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“…di luce intellettual piena d’amore”
di Elisabetta Teghil
L’esito del primo turno delle elezioni presidenziali in Brasile ha lasciato sbigottiti se non amareggiati tanto che alcuni uomini politici e della società civile della sinistra brasiliana hanno lanciato appelli all’unità per contrastare la vittoria di un candidato che si richiama esplicitamente ai valori della dittatura militare e che spara a zero contro la classe politica, sentina di ogni male. Questi appelli animati da buone intenzioni dovrebbero essere però corredati dal racconto di quello che è successo in questi anni in quel paese. Una categoria di persone che si autodefinisce di sinistra ha sollevato una miriade di eccezioni, chiamiamole eufemisticamente così, nei confronti dei governi Lula e Roussef “scoprendo” l‘esistenza delle favelas, dei ninos de rua, la brutalità della polizia…tutte cose vere ma che da tempo immemore esistono in Brasile. Sembrava, invece, dal loro racconto che fossero nate con quei governi. Naturalmente non sono mancati dotti cattedratici che hanno pontificato che i governi Lula e Roussef, essendo troppo cauti si erano allontanati dai bisogni del popolo.
Di converso il governo Maduro, sempre secondo questi perspicaci analisti, si sarebbe allontanato dal popolo per il motivo inverso, aveva fatto una fuga in avanti. E sempre costoro auspicavano la discesa dalle colline del popolo che avrebbe dovuto rovesciarlo. Naturalmente ci sono anche i più raffinati che, dimentichi di quello che avevano detto a suo tempo di Chavez, ci raccontano che Maduro lo ha tradito e comunque è tutt’altra cosa.
Gli scenari cambiano ma il risultato finale è sempre lo stesso: Rafael Correa avrebbe avvelenato la terra, inquinato l’atmosfera e tradito gli ecuadoregni, in Nicaragua gli ex guerriglieri avrebbero affossato lo spirito e gli ideali della rivoluzione e sarebbero passati dall’altra parte della barricata reprimendo il popolo.
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Le istruttive lezioni di un mondo capovolto
di Bruno Steri*
Proponiamo, come contributo alla discussione, un interessante articolo di Bruno Steri
1- Viviamo una fase politica che è inedita e per molti versi paradossale. Sono i tempi in cui, in una città come Roma, la cosiddetta «sinistra» raccoglie voti ai Parioli, quartiere simbolo della medio-alta borghesia, mentre le destre fanno il pieno nel quartiere popolare di Tor Bella Monaca. La situazione può apparire talmente confusa – parafrasando un vecchio motivo di Giorgio Gaber, con «la sinistra che fa la destra e la destra che fa la sinistra» – al punto che la manovra economica di un governo «post-ideologico» (di cui è parte influente un uomo chiaramente di destra quale Matteo Salvini) viene giudicata da un autorevole membro della sinistra radicale come Stefano Fassina «una manovra coraggiosa, quella che avrebbe dovuto fare il Partito Democratico».
In verità, Fassina ha le sue ragioni e non c’è alcuna confusione: la realtà è certamente complessa, ma le cose hanno il loro perché. L’attacco contro il governo «giallo-verde» è concentrico, tutti i poteri che contano sono scattati come un sol uomo: dopo le quotidiane reprimende degli esponenti dell’Unione europea, il governo ha subìto quella di Bankitalia e del Fondo monetario internazionale, con connesso minaccioso monito da parte del cosiddetto spread, vero e proprio termometro degli umori dei mercati. Come comunisti, non siamo e non saremo per nulla teneri nei confronti di questo esecutivo. Ma attenzione, la lezione vale anche per noi: se fossero al governo i comunisti, anch’essi proverebbero infatti a forzare la gabbia delle regole di Bruxelles; e, contro di essi, si scatenerebbe la stessa canea. Lasciatemi dire che si rimane sbigottiti nel registrare la «responsabile» accondiscendenza con cui le suddette reprimende e i suddetti moniti vengono accolti da esponenti del centro-sinistra. Da quando in qua, a sinistra, si è guardato ai «mercati» e alle «compatibilità» imposte da Bruxelles come se fossero intangibili tavole della legge? E, soprattutto, quali sono e che garanzie di imparzialità danno i pulpiti da cui proviene l’attacco? Proviamo dunque a ribadire cose che un tempo erano ovvie.
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Il nuovo dispotismo del capitale
La trasformazione del capitalismo transnazionale post crisi 2008
di Francesco Schettino
9 novembre 2016: una data che difficilmente sarà dimenticata negli anni che verranno. Media europei e giornali di tutto il mondo hanno osservato con un malcelato sgomento l’elezione di Donald Trump alla presidenza dello stato capitalista più potente al mondo, gli Usa. La palese collocazione all’estrema destra del neopresidente – appoggio del Kkk, libri con i discorsi di Hitler sul comodino, come ebbe a dire l’ex moglie – non è stato un elemento sufficiente a permettere a Hillary di divenire la prima donna presidente degli Stati uniti (con il cognome del marito, aggiungiamo noi). Considerata genericamente come la candidata dell’establishment, nonostante il sostegno ricevuto da tutti i settori della “cultura” a stelle-e-strisce (e non solo), la sua sconfitta è stata significativa, sebbene il divario in termini di voti ricevuti l’abbiano vista prevalere per circa 2mln di unità, che non è esattamente una cifra di poco conto. Fiumi di inchiostro sono stati versati e di pacchi di parole sono stati inondati tutti i media (asocial compresi) sostenendo tesi e teorie spesso in evidente bisticcio logico e densi di incoerenze frutto di veline passate dalle diverse cordate del capitale in crescente conflitto. Quel che ci proponiamo in questo articolo è, da parte nostra, dar seguito alle promesse fatte nella nota preliminare che alcuni mesi fa abbiamo pubblicato sul blog della rivista (http://rivistacontraddizione.wordpress.com), tentando di fornire una chiave di lettura di classe per le vicende più recenti. Per questo, è di prioritaria importanza provare a fornire una sorta di radiografia delle patologie del capitale contestualizzando i recenti accadimenti (solo apparentemente) di natura politica all’interno della fase critica che l’imperialismo mondiale sta subendo da mezzo secolo e, in maniera ancor più violenta ormai da un decennio.
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Regole per chi?
