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Mark Lilla, “L’identità non è di sinistra. Oltre l’antipolitica”

di Alessandro Visalli

IMG 8596 kXbB U11012380825258fhF 1024x576LaStampa.itMark Lilla insegna storia alla Columbia e scrive questo libro che fa parte di un vasto processo di riflessione della sinistra internazionale di fronte alle turbolenze di questa fase terminale della seconda globalizzazione (o, come dice, Dani Rodrik della “iperglobalizzazione”) nel 2017. Il punto di attacco dell’autore è la concezione individualista della politica che ha interessato sempre più quelle che chiama “le forze politiche progressiste” dimentiche delle dimensioni collettive, individuate come oppressive e talvolta conservatrici. A partire dalla metà del secolo scorso, man mano che si sviluppava e radicava l’opulenta cultura dei consumi, ha infatti guadagnato centralità quella che chiama “la politica identitaria”; ovvero “un fenomeno egoriferito e antipolitico” che, come dice nettamente, “non è di sinistra né liberal, anche se i democratici, purtroppo, sono caduti nella trappola”.

Questa trasformazione è avvenuta prima in America e solo dopo in Europa, tra i motivi addotti, ci sono l’impatto del marxismo, e di una minore immigrazione. Oggi, invece abbiamo sia il tramonto del marxismo, sia una maggiore disgregazione sociale, con famiglie sempre più piccole e tecnologia che divide, invece di unire. Tutte queste condizioni, inclusa l’immigrazione, “alimentano lo sviluppo di una questione identitaria a destra”, ma il vero problema, per Lilla, è che non si sviluppa la versione di sinistra. Certo, in Francia c’è una serrata discussione sul multiculturalismo ed il futuro della tradizione repubblicana, in Inghilterra Jeremy Corbyn sta iniziando ad affrontare il tema, ma in generale accade che “l’immigrazione clandestina offre ai democratici una nuova categoria di ultimi per cui combattere, ora che la classe operaia li ha abbandonati per affidarsi alla protezione dei populisti” (p.9).

La sinistra è bloccata anche perché non riesce a trovare un modo convincente di parlare dello Stato-nazione “come locus dell’azione e della legittimazione democratica”, ciò anche se in realtà “la vecchia sinistra considerava l’autodeterminazione nazionale come condizione necessaria dell’autodeterminazione democratica”, ed a partire da casi come la lotta d’indipendenza della Grecia sin dall’ottocento, ai conflitti del novecento per la decolonizzazione (si veda per una lettura profonda e critica di questi temi Losurdo “Il marxismo occidentale”). Invece, come dice l’autore, “la sinistra di oggi si ostina invece a trarre le conclusioni sbagliate dalle guerre mondiali, cioè che lo Stato-nazione è per sua natura intollerante e violento, e perciò va superato”.

Ma nelle condizioni in cui i cittadini europei si sentono schiacciati tra i ditkat mercatisti di Bruxelles e l’immigrazione di massa, che alza la competizione nei propri luoghi di vita e lavoro (non certo alla borghesia che per lo più vota con la sinistra, che anzi trova interessanti occasioni a buon mercato per godere di lavoro di assistenza e cura), molti sentono sempre più di non poter controllare il proprio destino. In questo stato “è molto difficile concepire un futuro per la sinistra europea se non si deciderà a riorientarsi sul paradigma della cittadinanza, il che significa assumere un atteggiamento critico verso la burocrazia dell’Unione Europea e combattere apertamente l’immigrazione illegale” (p. 10).

Oggi sembra peraltro rimasta solo la “politica identitaria” (per approfondire il concetto, Jonathan Friedman “Politicamente corretto”) che, però, non può essere un credibile sostituto del marxismo perché non offre alcuna visione complessiva della società, dell’economia e della cultura. Anzi è precisamente costruita sulla riduzione della posizione di sguardo sul mondo ad un semplice autorispecchiamento morale. Lilla la vede come una forma di “antipolitica” che intanto tiene occupati, come una sorta di segnaposto, mentre si cerca di trovare una qualche idea sul mondo.

