambivalente e ambiguo col P.d. ha costruito il proprio percorso politico, riuscendo per far approdare in Parlamento i suoi più rampanti dirigenti e al contempo all’ultima tornata elettorale, grazie alle liste bloccate, anche personaggi che hanno ricoperto rilevanti ruoli istituzionali nella legislatura precedente, ma non certo amatissimi dall’elettorato, come la Boldrini e Grasso, fallendo però nell’obiettivo di riconfermare la rielezione di Massimo D’Alema.
Fatta questa breve ma doverosa premessa, precisiamo che per la sinistra che si ispira ancora ad una matrice socialista e/o comunista, il quadro è a dir poco desolante.
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Guida al dibattito sulla finanziaria
Un ridicolo balletto tra Europa e pagliacci al governo
di coniarerivolta
“Non sparate sul tetto del 3%” implora l’economista De Romanis dalle colonne del Corriere della Sera di lunedì 10 settembre. Nelle prossime settimane se ne parlerà spesso: il governo giallo-verde sta scrivendo la manovra finanziaria e tutti si chiedono se la spesa pubblica resterà all’interno del perimetro imposto dall’Europa, il famigerato limite del 3% del disavanzo pubblico, oppure se sforerà i confini pattuiti per finanziare un ambizioso (nei numeri) programma di governo, che prometteva un reddito di cittadinanza, la flat tax e l’abolizione della riforma Fornero. Il dilemma è chiaro: tranquillizzare i mercati, l’Europa e la De Romanis, varando la solita finanziaria di tagli e sacrifici, oppure accontentare i propri cittadini, che si aspettano quantomeno un assaggio delle promesse elettorali, ovvero un allentamento della pressione inflitta da dieci anni di crisi? È il dilemma che caratterizza la politica europea da oltre trent’anni, un lasso di tempo tanto lungo quanto privo di colpi di scena: puntualmente, i nostri governi di qualsiasi colore politico hanno eseguito scrupolosamente quello che ci chiede l’Europa, la disciplina di bilancio. Tutto lascia intendere che la parabola del governo “più populista d’Europa” sarà – ingloriosamente – la medesima. Da ultimo, le parole del vicepremier Salvini, quello che sulla carta dovrebbe recitare la parte del duro con l’Europa ma che sembra capace di fare il cattivo solo con i più deboli, gli immigrati imprigionati sui barconi, mentre sfodera un’inaspettata sensibilità quando si confronta con le istituzioni europee: “non sforeremo ma sfioreremo il 3%”. Poesia, che in prosa significa: come tutti i governi che ci hanno preceduto, rispetteremo i vincoli europei ma faremo talmente tanto chiasso da far sembrare che il tavolo stia per saltare. Manco a dirlo, il dibattito pubblico si sta concentrando sul chiasso – come si ci fosse davvero un briciolo di possibilità che il governo giallo-verde vari una finanziaria in controtendenza rispetto all’austerità che sta massacrando il Paese.
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Lettera ad un amico straniero
di Moreno Pasquinelli
Caro amico,
Mi dici che nel tuo paese c'è una campagna massiccia tesa a far credere che qui avanza il fascismo, che Salvini sarebbe addirittura il nuovo Mussolini. Mi scrivi che la maggior parte degli intellettuali di sinistra, e di estrema sinistra, nel loro rigetto di ogni forma di nazionalismo, giungono addirittura a difendere questa Unione europea, considerata un freno o kathéchon alla barbarie sovranista e "rossobruna". Mi chiedi dunque come stanno davvero le cose in Italia.
Provo a risponderti, nella speranza che quanto scrivo ti sia d'aiuto.
Voglio essere franco, anzitutto sugli intellettuali di sinistra. Qui da noi, nella loro gran parte, essi già oggi occupano la prima linea del fronte nemico. Non sparano solo contro il nazionalismo di marca fascistoide, ma anzitutto contro la sinistra patriottica, costituzionale e sovranista. C’è una sintonia programmatica perfetta tra la potente élite ordoliberista e questi intellettuali.
Il teorema, anzi la prima equazione dell’élite (che questi intellettuali accolgono) è alquanto semplice: populismo=fascismo⁄sinistra patriottica=rossobunismo. Il risultato dell’equazione — siccome il populismo in Italia, nelle sue due versioni, è di massa, anzi ha un’egemonia crescente — è dunque che l’Italia si andrebbe fascistizzando, che le masse popolari si stanno fascistizzando.