Italia e Germania, le doppie morali dell'euro
Giovanna Cracco intervista Sergio Cesaratto
Nell’ignoranza drammatica in cui i media mainstream tengono i cittadini italiani in tema di Unione europea, una narrazione si è talmente solidificata da essere divenuta faticosamente scalfibile: l’Italia non rispetta le regole, ed è per questo che fatica economicamente a stare al passo con gli altri Paesi dell’eurozona; ha speso e continua a spendere troppo in welfare, ed è per questo che il suo debito pubblico tocca vette da capogiro in rapporto al Pil. Ad aprile di quest’anno Sergio Cesaratto, professore di Politica monetaria e fiscale dell’Unione economica e monetaria europea all’Università di Siena, esce per i tipi di Imprimatur con un agile saggio che demolisce pezzo per pezzo questa errata narrazione. Unendo chiave di lettura politica e analisi economica, con un linguaggio semplice e comprensibile anche a chi non mastichi di economia, Cesaratto mostra quanto i disequilibri dell’eurozona abbiano ragioni strutturali e sistemiche, e come queste siano aggravate dalle scelte dei governi tedeschi, che da anni portano avanti un modello economico incompatibile con le regole di una unione monetaria. Applicando oltretutto una doppia morale all’interno della Uem: i Pigs devono rispettare le norme, quelle scritte nei Trattati e quelle non scritte di disciplina economica, la Germania no.
* * * *
Partiamo dall'inizio: l'Italia è tra i Paesi fondatori dell'Unione europea, e ne ha promosso e seguito l'intero percorso, dalla Ceca alla Cee, dall'entrata nello Sme all'Atto Unico Europeo nel 1986. Approdare a Maastricht nel 1992 e alla moneta unica era quindi in qualche modo già scritto nella strada intrapresa, eppure non c'è dubbio che legarsi ai cosiddetti “vincoli esterni”, in tema di bilancio pubblico e politica monetaria, è stato un 'salto di qualità', se così possiamo definirlo, importante rispetto al far parte solo di un mercato comune, come era l'Unione disegnata fino a quel momento dai Trattati sottoscritti. Perché i governi italiani hanno deciso di farlo? Tu individui nel libro ragioni sociali ed economiche...
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Contro il ricatto del debito pubblico
di coniarerivolta
Pubblichiamo di seguito il nostro contributo al testo “Giovani a sud della crisi”, curato dai compagni di Noi Restiamo, dove sono raccolti gli interventi del festival Collision // Rompere l’equilibrio. Nel ricatto del debito pubblico trovano una sintesi tutte le lotte che attendono i giovani della periferia d’Europa oggi: che fare?
I giovani a sud della crisi lottano ogni giorno per coltivare le loro aspirazioni, rivendicando un presente e un futuro che l’Europa della grande recessione sembra aver affossato definitivamente. Gli studenti medi si ribellano alla beffa dell’alternanza scuola/lavoro – che li vuole sfruttati fin dalla tenera età – mentre i più grandi combattono per sottrarsi al ricatto della disoccupazione, chiedono lavoro, una formazione universitaria di qualità, diritto allo studio e servizi sociali. La risposta che ricevono suona più o meno così: “Bellissime aspirazioni, ma c’è un problema: ognuno di voi nasce con 38.000 euro di debito pubblico sulle spalle, quindi scordatevi il presente, lasciate perdere il futuro e inventatevi qualcosa per iniziare a ripagarlo!”
È la narrazione dominante sul debito pubblico, che ci viene presentato come un mostro che cresce di 70.000 euro al minuto e sembra capace di divorare i sogni e le prospettive dei giovani, fomentando uno scontro intergenerazionale tra padri e figli: quel debito sarebbe il lascito dei nostri padri, che avrebbero vissuto al di sopra delle loro possibilità lasciando a noi il conto salato della loro dissipatezza.
Se il problema è il debito pubblico, quale è la soluzione? Che fare?
Due sembrano essere le possibili risposte politiche. Una è la risposta del potere, l’austerità: dovete ripagare tutto, fino all’ultimo centesimo, con tagli alla spesa pubblica, lacrime e sangue sacrificando sull’altare del risanamento dei conti lo stato sociale ed i diritti conquistati. Dall’altra parte della barricata si fa strada l’idea che si debba combattere il mostro anziché arrendersi ad esso e finire schiavi: il ripudio del debito appare come l’unica reazione politica coerente con le lotte sociali di chi combatte per riprendersi il presente e il futuro. Piuttosto che sdebitarci rimpinguando le tasche di banche e speculatori, rispediamo il debito al mittente e andiamo avanti – come se il debito non ci fosse.
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Il ménage à trois della lotta di classe (II)
di B. A. & R. F.
Secondo episodio
Per une teoria della classe media salariata
Come abbiamo scritto nel primo episodio (Lucciole e lanterne ) , è nostra convinzione che sia possibile definire in maniera teorica la classe media salariata (CMS). Tale definizione consiste nel porre questa categoria della popolazione all'interno della meccanica di riproduzione del rapporto proletariato/capitale. La CMS esercita una funzione organica dentro questa riproduzione. Essa non è soltanto uno strato sociale, definito in maniera per forza di cose imprecisa dal suo tenore di vita, che sarebbe prossimo tanto a quello del proletariato quanto a quello della borghesia. Il capitale ha bisogno della CMS, e fa quanto è necessario a riprodurla affinché essa possa sempre assolvere alla sua funzione. Si tratta dunque di comprendere la posizione e il ruolo della CMS nella produzione e nella circolazione del plusvalore.
1. La piccola borghesia secondo Baudelot, Establet e Malemort
1.1. Salario e valore della forza-lavoro della classe media
Baudelot, Establet e Malemort (in La petite bourgeoisie en France, Éditions Maspero, 1974), tre autori che si richiamano al marxismo tradizionale, trattano la questione della CMS in maniera più empirica che teorica, ma forniscono un angolo d'attacco convincente. Il loro metodo consiste nel comparare il valore della forza-lavoro dei membri della classe media e il loro salario effettivo. La differenza che si riscontra è ciò che definisce la classe media. Riassumiamo il loro modo di procedere.
Come spiegare la gerarchia dei salari che va dall'operaio all'ingegnere? Perché il capitale paga di più quest'ultimo? Forse perché la produzione della sua forza-lavoro è più onerosa di quella dell'operaio? Baudelot, Establet e Malemort [d'ora in poi: BEM, ndt] rispondono affermativamente e negativamente ad un tempo.