Storicamente una simile posizione sostitutiva delle visioni generali ha iniziato ad essere usata negli anni sessanta in America dalla cosiddetta “new left” che cercava collanti nelle battaglie per i diritti civili, nell’orgoglio delle minoranze. Man mano che scemava l’energia delle mobilitazioni questo orientamento ha subito una trasformazione inavvertita: ha cominciato ad indicare il proprio io interiore, il self, come “entità irripetibile che reclamava protezione”. Si tratta di anni nei quali esplode l’interesse per la psicoanalisi, secondo una linea che negli anni ottanta fa un balzo: legittimando direttamente l’autodefinizione come obiettivo politico. Avvampano allora battaglie che non sono riconducibili ad un progetto generale di società (almeno non coerente): l’ambientalismo, il femminismo, l’attivismo contro la guerra, … Sostenendo una tesi molto vicina a quella di Aldo Barba e Massimo Pivetti in “La scomparsa della sinistra in Europa”, Lilla propone di considerare che è “per inseguire quella molteplicità incomprensibile [che] la sinistra si è disgregata, diventando una litigiosa famiglia di movimenti sociali senza una visione comune del futuro”. Alla fine ogni interesse per l’economia e la politica estera è scomparso, insieme agli schemi interpretativi che consentivano di leggerle, ed ogni cosa ha cominciato a ruotare intorno ad i “dannati della terra” di turno, i deboli e discriminati purché per ragioni riconducibili a ragioni identitarie, etniche o di genere. Nel frattempo i “subalterni”, i vecchi lavoratori, o i disoccupati e sottoccupati, creati dalla macchina produttiva del capitalismo, rimasta senza alternative nella mente della sinistra, sono stati ignorati ed hanno cominciato a votare a destra.

L’idea che il multiculturalismo sia il nuovo orizzonte valoriale e strategico della sinistra (un mondo fatto tutto di minoranze identitarie i cui voti andare a prendere uno per uno) ha così preso piede. Ma alla fine si è trasformato in un progetto ideologico il cui risultato è di delegittimare le istanze della cittadinanza e dell’esperienza comune.

È questo il quadro nel quale si materializza la vittoria di Donald Trump. L’aver dimenticato che, come diceva Lincoln: “il sentimento pubblico è tutto – con il suo favore niente può fallire; contro il suo favore, niente può avere successo- chi plasma il sentimento pubblico agisce più in profondità di chi mette in pratica gli statuti e scrive le sentenze”, ed il sentimento è stato plasmato da altri.

La sinistra ha peraltro guadagnato l’egemonia solo quando ha costruito una visione ambiziosa del futuro che coinvolgesse tutti, costruendo l’immaginario; ad esempio con Roosevelt il quale si riferiva e rendeva credibile un’America “in cui i cittadini erano coinvolti in una impresa collettiva il cui scopo era proteggersi a vicenda dai rischi, dalle difficoltà e dalla soppressione dei diritti fondamentali”. Una missione le cui parole d’ordine erano ‘solidarietà’, ‘opportunità’ e ‘senso del dovere’.

La destra ha invece ripreso l’egemonia con Reagan, quando ha proposto con successo un’America individualista, “dove le famiglie, le piccole comunità e gli affari sarebbero fioriti soltanto dopo aver spezzato le catene dello Stato” (p.21). Le parole d’ordine erano qui ‘autonomia’ e ‘stato minimo’. Da un modello politico ad un modello antipolitico.

Ora la sinistra si è adattata ad una variante colorata di questa antipolitica che perde di vista ciò che condividiamo come cittadini e ci lega come nazione. Ma in questo modo la sinistra liberal è caduta in un paradosso che la neutralizza, perché la politica identitaria “atrofizza la capacità di pensare e agire in modo da ottenere i risultati che dice di voler raggiungere. È ossessionato dai simboli: creare una rappresentazione superficiale della diversità all’interno dei centri decisionali, riscrivere la storia per concentrarsi su gruppi marginali e talvolta minuscoli, inventare eufemismi inoffensivi per descrivere la realtà sociale, proteggere giovano occhi e orecchie, già peraltro abituati a film truculenti, da spiacevoli incontri con punti di vista diversi. Il liberalismo identitario ha smesso di essere un progetto politico e si è trasformato in un progetto evangelico” (p.27).

Questa è una strada senza uscita, perché non ci può essere una politica liberal senza un “noi”, senza “un senso di ciò che siamo come cittadini e ciò che dobbiamo gli uni agli altri”. Bisogna allora fare altro, “offrire la visione di un destino comune fondato su qualcosa che gli americani di ogni estrazione davvero condividono”. Senza tornare a New Deal, perché è impossibile, bisogna spezzare l’incantesimo e tornare ad occuparci di ciò che ci unisce.