Quanto disprezzo borghese in questo giudizio! Quanta distanza dalla realtà e dalle istanze delle masse popolari! Quanto pressapochismo teorico! Quanta disonestà intellettuale! Quanti pregiudizi anti-italiani!
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Il mutualismo tra subalternità e autonomia
di Fabio Ciabatti
È finito un periodo storico, il movimento operaio conosciuto nel Novecento non esiste più, i suoi strumenti fondamentali, il partito, il sindacato, le cooperative ecc. si sono trasformati in qualcosa di diverso rispetto alle loro origini. Le varie figure lavorative non si rapportano più tra di loro. Il moderno proletariato forma la consapevolezza di sé tramite flussi di coscienza molto complessi, sul posto di lavoro, fuori da esso, sulla rete. La precarietà si è stabilizzata entrando in conflitto con l’accresciuto grado di conoscenza dei lavoratori e lavoratrici, creando una classe più mutevole e dinamica.
Se questo è lo scenario da cui parte Salvatore Cannavò nel suo libro intitolato Mutualismo, la domanda sorge spontanea: come ricostruire “un soggetto che nella sua necessaria, e salutare, pluralità, sia dotato di una qualche unità di intenti e organizzativa”?1 Per dare una risposta politica alla dispersione e alla frantumazione, secondo l’autore, occorre tornare alle origini, ricominciare dal mutualismo degli albori del movimento operaio. In altri termini, la tesi centrale del libro è che il politico, per “‘farsi’ veramente, deve inverarsi in una dimensione sociale”.2 Di conseguenza, il politico oggi non può che essere un processo di socializzazione, nelle lotte e nelle idee, dei vari rivoli di cui si compone il moderno proletariato, un processo di riconoscimento reciproco tra idee di alternativa e bisogni elementari, tra teoria e prassi. “Al tempo della ‘precarietà permanente’ occorre iniettare nel sistema sociale dosi di ‘stabilità’, garanzia, supporto e assistenza”.3
L’argomentazione è, in linea generale, condivisibile. Ogni ritorno alle origini, però, contiene in sé un rischio, quello di leggere la storia che si è svolta tra l’inizio da recuperare e la propria contemporaneità come una sorta di parentesi, frutto del caso, dell’irrazionalità se non addirittura dell’inganno.
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Squilibrio: i cambiamenti strutturali dell’economia e il ruolo dello Stato
di Angelantonio Viscione
Stimolare la domanda e gli investimenti non sempre garantisce una crescita stabile del sistema economico. Lucarelli e Romano in “Squilibrio” si servono dei preziosi contributi della teoria economica critica per spiegare la complessa dinamica dello sviluppo capitalistico e individuare il ruolo dello Stato nei cambiamenti strutturali dell’economia
A dieci anni dallo scoppio della grande crisi un numero sempre maggiore di economisti ed istituzioni sembra finalmente riscoprire il ruolo dello Stato in economia. Le evidenze empiriche raccolte negli anni recenti hanno infatti contribuito a far affermare sempre di più la tesi per cui l’intervento pubblico sia necessario almeno a governare le fluttuazioni cicliche di breve periodo delle componenti private della domanda aggregata. In altre parole, si riconosce sempre di più che nelle moderne economie capitalistiche i consumi e gli investimenti privati sono per natura instabili e, dunque, quando il settore privato comincia a risparmiare più di quello che spende, tocca allo Stato rilanciare l’economia aumentando la sua spesa in deficit[1].
Lo Stato moderno non può però limitarsi solo a questo. Il momento storico non aiuta il dibattito prevalente ad andare oltre la semplice dicotomia austerità – politica espansiva, ma i sostenitori della linea interventista corrono il rischio di trascurare il ruolo centrale che riveste nell’economia anche la composizione qualitativa degli investimenti. Non si tratta di un elemento marginale e laterale della politica economica: stimolare indiscriminatamente il livello degli investimenti non è sufficiente a garantire una crescita stabile.
Si pensi proprio all’Italia. Prima della crisi economica, nell’arco temporale che va dal 1992 al 2008, l’Italia è uno dei pochi paesi europei che conosce una crescita nella quota investimenti in macchinari sul Pil ma, allo stesso tempo, conosce un ristagno della quota di spesa del sistema produttivo in Ricerca e Sviluppo (R&S) sul Pil (Lucarelli et al. 2013). Al contrario, nello stesso periodo, la tendenza generale in Europa è quella di un calo della quota investimenti in macchinari sul Pil ma di una crescita della quota di spesa del sistema produttivo in R&S sul Pil.