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Manovra economica, debito e crescita in Italia
di Pasquale Tridico, Giacomo Bracci
Negli ultimi anni l’austerità ha depresso l’economia italiana e fatto crescere il debito pubblico. L’Italia sta per varare ora una politica più espansiva e, secondo l’analisi di Pasquale Tridico e Giacomo Bracci, la manovra spingerà la crescita e ridurrà il rapporto debito-Pil
L’Italia non è affatto un paese spendaccione, o che ha vissuto sopra le sue possibilità come è stato più volte detto: non è quindi un paese che si merita una cura dimagrante. Per dirlo basta dare uno sguardo ai dati. Il dato sicuramente più importante, come sanno gli economisti, è il saldo di bilancio primario, ovvero la differenza fra spesa pubblica e tassazione, che è in attivo da due decenni. Come ha ricordato un economista francese, molto influente in Europa, Jean Pisani-Ferry su Project Syndicate proprio lo scorso maggio, il debito pubblico italiano non è il risultato di disavanzi primari scellerati: il saldo di bilancio primario, con l’eccezione del 2009, è stato in attivo per oltre 20 anni. Ciò significa, in sostanza, che i governi italiani hanno tassato più di quanto hanno speso per consumi e investimenti, ed è stata la piuttosto la spesa per interessi a far crescere il disavanzo e il debito. Come si evince dalla Figura 1, il saldo primario di bilancio dell’Italia è stato costantemente al di sopra del saldo primario francese dal 1995 al 2018, restando peraltro molto al di sopra di quello spagnolo dopo il 2007, e di sopra a quello tedesco, almeno fino al 2006, e poi sostanzialmente in linea con quest’ultimo. Dalla metà degli anni ’90, perciò, l’Italia ha praticato una sostanziale politica di contenimento del bilancio pubblico, cumulando in 23 anni un avanzo primario di +54%, mentre la Francia ha cumulato nello stesso periodo un disavanzo primario di -21%. Peggio della Francia la Spagna, mentre la Germania un po’ meglio, ma comunque inferiore rispetto all’Italia come è evidente dalla figura in basso.
Questo tuttavia non ha aiutato la crescita del Pil italiano. Anzi. Probabilmente, come sostengono in molti, e non solo economisti keynesiani, questo ha contribuito a una dinamica stagnante del Pil e ad un aumento del rapporto debito/Pil.
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Reddito di cittadinanza. Tanto rumore per poi finire con il “modello Hartz IV”?
di Giuliana Commisso - Giordano Sivini
Il ministro del Lavoro e vicepremier Di Maio dopo l’incontro con il ministro Hubertus Heil ha riferito le considerazioni del suo omologo tedesco: “Ha detto che finalmente hanno capito che il nostro reddito di cittadinanza non è una misura assistenziale, ma uno strumento di politica attiva per il lavoro, come il loro Hartz IV”.
Hartz IV tiene in povertà milioni di persone in Germania. Dieci anni dopo aver imposto al paese questa legislazione l’ex cancelliere socialdemocratico Schroeder non aveva negato questa evidenza ma aveva avuto la faccia tosta di sostenere che non sono le sue riforme del mercato del lavoro e dell’assistenza sociale a tenerli in povertà, la colpa è delle imprese che ne fanno uso improprio. EPerò quelle sue riforme trascendevano le imprese; hanno puntato a ristrutturare e rilanciare il sistema produttivo nel suo complesso realizzando la flessibilizzazione degli strati medio bassi del lavoro contando sul fatto che era possibile abbassare i salari individuali fin sotto il livello della sussistenza perché il sussidio avrebbe realizzato ad un tempo una funzione di integrazione salariale in favore delle imprese, e di controllo e di ricatto sui lavoratori. La storia di Hartz IV riguarda l’estesa frammentata popolazione di individui legalmente riprodotti sul mercato del lavoro come poveri.
Su Hartz IV si può leggere questa analisi estratta dal libro di Giuliana Commisso e Giordano Sivini, Reddito di cittadinanza: Emancipazione dal lavoro o lavoro coatto? (Asterios 2017).
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I pilastri della riforma del mercato del lavoro
Le misure decise da Schroeder furono volte a ridisegnare il sistema di gestione del mercato del lavoro, comprimendo i sussidi di disoccupazione, introducendo il reddito minimo condizionato allo svolgimento di attività lavorative, e creando occasioni di lavoro attraverso normative che ampliavano il precariato.
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Che cos’è la Filosofia?
di Salvatore A. Bravo
L’addomesticamento funzionale della Filosofia
Il capitalismo è il regno dell’astratto, trasforma ogni attività vitale in mezzo e non in fine, con l’effetto schizoide di dividere, parcellizzare, strumentalizzare. La Filosofia è anch’essa minacciata, si insegna Filosofia, la si usa, per carriere accademiche. Spesso nel circolo mediatico è solo passerella per gratificare narcisismi primari. La parola bella e ad effetto, la imperante citatologia, la riduce ad ente morto, ad orpello da salotto. Il rischio è che le giovani generazioni la intendano unicamente nella forma astratta, utile per rafforzare le capacità logiche, o come preistoria della scienza.
La società dell’astratto, è il regno dell’omogeneità: ogni ente, come ogni campo di ricerca deve rispondere a funzioni, essere organica al capitale. L’omogeneità omologante è l’epifenomeno della corrente fredda del plusvalore. La passione triste dell’utile astrae e sottrae fino a ridurre ogni manifestazione dello spirito a forma cava senza determinazione e concetto. La Filosofia come forma trasmissiva, senza alcun intento o fine educativo, è la neutralizzazione della stessa, l’anestesia del pensiero.
La Filosofia è prassi, ovvero trasformazione attiva e consapevole di se stessi e della comunità, cura di sé e della comunità. Il fondamento di essa riposa in una scelta, nella passione durevole alla resistenza propositiva. Il pensiero filosofico affonda le sue determinazioni nella carne, in un riorientamento gestaltico grazie al quale il filosofo decide la libertà di esserci contro il potere. Il pensiero, l’adesione ad una corrente filosofica è l’effetto della testimonianza individuale ed irripetibile, ad un modello di vita che si disegna nella carne e che si eleva verso l’universale: filosofare è pensare questa elevazione, senza la quale non vi è che logorroica sequela di parole ripiegate su se stesse.
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Lo scarto tra il Nadef e la realtà economica
di Roberto Romano
Mentre ci sono le prime avvisaglie di un rallentamento economico, secondo il governo in soli 6-7 mesi il Paese dovrebbe crescere di 0,6 punti di PIL in più rispetto al quadro tendenziale. E c’è anche il dubbio che le ingenti risorse impegnate eccedano l’effettiva capacità di spesa della pubblica amministrazione
Premessa: politica economica cercasi
La Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF) del 27 settembre 2018 consegna al Paese le opzioni di politica economica che la compagine governativa intende sostenere. Si esce dalla discussione precaria fatta di promesse, auspici e suggestioni. In altri termini, il NADEF delinea le vere intenzioni del governo.