Certo nel seguito, tornando a Reagan, viene descritta la base materiale (la suburbanizzazione dei ceti medi, la generazione nata nell’agio che sostituisce quella della guerra, l’iperindividualismo, il declino dei corpi intermedi e della ‘great society’, il sorgere di nuovi miti come l’imprenditore ed il manager) e la coalizione sociale che sostenne questa profonda mutazione della visione della ‘vita buona’, fondamentalmente amorale (aristocratici liberali dell’est, operai e minoranze frustrate del sud e del mid west, integralisti del libero mercato, anticomunisti, leader religiosi, conservatori disgustati dal femminismo). Questa strana coalizione, che non aveva nulla in comune, si è aggregata quando Reagan ha offerto una visione comune fondata su quattro punti: la vita buona è quella degli individui che contano su di sé; la priorità deve essere data alla creazione di ricchezza; più il mercato è libero, più crescerà a vantaggio di tutti; lo Stato è il problema in sé.

Questo assetto si è progressivamente radicalizzato, fino a che l’impoverimento progressivo della classe media e la insostenibile e scandalosa crescita delle ineguaglianze ha portato Trump.

A tutto questo i liberal hanno reagito perdendosi nella selva della politica identitaria e covando una retorica della differenza risentita e divisiva, ammaliati dai movimenti sociali che operano al di fuori delle istituzioni. L’uscita di scena del tema della cittadinanza ha fatto spazio al passaggio dal “noi” all’”io” (p.74). Ma la politica movimentista, il cui modello generale fu il movimento per i diritti civili dei neri americani, e quindi quello femminista, e poi per gli omosessuali, e via dicendo, è centrifuga, induce naturalmente a ridurre le ambizioni. Si vuole al massimo cambiare il quartiere, non far fare una cosa, fare un progetto specifico, concreto. L’ambientazione, dice Lilla, “è perfettamente borghese, senza traccia di demos” (p.86).

Un esempio si trova nel “manifesto del Collettivo Combahee River” (Barbara Smith, Demita Frazier, Audre Lorde, ed altre) nel 1977 con la sua enfasi per la radicalità della identità e l’idea che l’attività politica sia radicata nell’avere un significato autentico per l’individuo.

Un individualismo radicale che è incoraggiato dalla società sin dalla fase degli studi, e che, anzi, “dà una patina intellettuale all’individualismo radicale incorporato nella società”. Forse c’è un elemento strutturale nella chiusa “negriana” (con tanto di esplicito riferimento ai movimenti ed a quelli studenteschi, con la potenza moltitudinaria delle loro identità ribelli) dell’interessante testo di Hauke Brunkhorst sulla costruzione liberale dell’Unione Europea che abbiamo appena letto (cfr. Brunkhorst, “Il doppio volto dell’Europa”, conclusioni).

Un individualismo che è inoltre incorporato e incoraggiato dal “modello Facebook”, che nasce precisamente in quegli ambienti, anche se in anni più recenti. Negli scontri verbali che spesso si producono in esso, dominati dal “politicamente corretto”, in effetti ogni incontro è sottilmente trasformato in una relazione di potere nella quale “il vincitore sarà colui che ha invocato l’identità moralmente superiore e ha espresso la massima indignazione nell’essere messo in discussione” (p.94). E nel quale dunque l’identità determina tutto e non esiste spazio per l’argomentazione (come sostiene anche Friedman) che viene sostituita dal tabù. Da affermazioni che non sono ‘vere’ o ‘false’ ma, piuttosto ‘pure’ o ‘impure’. Gli identitari di sinistra, che si sentono radicali, sono così diventato delle maestrine puritane e ignorano ogni valutazione sul potere reale e la dinamica di classe su la quale non hanno più strumenti per pensare.

Troppo spesso i movimenti che rappresentano il modello sono peraltro composti da militanti “con tratti donchisciotteschi, la cui auto-rappresentazione è definita dall’essere estranei ai compromessi e al di sopra di ogni interesse particolare” (p.109), e che trattano tutto come diritto invalicabile, senza spazi per il compromesso e quindi la politica.

La conclusione di Lilla è che questa sinistra non ha alcuna visione politica da offrire al paese, e inoltre non può averla perché il modo con il quale pensa lo impedisce.

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