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Un socialismo possibile. Per aprire un dibattito. Parte II
di Gianbattista Cadoppi
Qui la prima parte
Dalla riforma al socialismo di mercato. La Cina nella prima fase del socialismo
Ciò che era stato fatto in epoca maoista poteva costituire una solida base per proiettarsi in avanti. Da un reddito pro-capite che era la metà di quello indiano nel 1949 è passata allo stesso livello dell’India alla metà degli anni Settanta. Con la rivoluzione la Cina è di nuovo uno stato completamente sovrano che, per la prima volta dopo una eclissi secolare, riesce nell’unificazione nazionale godendo di peso e riconoscimento internazionale.
La Cina nel 1978 può contare su importanti complessi industriali e una potente industria militare-spaziale; l’agricoltura dispone di grandi opere idrauliche e di infrastrutture, comunque insufficienti se stimiamo che il paese possiede quasi la quarta parte della popolazione mondiale ma il suo territorio, per ragioni naturali e geografiche, costituisce solo il 7 per cento delle superfici arabili a livello mondiale. Il paese asiatico ha anche altri vantaggi, non soffre di processi inflazionistici, né di pesanti debiti esteri. La crescita dell’economia, però, si rivela insufficiente, e la produttività molto bassa. Nel 1978, il 3° plenum dell’11° CC delibera di passare alla riforma. Gli effetti dell’introduzione del mercato sono stati semplicemente spettacolari.
Si sente spesso dire che la Cina dopo avere privilegiato le esportazioni dovrebbe ora privilegiare il consumo interno. Abbiamo detto della persistente mancanza di beni di consumo nei paesi socialisti, è ciò crea molte opportunità non sfruttate per la produzione di beni di consumo e servizi. Anche il trasferimento di quantità modeste di risorse nella produzione di beni di consumo, così hanno ragionato i dirigenti cinesi, avrebbe dovuto rapidamente aumentarne la domanda.
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“Follia capitale”
di Salvatore Bravo
Il valore di un autore non è consumabile come la merce, non sono in scadenza. I grandi pensatori resistono e sopravvivono alle mode, all’idolatria accademica come all’occultamento scientemente organizzato. Le idee sopravvivono ai tempi, ai commerci, come alle tempeste ideologiche. Il caso Marx è esemplificativo, il filosofo spettralmente celato dopo l’89, oggetto di un atto di rimozione collettiva in nome del capitalismo globale, oggi è invocato per darci strumenti di lettura per una realtà sempre più incomprensibile, esposta alla fatalizzazione. Non si tratta di rendere Marx un feticcio da interrogare, anzi, ma di discernere nella complessità dell’opera, vero sistema aperto, gli strumenti interpretativi ancora validi. E’ un’operazione non facile, se si considera che solo una parte minimale dell’opera marxiana ha raggiunto una forma tale da farla giudicare da Marx degna di pubblicazione.
L’alienazione universale
Uno degli elementi fondanti che rende Marx terribilmente attuale è il concetto di “alienazione universale”. Lo sviluppo tecnologico, la capacità produttiva sempre più elevata, comportano una alienazione esponenziale, appunto “universale”. Marx era consapevole, e specialmente osservava come il progresso tecnologico implicava un’incessante regressione dei rapporti sociali. Le tecnologie di per sé, potrebbero essere slancio verso l’uscita dalla fatica, dal lavoro coatto ed alienato, ma se esse sono inserite all’interno di una struttura sociale, le cui relazioni sono di tipo verticistico e gerarchico, divengono strumento per opprimere maggiormente gli oppressi. Le tecnologie con il loro sviluppo geometrico, incontenibile, favoriscono l’assalto del capitalismo assoluto a tutto il pianeta; il saccheggio sotto l’egida del “valore in movimento”, come definiva Marx il capitale. Forme di alienazione tradizionale si sommano a nuove forme di estraniamento. Le tecnologie sono esse stesse vendute sul mercato, sostengono la globalizzazione e la produzione dell’accumulo di capitale.
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Il Venezuela, l'Italia, l'11 settembre
di Geraldina Colotti
Molte volte si è richiamata l'analogia tra gli attacchi che hanno portato al colpo di Stato in Cile, l'11 settembre 1973, e quelli rivolti contro il Venezuela oggi. E' utile ricordarlo ancora in un momento in cui il portato del Novecento torna, prepotentemente, a interrogare il modello capitalista con le sue grandi questioni aperte, sul piano concreto e simbolico.