Lo scenario economico base è cambiato radicalmente rispetto all’inizio dell’anno quando era stato scritto il DEF del governo Gentiloni. Le prospettive di crescita, dei tassi di interesse e l’inasprimento dei dazi, unitamente al rischio di una bolla finanziaria che in molti tentano di scaricare sui Paesi emergenti, condizionano le scelte di politica economica degli Stati.
In Europa la discussione è, se possibile, ancora più complicata. Da un lato ci sono i rigidi vincoli del pareggio di bilancio strutturale e del debito pubblico, dall’altro ci sono le prime avvisaglie di un rallentamento economico che compromette i conti pubblici: meno entrate fiscali, saldi pubblici in crescita in rapporto al PIL – se cala il denominatore tutti gli indicatori di finanza pubblica peggiorano -, crescita della spesa in ragione dei così detti stabilizzatori automatici.
Più precisamente, i saldi di finanza pubblica di aprile non hanno nessun fondamento e sono tendenzialmente peggiorati non per un eccesso di spesa discrezionale, piuttosto per un ciclo economico negativo che potrebbe anche peggiorare se fossero adottate misure pro cicliche. Le prospettive economiche sono, quindi, fragili soprattutto per i Paesi europei che hanno sperimentato la così detta austerità espansiva che ha ridotto il potenziale di crescita e di occupazione come e quanto una guerra; la crisi del 2007 è stata più lunga e profonda di quella del ’29, almeno per l’Italia.
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La variante di (ultra)destra del sistema capitalista
di Fabrizio Marchi
Abbiamo pubblicato un paio di giorni fa questa interessante, lucida e in larghissima parte condivisibile analisi del nostro amico e collaboratore (nonché dirigente di Risorgimento Socialista), Norberto Fragiacomo sul tema del razzismo, della sua genesi storica e di come questo si sia sviluppato e incistato in diversi contesti storici e sociali fino al giorno d’oggi nelle società (capitaliste) occidentali contemporanee.
Ma il razzismo oggi – si chiede l’autore – è davvero un fenomeno di massa di cui è necessario preoccuparsi e che può addirittura mettere a rischio la tenuta democratica dei vari stati europei oppure è invece un fatto molto circoscritto e ingigantito ad arte dai media controllati dalle elite globaliste liberal-liberiste dominanti in funzione anti-populista?
E perché mai – si chiede sempre Norberto – il sistema capitalista, la cui sola ed unica finalità è la globalizzazione dei mercati (e, naturalmente, il profitto) e la riduzione degli esseri umani a consumatori passivi, sradicati, privi di identità e radici culturali, dovrebbe alimentare un fenomeno che ostacolerebbe di fatto quel processo creando barriere di ordine etnico-razziale? Vale la pena citare testualmente l’autore:
”se lo scopo è la globalizzazione dei mercati e la sostituzione del cittadino con il consumatore indifferenziato allora il razzismo diviene un ostacolo – e una sovrastruttura di cui sbarazzarsi – perché le idee (malsane) che ne stanno alla base mal si conciliano con il disegno di omogeneizzazione progressiva dell’umanità… un obiettivo che con la caduta del muro apparirà finalmente alla portata dell’èlite.
Il Capitale si rivela più antirazzista di Marx ed Engels… ma solo perché il vecchio arnese ne intralcia lo sviluppo!”
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I giovani, una questione non solo giovanile
di Noi Restiamo
Introduzione a Giovani a sud della crisi, a cura di Noi Restiamo e Contropiano
Sono ormai dieci anni che qualunque testo di politica, sociologia o economia, deve necessariamente includere nelle prime righe dell’introduzione il conteggio degli anni di crisi. Dieci anni in cui ogni analisi è stata necessariamente mossa alla luce di una crisi «sistemica» del capitalismo, un periodo di recessione pari solo a quello del 1929 o seguito alla devastazione della Seconda Guerra Mondiale; dieci anni che hanno visto crolli bancari, la crisi dei mutui e la gente buttata fuori dalle proprie case, l’aumento senza precedenti della disuguaglianza, il risorgere della povertà assoluta nei paesi «sviluppati» dell’Occidente, la fine del sogno della «convergenza» tra i paesi europei più ricchi e quelli più poveri. E per fare fronte a tutto questo i governi hanno risposto con politiche che hanno ulteriormente sviluppato questi problemi: austerità, tagli allo stato sociale, dalla scuola alla sanità alle pensioni, precarizzazione del mercato del lavoro, privatizzazioni e svendita del patrimonio pubblico.
Se da un lato la situazione socio-economica rimane drammatica per larghe fasce dei settori popolari, non si può non notare come l’economia europea stia entrando in una fase diversa, benché molto instabile. Anche i paesi che hanno sofferto maggiormente cominciano a mostrare segni di ripresa. Fra i paesi mediterranei Spagna e Portogallo mostrano in particolare segni di dinamismo, ma addirittura l’Italia ha cominciato a mostrare dei timidi segnali di ripresa. Per conto suo la Grecia ha appena visto i funzionari della Troika andarsene dopo un vero e proprio commissariamento durato otto anni, benché rimanga legata ai pesanti vincoli post-memorandum.
Finita la crisi usciamo dunque finalmente dall’incubo? Stiamo veramente vedendo «la luce in fondo al tunnel»? Se alcuni indicatori (il PIL, l’occupazione, gli investimenti…) stanno tornando faticosamente ai livelli pre-crisi, la società non è tornata a essere quella del 2007, così come non sono uguali i rapporti economici e di produzione, la situazione geopolitica e le alleanze internazionali.
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Sulla Belt and Road Initiative
Nicola Tanno intervista Diego Angelo Bertozzi
La Nuova Via della Seta è il grande progetto della Cina del XXI secolo. Rifacendosi all’antica via commerciale del secondo secolo d.C. della dinastia Han, la Belt and Road Initiative (BRI) è un piano per la costruzione di infrastrutture di trasporto e logistiche che coinvolge decine di paesi di tutto il mondo per un valore di più di mille miliardi di dollari. Di questo ambizioso progetto ne ha parlato Diego Angelo Bertozzi in La Belt and Road Initiative. La Nuova Via della Seta e la Cina globale (Imprimatur). In questa intervista Bertozzi, già autore di altri volumi sul paese orientale, ha discusso sulle prospettive della BRI e sul futuro della Cina.
* * * *
1) La Nuova Via della Seta viene descritto come un progetto aperto e in costante evoluzione. Che definizione daresti della BRI e quali sono per te i suoi scopi principali?
Della nuova via della seta esistono diverse mappe –che di volta in volta segnalano l’aggiornamento delle rotte individuate o dei progetti in essere. La prima ufficiale è stata pubblicata nel 2013, mentre l’ultima versione è del dicembre del 2016 e porta alcune novità quali una descrizione più dettagliata dei corridoi terrestri, la copertura dell’intero bacino mediterraneo lungo una linea che prosegue, senza una meta precisa, verso l’Atlantico, così come a est si aprono rotte marittime verso l’Artico e oltre l’Australia. Queste aperture indefinite, così come la maggiore specificazione dei percorsi terrestri e marittimi, vanno a confermare la natura aperta dell’intero progetto, che non segue disegni e confini prestabiliti, che si adatta di volta in volta agli accordi conclusi e che non preclude possibili nuove collaborazioni. Tentativi, verifiche sul campo, cautela e metodi d'azione non rigidi permettono di saggiare tanto le potenzialità di possibili quanto di valutare le possibili contromosse di competitori strategici.
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Quale strategia per i comunisti? In risposta ad Alessandroni
di Alessandro Pascale
Quelle che seguono sono alcune considerazioni su “Economicismo o dialettica? Un approccio marxista alla questione europea”, un saggio pubblicato da Emiliano Alessandroni su “Marxismo Oggi” il 25 agosto 2018 [v. anche qui]. Con esso la rivista intende “aprire una discussione sulla questione europea, e più in generale sulle contraddizioni e i problemi dell'attuale quadro internazionale”. L'interesse per lo scritto è dato non solo dal fatto che Alessandroni è considerato uno degli “allievi” più promettenti di Domenico Losurdo, ma anche dalle sue conclusioni, che lo portano ad affermare la necessità di rigettare “l'eurofobia”, così la definisce, che avrebbe colpito gran parte della sinistra. Nelle righe che seguono cercherò di dimostrare come l'Autore non sia rimasto fedele all'intento espresso nell'apertura del suo lavoro, nel quale denuncia l'indebolimento del “campo della riflessione dialettica” e il “rafforzarsi di prospettive meccaniciste e logiche binarie”. Prima però occorre riconoscere il valore qualitativo del saggio, sia per la cura scientifica, sia per la sua capacità di illuminare su alcuni aspetti della storia contemporanea.
L’ottica antimperialista
Quali sono nello specifico i pregi di tale lavoro? Anzitutto la capacità di concentrare l'attenzione sulla contraddizione principale, costituita dalla permanenza dell'Impero statunitense. Fa bene l'Autore a denunciare la “rimozione del Project for the new american century” nella “cultura critica del Vecchio Continente”. Un'accusa che va a colpire soprattutto quei settori della sinistra dimentichi della questione antimperialista. Ciò che avrebbe forse meritato maggiore considerazione è la constatazione del declino di tale Impero, il quale assomiglia ad un vecchio leone ferito che si dimena con impeto furibondo per frenare il proprio deciso tramonto.
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Marx fa muovere il lavoro, lo sport ed il gioco
di Tomasz Konicz
L'attuale giubileo di Marx rivela soprattutto una cosa: il crescente conservatorismo di una sinistra che si adatta sempre più allo spirito reazionario del tempo
Alla fine, volgendo lo sguardo al XIX secolo, la sinistra sembra stia sperimentando una qualche rilevanza pubblica, quanto meno nel breve periodo. Karl Marx compie 200 anni - e così tutti i media di rilievo, che di solito, diversamente, legittimano le solite restrizioni, ora stanno pubblicando una qualche forma di apprezzamento. La chiacchiera su Marx - alimentata da un tardo capitalismo in crisi, e che sembra confermare tutti i cliché anticapitalisti dei secoli precedenti - viene accompagnata dalle solite strategie di addomesticamento del teorico critico e che in simili occasioni di solito si colloca al di fuori del mainstream. Particolare rilievo viene dato all'aspetto biografico, all'«essere umano» Marx, come nella produzione ZDF su Karl Marx, che ha caratterizzato l'autore de "L'Ideologia Tedesca" come se fosse un "profeta tedesco" - e questo in piena epoca di populismo di destra. In questo docudrama possiamo sapere molte cose sulla famiglia, sulle sue preoccupazioni per il denaro, sulle morti e sulla «accusa permanente secondo cui Marx era più preoccupato per i suoi studi e per la politica che per i suoi familiari», come viene detto in una recensione. Ma l'opera di Marx - per essere precisi, l'opera che ha fatto di lui un teorico famoso - è stata «assai trascurata» nella produzione della ZDF.
Il Marx della porta accanto
Il tentativo dell'industria culturale di «avvicinare», al pubblico mediatico, Marx come essere umano, si accompagna perciò ad un offuscamento di quello che era il contenuto della sua teoria,in modo che quasi chiunque possa prendere il treno di Marx, Nella maggior parte dei casi, il riferimento a qualcosa che abbia a che fare con la disuguaglianza sociale, la globalizzazione o la crisi del capitalismo, è sufficiente per poter partecipare al chiacchiericcio mediatico.
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Il pecoraro fischia, i cani abbaiano, le pecore corrono
di Fulvio Grimaldi
I. Scossarella all’ordine globalista ed è subito terremoto
Quando, da Capitol Hill, Giove decise di farsi Europa
Partiamo da lontano e di corsa. In molti, compreso me, abbiamo spesso ricordato, alla mano di documenti del governo e dell’intelligence Usa e degli esiti che in questi erano racchiusi e programmati, che nella costruzione dell’Europa si sono avvicendati e intrecciati i progetti geopolitici, gli interessi economici, i messaggi culturali e gli assetti sociali che Yalta ha sancito avrebbero dovuto costituire la governance in Occidente. Assetti sociali e interessi economici che avrebbero assicurato al proconsolato borghese europeo una quota di minoranza nell’azionariato delle corporationsanglosassoni e relative banche, in cambio di una rete di protezione economica, militare, culturale che le consentiva di trasferire ricchezza dai suoi popoli e da quelli a compartecipazione coloniale dalla base della piramide alla sua guglia. Si chiamano UE, BCE e Nato. Quest’ultima intesa alla difesa armata della “supercorporation” che il presidente Eisenhower aveva definito “il complesso militar-industriale”.
Complesso che oggi va aggiornato in Stato Profondo Usa, composto dalla costellazione Pentagono, servizi di intelligence e sicurezza, capitale finanziario e media.