In America latina – continente che dall'inizio di questo secolo ha dettato il passo all'Europa, culla del movimento operaio - nel mirino vi sono tre punti fondamentali per le speranze di futuro del socialismo: la rivoluzione cubana, vittoriosa e indomita dal 1959; la rivoluzione sandinista, riemersa faticosamente dalle catacombe in cui era sprofondata dopo il ritorno del neoliberismo in Nicaragua, e ora di nuovo a rischio di essere ricacciata nel baratro; e la rivoluzione bolivariana, trincea di quel “socialismo del XXI secolo” che ha voluto rinnovare quello del secolo precedente cambiandone la definizione ma non il progetto e la finalità.
In Europa, e specialmente in Italia - tornata spaventosamente indietro dal lungo ciclo di lotta rivoluzionaria, anche di guerriglia, degli anni 1970 -, sembra non ci sia fine al peggio. Sembra, addirittura, che a cantarle chiare siano componenti xenofobe o falsi sovranismi corporativi, che turlupinano le masse con la peggiore demagogia, proprio mentre affermano di essere “liberi da tutte le ideologie”.
Vale, invece, ancora, quanto scriveva Marx nel 1859: “Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”.
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Vaccini obbligatori: fenomenologia del positivismo scientista a sostegno delle politiche tecnocratiche
di Bazaar
Il dibattito sui vaccini obbligatori, e sulle misure da prendere per chi non rispetta la profilassi, infiamma da tempo.
Graziano Delrio esulta a causa dell’approvazione del decreto Lorenzin in un modo piuttosto singolare: « Ha vinto la ragione, ha vinto la scienza ».
https://twitter.com/graziano_delrio/status/1037353981994065921
Insomma, un decreto legislativo che dovrebbe essere frutto della dialettica politica intorno ai dati empirici offerti dalla dialettica scientifica, si trasforma in uno scontro politico in cui una parte – la parte finanziariamente e mediaticamente egemone – professa di promuovere prometeicamente un sapere obiettivamente vero, definito “scientifico”. Questa parte politica esprime biasimo verso la controparte, che trova perlopiù consenso in chi si informa al di fuori dal circuito mediatico mainstream, e che viene tacciata di essere “insipiente”, “ignorante” del metodo scientifico, “credulona” e affetta da “pregiudizi”: che soffre di un patologico “analfabetismo funzionale”.
Secondo Repubblica il Capo dello Stato avrebbe dichiarato che: «Nei confronti della scienza non possiamo esprimere indifferenza o diffidenza verso le sue affermazioni e i suoi risultati » e che «Non sempre l'uomo interpreta bene la parte di Ulisse alla ricerca della conoscenza e nel saper distinguere il vero dal falso ».
La Lorenzin, di cui porta il nome il decreto, avrebbe invece dichiarato che: « Si tratta di una vittoria della scienza su ignoranza e pregiudizio ».
Secondo il segretario del maggior partito dell’opposizione Maurizio Martina: «è stata battuta la loro visione oscurantista », ovvero la “visione” della controparte politica non favorevole all’obbligo vaccinale.
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ILVA: l’unica scelta libera ce l’aveva il governo
di Rita Cantalino
Prologo
È difficile scrivere qualcosa su quello che sta accadendo a Taranto in questi giorni per una ragione molto semplice: non c’è niente di nuovo. Che il popolo tarantino fosse stato sacrificato sull’altare del progresso e del profitto era un dato che avevamo acquisito già da tempo. Che ogni reale tentativo di mettere un freno a questa situazione dovesse cadere nel vuoto, lo avevamo visto nel 2012 con il decreto Salva Ilva, che mandò a farsi benedire il lavoro di indagine della gip Todisco e di fatto violò 17 articoli della Costituzione, imponendo la riapertura e la ripresa della produzione di un impianto sequestrato.
Che i tarantini debbano continuare a morire è una cosa che si dice dall’inizio degli anni ’70, quando appunto divenne palese che erano condannati a farlo. Quando cominciarono le denunce, le accuse di allarmismo e tutto quel teatrino che accompagna la difesa strenua dei territori da parte di chi li vive, e la rivendicazione del diritto a spolparli da parte di chi se ne appropria.
Chi scrive non è mai stato di parte rispetto a questo o quello schieramento politico, ha sempre voluto fare dei conflitti ambientali la lente per guardare a questo paese e alle sue contraddizioni, annoverando tra i buoni quelli che pensavano che chi abita un territorio debba decidere cosa ci accade, e che nulla debba ledere questo suo diritto e quello alla salute, e tra i cattivi quelli che invece si imponevano per sopraffare questi ultimi, per arricchirsi o arricchire qualcuno, sulla pelle di qualcun altro.