Questi ultimi passati da cani da guardia a sorveglianza sullo Stato, a cani da guardia che controllano i propri lettori e spettatori. Media perlopiù agli ordini e nella proprietà degli attori protagonisti del finanzcapitalismo, tipo Jeff Bezos, o Blackrock Inc,o AT&T, tra i più grossi investitori del mondo. Il nostro caporalato proconsolare nella Nato, in cambio di una rete di protezione economica, militare, culturale che le consentiva di trasferire ricchezza dal popolo allo zero virgola qualcosa, si sarebbe reso disponibile a fare da ruota di scorta, palesemente contro gli interessi del continente che gli era stato affidato, all’imperialismo delle potenze vincitrici.
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Marx ed Engels e Il Manifesto del Partito comunista
di Cosimo Cerardi
Il modello che i socialisti utopisti proponevano era dato da un'idea di organizzazione in cui tutta la società viene ad essere intesa come una grande lega di famiglie (governata nell’insieme dal trio), suddivisa in minori leghe di famiglie governate dalle compagnie dei maestri, ecc. Accanto a questa organizzazione, quella delle Accademie, e quella del Consiglio di salute. Nessuno può essere eletto se non cede tutti i suoi beni allo stato.
Se si accetta la riforma proposta, conclude il Weitling, al dominio della pura e bruta forza si sostituirà quello del diritto; si eviterà che i doni dell’eloquenza e del bell’aspetto traggano in inganno gli elettori; anch’essi sono « privilegi », ai quali bisogna ovviare; si evitano tutti i personalismi come pure tutti gli inutili dibattiti parlamentari; aumenta lo zelo per il progresso nelle invenzioni e nelle scoperte, nelle arti e nelle scienze; ogni cambiamento di personale nell’amministrazione darà impulso progressivo alla società; e le nuove grandiose idee potranno essere messe rapidamente in atto.
In quella che viene considerata come la sua opera più matura (dopo l’abbandono del primitivo comunismo egualitario di tipo babuvista, che lo aveva portato a partecipare all’insurrezione del 1839 a Parigi, dopo le persecuzioni da parte del Bluntschli in Svizzera e prima delle fantasie religiose degli ultimi anni), il Weitling, in sostanza, propone una riforma elettorale su basi corporative ed egualitarie, che dovrebbe servire a permettere la realizzazione delle nuove e grandi idee, fra le quali anche, probabilmente, quella della comunione dei beni. E’ inutile soffermarci più a lungo su questo scritto, e analizzare gli elementi eterogenei, fourieristi e sansimoniani, che ne formano la sostanza; ed è anche inutile sottolineare come permanga in esso l’idea della abolizione della criminalità e di ogni sistema giuridico, e come si riscontri a ogni piè sospinto quello che si può dire, con parola forse anacronistica, l’operaismo del Weitling, cioè la sua avversione per i privilegiati dei talenti naturali, della scienza scolastica, per gli intellettuali, insomma, contro i quali non si stancava mai di predicare.
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Christopher Lasch, “La ribellione delle élite”
di Alessandro Visalli
Il libro di Christopher Lasch fu pubblicato nel 1995, quando il grande intellettuale americano era già morto da un anno, e si presenta come un fondamentale atto di accusa di quel “tradimento della democrazia”, che reca come sottotitolo. Attacca con il piglio di chi si sta separando dalla vita, e può dire tutto, quelle élite che si sono ridotte a separarsi radicalmente dal resto della società e ormai “hanno una visione essenzialmente turistica del mondo”. Più o meno nello stesso anno Richard Rorty, che gli sopravviverà per un decennio abbondante, aveva scritto qualcosa di molto simile, in “Una sinistra per il prossimo secolo”, nel quale accusava il “ceto cosmopolita” di non avere alcun senso di comunanza con il resto della società. Gente che si sente a suo agio solo nei jet, mentre vanno da un posto all’altro [1], e che giudica la middle class come “tecnologicamente arretrata, politicamente reazionaria, repressiva nella morale sessuale, retriva nei gusti culturali”. Un ceto, quindi, la cui cifra distintiva è l’arroganza ed il senso di superiorità.
L’attacco, per Lasch come per Rorty, è proprio alle élite culturali, più che a quelle economiche che saranno in particolare attaccate da un altro grande vecchio che ci ha lasciato in quegli anni, Ralf Dahrendorf [2]. Quelle classi intellettuali che si estraniano dagli aspetti materiali della vita e dal mondo della produzione, con la quale sono connessi solo per via del consumo, vivendo alla fine solo in un mondo di “astrazioni ed immagini”.
Christopher Lasch è stato uno storico ed un sociologo di formazione marxista ma poi orientatosi ad una critica sempre più aspra del “progressismo” [3], e alla critica del ‘narcisismo’ [4], senza dismettere, ma anzi approfondendo la sua critica al liberalismo, riprendendo temi populisti e un’attenzione alle strutture tradizionali della società (famiglia inclusa).
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L’esplosione del debito pubblico senza un prestatore di ultima istanza
di Domenico Moro
I trattati europei e l’euro, imponendo austerità e inibendo l’implementazione di politiche economiche su misura per le necessità dei singoli Paesi, hanno ottenuto il risultato opposto a quello previsto dai decisori politici e dalla dirigenza della Banca d’Italia negli anni’80 e ’90: il debito pubblico italiano è aumentato
Il debito pubblico è in Italia uno dei temi principali, se non il principale, attorno al quale ruotano il dibattito economico e le scelte politiche. Il debito pubblico, giudicato eccessivo, è stata una delle motivazioni per l’adesione all’euro e ai trattati europei, allo scopo di costringere governi e parlamenti a una maggiore disciplina di bilancio, incidendo anche oggi sulle scelte di spesa e di politica economica. La maggior parte del debito pubblico attuale si è formata tra l’inizio degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, raddoppiando dal 59,9% sul Pil del 1981 al 124,9% del 1994. Nonostante i vincoli europei alla spesa pubblica, oggi il debito risulta superiore ai livelli dei primi anni ’90, raggiungendo il 131,8% sul Pil contro il 75,7% della media Ue e il 79% della media dell’area euro, ed essendo inferiore in Europa al solo debito greco.
L’obiettivo del presente articolo è capire perché il debito è raddoppiato tra 1981 e 1994 e perché successivamente non si è riusciti a ridurlo in modo significativo e duraturo.
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Brasile 2018: la politica economica nelle elezioni presidenziali
Intervista a Laura Carvalho, Nelson Marconi e Marcio Pochmann
Dopo 13 anni di governo del Partito dei Lavoratori (PT), simbolicamente conclusi dai Mondiali di calcio e dalle Olimpiadi, gli ultimi due anni hanno visto approfondirsi la crisi economica e istituzionale: nel 2016 si è insediato il governo Temer, a seguito del “golpe istituzionale” ai danni di Dilma Rousseff, mentre solo pochi mesi fa è stato incarcerato l’ex presidente Lula (2003-2011): sarebbe stato candidato – largamente favorito nei sondaggi – per le prossime elezioni, che si svolgeranno il 7 ottobre. Il sostituto di Lula (Fernando Haddad) non gode dello stesso sostegno, e i sondaggi restituiscono un quadro completamente rovesciato: il favorito diventa infatti l’ex militare Bolsonaro, già soprannominato “Trump brasiliano”, e dalle posizioni ancor più marcatamente conservatrici e bellicistiche del presidente americano.
In questa cornice, i principali candidati “di sinistra” presentano programmi segnati da forti divergenze, in particolare sul fronte della politica economica; la radice di molte divergenze sta nel giudizio che tali candidati danno sugli anni di governo del PT. La posta in gioco è estremamente alta e l’intervista si conclude con un quadro a tinte decisamente fosche: al momento non si può nemmeno dare per scontato che ci sia una fuoriuscita pacifica da questa situazione di grave crisi economica e istituzionale; non a caso, negli ultimi mesi è esplosa la violenza in alcune città e alcune regioni del Paese, e la presenza dell’esercito tra le strade è ormai sempre più massiccia.
Anche in Brasile sembra matura la possibilità di un terremoto politico paragonabile a quello avvenuto negli Stati Uniti con l’elezione di Trump, o in Europa con, ad esempio, la Brexit prima, le elezioni francesi e quelle italiane poi. Simile è il discredito in cui versano le istituzioni, comparabile il peggioramento negli standard di vita, simili i tagli ai servizi pubblici e la crisi del welfare state; ancor più esacerbato, infine, il livello del conflitto politico. Per questo, in un certo senso, queste elezioni brasiliane parlano anche di noi, se non altro perché parte di un processo globale che ha investito anche il nostro continente e il nostro Paese.
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L’Italia distruggerà l’eurozona?
Ilia Roubanis intervista Sergio Cesaratto
Da New Europe, l’intervista al professore Sergio Cesaratto, docente di Economia Internazionale all’Università di Siena e nome ben conosciuto all’interno del dibattito critico sull’euro. Il professor Cesaratto spazia a tutto tondo su debito pubblico italiano e la sua sostenibilità, lo spread, le politiche economiche del governo gialloverde e lo scontro che si prospetta tra Italia e Unione europea. Scontro che, nelle sue parole, non sembra poter terminare, a causa della stolidità tedesca, se non con la distruzione di uno dei due contendenti
Il dibattito critico sull’euro è mainstream in Italia. L’attuale governo è una coalizione che comprende le tradizioni politiche sovraniste di sinistra e di destra.
L’economia è l’epicentro della discussione.
Fino all’inizio di questa settimana, il governo italiano ha tenuto fermi i suoi fondamentali impegni su una maggior redistribuzione e un minor carico fiscale. Tutto ciò ha spaventato i mercati, e da maggio 2018 i rendimenti dei titoli pubblici è raddoppiato. Le agenzie internazionali di rating e i mercati stanno esercitando ulteriori pressioni. La Commissione europea richiede, ancora una volta, disciplina fiscale.
In questo clima di tensione, politica e profondamente economica, New Europe ha chiesto aiuto ad un economista per comprendere la mentalità italiana. Sergio Cesaratto (SC) è Professore di Economia Internazionale all’Università di Siena, in Italia. Insegna Economia internazionale e Politica Fiscale e Monetaria dell’Unione monetaria europea (UME). Il suo più recente volume è “Chi non rispetta le regole? Italia e Germania – Le doppie morali dell’euro” edito da Imprimatur.
Il professor Cesaratto ha contribuito in maniera importante al dibattito post-keynesiano, concentrando l’attenzione sulla teoria della crescita e dell’innovazione, sulle riforme delle pensioni, sull’economia monetaria e la crisi europea. Per questa ragione, è anche una fonte spesso citata in quello che adesso è il dibattito euro-critico, ormai divenuto mainstream in Italia.
* * * *
New Europe (NE): Il Giappone ha un rapporto debito-PIL del 250%, la Grecia del 180% e l’Italia del 132%. Perché gli investitori si preoccupano?
Sergio Cesaratto (SC): Naturalmente non esiste un livello naturale del rapporto debito pubblico-PIL. Sono spesso evocati due fattori per valutare la sostenibilità del debito pubblico:
1. la sua denominazione, in valuta nazionale o estera
2. se è detenuto principalmente da creditori nazionali o esteri
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La scommessa del governo sui bond e la prigione tecnologica del reddito di cittadinanza
Deficit e reddito di cittadinanza: un'analisi oltre il posizionamento politico e la propaganda
di Redazione
La vicenda della nota di aggiornamento del Def, che sfocerà nella legge di stabilità vera e propria, ha rivelato diverse difficoltà della politica istituzionale. Sia quella al governo che quella all’opposizione. Cominciamo da quest’ultima che si rivela, nei suoi differenti volti, sia folcloristica che ostaggio dei poteri finanziari. Certo, quando si parla di folkore impossibile non menzionare Michele Emiliano presidente della regione Puglia, vero Zelig della politica nazionale, che loda, da esponente PD, i lineamenti della finanziaria gialloverde. O Stefano Fassina, passato dal sottosegretariato alle finanze nel governo Letta a posizioni “sovraniste di sinistra” se non di appoggio, perlomeno, di simpatia verso il governo gialloverde. Il vero folklore sta, comunque, in chi, rispetto alle previsioni di deficit del governo gialloverde, spara al rialzo. Da Palazzo Chigi esce una previsione di deficit di 2,4%? Che male c’è, allora, a sparare 3%, o oltre, accusando di timidezza nel deficit spending gli attuali occupanti degli scranni del governo? Oppure a immaginare finanziarie come si trattasse di Disneyland dove, nella strada principale con le luci e i festoni, c’è tutto dal sociale, al Welfare e magari anche la lotta alla tristezza?
Qui forse non sono chiare due cose.