Non c’è nulla di complicato in questo, come non c’è nulla di complicato in quello che è accaduto a Taranto, dove si è consumata una scelta in questo senso da parte del governo, e dove si è consumato il tradimento da parte di chi aveva promesso di combattere il mostro e ha deciso poi di lasciarlo vincere, come sempre.
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Lavoro, patria e costituzione
di Vladimiro Giacché
Pubblichiamo l'intervento di Vladimiro Giacché all'assemblea di presentazione dell’associazione “Patria e Costituzione” tenutasi a Roma l'8 settembre 2018
L’incontro di oggi ruota attorno a 3 parole: lavoro, patria e Costituzione.
L’idea di fondo è che oggi il lavoro (gli interessi dei lavoratori) possa essere difeso soltanto attraverso un patriottismo costituzionale.
La patria di cui parliamo oggi ha una specifica genesi e una specifica configurazione storico/istituzionale: è la Repubblica nata dalla Resistenza antifascista e contro l’invasore nazista, una Repubblica che ha per l’appunto la Costituzione (i valori cui si ispira, i diritti che rende esigibili) quale architrave istituzionale e stella polare delle sue leggi e dell’operato dei suoi organi statuali.
Dire questo oggi, e soprattutto praticare una politica conseguente, non è più scontato. Non lo è da anni, in verità.
Il primo motivo di questo è lo svuotamento/negazione della Costituzione da parte dei Trattati europei e della legislazione che a essi si ispira.
Un esempio tra i molti possibili: il recepimento nella nostra legislazione della sola Unione bancaria europea pone in discussione (nega) ben 3 articoli della Costituzione:
- l’art. 43, che in coerenza con l’importanza attribuita al settore pubblico dell’economia dalla Costituzione, prevede la possibilità di espropriare “a fini di utilità generale” (con indennizzo) “imprese o categorie di imprese…che abbiano carattere di preminente interesse generale”;
- l’art. 47, secondo il quale la Repubblica tutela il risparmio “in tutte le sue forme”, e quindi senz’altro nella forma di deposito di conto corrente;
- e, se passerà la cosiddetta riforma delle banche di credito cooperativo prevista dalla L. 49/2016, anche l’art. 45, il quale prevede che “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”.
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“Dialettica o eclettismo?”
Un’anticritica
di Eros Barone
«Amico, non veniamo per Callia e non siamo sofisti. Forza, apri! Siamo venuti per vedere Protagora. Digli che siamo qui!»
Platone, Protagora, 314, c-e.1
Ringrazio innanzitutto Fabrizio Marchi per avermi offerto la preziosa e stimolante opportunità di sviluppare e approfondire il discorso a partire dai punti di consenso e di dissenso che egli ha espresso, sia pur sinteticamente, nella nota dedicata ad alcuni aspetti cruciali del dilemma “Dialettica o eclettismo?” qui , che ho posto al centro del mio articolo qui, laddove non può sfuggire l’importanza teorica e il carattere dirimente di tale dilemma sia nell’analisi scientifica che nell’orientamento pratico del movimento di classe. Seguirò quindi, nella mia disàmina, l’ordine di successione adottato da Marchi nella sua nota.
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Il ‘metodo delle etero-integrazioni’ e l’autonomia teorica del marxismo
Prima di entrare nel merito delle questioni poste dal mio interlocutore, ritengo opportuno premettere alcune considerazioni generali e di metodo. Orbene, è un classico ‘topos’ della cultura borghese di sinistra, al quale mi sembra che anche Marchi in qualche misura soggiaccia, distinguere tra un marxismo ‘critico’ ed ‘aperto’ e un marxismo ‘dogmatico’ e ‘chiuso’. Questa distinzione è stata spesso assunta e fatta propria da un buon numero di marxisti i quali, non avendola basata sui propri princìpi, cioè in sostanza non avendola ritradotta in un linguaggio rigoroso, hanno finito col mutuarne tutto il contenuto ideologico di origine: ciò è avvenuto non solo in Occidente, ma anche negli stessi paesi socialisti, quantunque lì la ricezione del ‘topos’ sia avvenuta ‘a posteriori’, cioè per opporre il nuovo ‘Diamat’ al vecchio ‘Diamat’. In realtà, la suddetta ricezione si è sempre realizzata, in un senso o nell’altro, sull’onda di una qualche ‘criticità’ del pensiero borghese, da integrare in quello marxista.
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