La prima è che, con le previsioni economiche al ribasso e le clausole di salvaguardia dell’Iva da saldare, non è che questo governo, con una previsione di deficit al 2,4% abbia davvero grandi margini di spesa e di investimento. Su questo, probabilmente, certe lodi sul “coraggio” mostrato dai gialloverdi andranno riviste. Per focalizzarsi sull’entità e sul rilievo, difficilmente risolvibili dai gialloverdi, della crisi fiscale dello stato (che tassa sia troppo, ovviamente le cassi subalterne, e troppo poco, i ricchi, ma non trova mai equilibrio sociale e di bilancio).
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“La grande convergenza” di Richard Baldwin
di Luca Picotti
Recensione a: Richard Baldwin, La grande convergenza. Tecnologia informatica, web e nuova globalizzazione, Il Mulino, Bologna 2018, pp. 328, 28 euro (scheda libro)
La globalizzazione è un fenomeno complesso, antico e insito nella storia delle relazioni umane. Non è possibile considerarlo nella sua unitarietà, dal momento che in ogni periodo storico si è presentato con una sfumatura diversa. La globalizzazione che oggi conosciamo e che vediamo essere in crisi è diversa da quella di fine Ottocento: verso il 1990 la rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) ne ha trasformato i caratteri e il suo impatto sul mondo.
Questa è la tesi di fondo del prezioso libro di Richard Baldwin, professore di International Economics alla Graduate School di Ginevra, La grande convergenza. Tecnologia informatica, Web e nuova globalizzazione edito da il Mulino. Il libro espone con grande lucidità i meccanismi della globalizzazione, analizzati da Baldwin con una chiave di lettura personale volta a proporre un approccio singolare al fenomeno. In particolare, Baldwin si focalizza sulle differenze tra la cosiddetta vecchia globalizzazione, iniziata nell’Ottocento e caratterizzata dall’abbassamento dei costi dei trasporti, e la nuova globalizzazione, guidata sul finire del ventesimo secolo dalle ICT. Con la prima ha luogo la «grande divergenza» tra i paesi industrializzati del Nord, dove innovazione e sviluppo rimangono concentrati, e il resto del mondo; mentre con la seconda stiamo assistendo, grazie alle delocalizzazioni e al circolare delle idee e del know-how, alla «grande convergenza», con la conseguente crescita e industrializzazione dei paesi che prima erano ai margini dell’economia mondiale e la deindustrializzazione delle nazioni sviluppate.
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Pianificabilità, pianificazione, piano
di Ivan Mikhajlovič Syroežin
Introduzione di Paolo Selmi
Cari compagni,
eccoci finalmente al primo capitolo tradotto. Un capitolo “senza formule matematiche”, ma che mi ha dato lo stesso abbastanza filo da torcere rivelandosi, al tempo stesso, altamente stimolante. Syroežin si è dimostrato sin da subito un ottimo capo-cordata, capendo che il nostro passo mai potrà essere il suo ma, al tempo stesso, assumendosi nel concreto di ogni sua parola il compito di portarci fino alla vetta. Il contrappunto continuo del “curatore”, al contrario, si è dimostrato altamente fastidioso, nella sua preoccupazione di adattarne o criticarne posizioni in linea alla vulgata gorbacioviana in essere al momento della pubblicazione postuma di questo lavoro. Per questo me ne sono liberato quasi subito, lasciandolo alla prima fontanella a crogiolarsi in quelli che, di lì a poco, sarebbero stati i primi milioni di dollari intascati da lui e dai suoi amici oligarchi.
Syroežin, tuttavia, scrive per i suoi connazionali, ovvero attacca la salita in medias res. Noi abbiamo bisogno di un minimo di riscaldamento. Prendiamo quindi la nostra macchina del tempo e fermiamo le lancette alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Il Paese dei Soviet si configurava ancora come un’economia a proprietà sociale dei mezzi di produzione, dove lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo era abolito in quanto tutto il plusvalore prodotto attraverso una catena gerarchica di organizzazione della produzione diveniva ricchezza sociale, e dove la produzione era rigorosamente pianificata e non “lasciata all’anarchia del mercato”, come dicevano loro. Il capitolo IX del manuale sovietico di economia politica da me tradotto, è in grado di offrire un panorama più completo per chi volesse approfondire, e ad esso rimando1 .
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Un colpo al cerchio, uno alla botte
Considerazioni (provvisorie) sul Documento di Economia e Finanza 2019
di Andrea Fumagalli
A una setttimana dalla riunione del Consiglio dei Ministri che ha definito i primi contenuti del Documento di Economa e Finanza (DEF) per il 2019 e dopo giorni di discussione sul come ripartire le risorse e dove trovare modo di finanziare le varie misure, solo oggi (5 ottobre 2018), a una settimana dal termine ultimo per la presentazione del Def (28 settembre), sembrano essere disponibili i numeri che dovrebbero rendere attuative e concrete le proposte di politica economica declamate. Sulla base delle dichiarazioni e dei documenti esistenti, la manovra 2019 dovrebbe valere (il condizionale è d’obbligo) 33,5 miliardi, di cui 27,2 reperiti tramite indebitamento (il rapporto deficit/PIL passa dall’1,6% al 2,4% nel 2019, per poi scendere al 2,1% nel 2020 e all’1,8% nel 2021, contrariamente a quanto in inizialmente deliberato). Al netto dei 12,5 miliardi per sterilizzare l’aumento dell’Iva al 24% (clausola capestro ereditata dal governo Monti, senza che nessuno, destra e sinistra, dicesse alcunché…), il governo dovrebbe avere a disposizione circa 21 miliardi.
Al netto delle spese improrogabili (per la gestione corrente delle funzioni statali), e, notizia dell’ultima ora, al netto di circa 1 miliardo per l’assunzione di circa 1000 nuovi poliziotti (la repressione non sottostà a vincoli di bilancio!), ne rimangono circa 18-19. Tale somma dovrebbe distribuirsi (il condizionale è d’obbligo) nel seguente modo: 6,5 miliardi per il cosiddetto reddito di cittadinanza; 1 miliardo per la riforma dei centro per l’impiego; 1,5 miliardi per portare le pensioni minime a 780 euro mensili, per un totale di 9 miliardi; 7 miliardi per il superamento della riforma Fornero (che dovrebbe interessare tra le 400.000 e le 500.000 persone, a seconda di come la quota 100 viene calcolata); 2 miliardi per l’unica aliquota del 15% a circa un milione di partite Iva per poi estenderla alle imprese (che hanno già beneficiato di ingenti sgravi fiscali sulla decontribuzione, sugli investimenti e sui profitti); 1 miliardo (e non 1,5 come inizialmente dichiarato) per il rimborso dei truffati dalle banche.
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