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Karl Marx, «Anatomopatologo» del sistema capitalistico e levatore di due secoli di rivoluzioni
di Eros Barone
«Parlammo del mondo e dell’uomo, dei tempi e delle idee, con il rumore del mare che faceva da sottofondo al tintinnio dei nostri bicchieri. […] Levandosi al di sopra del confuso brusio degli anni e delle epoche, oltre i discorsi del giorno e le immagini della serata, affiorò alla mia mente una domanda sulla legge ultima dell’esistenza per la quale avrei voluto una risposta da parte di quel saggio. Durante una pausa di silenzio, mi rivolsi al rivoluzionario e filosofo con queste fatidiche parole, emerse dalle profondità del linguaggio e scandite al culmine dell’enfasi: “Che cos’è?”.
Sembrò che la sua mente si distraesse mentre guardava il mare che tumultuava davanti a noi e la moltitudine che si agitava sulla spiaggia. “Che cos’è?”, avevo chiesto, e in tono profondo e solenne egli rispose: “La lotta!”. Per un attimo mi parve di aver udito l’eco della disperazione, ma forse era la legge della vita».
Dall’intervista del giornalista americano John Swinton a Karl Marx (agosto 1880).
1. Socialismo scientifico e critica dell’economia politica
Karl Heinrich Marx nasce a Treviri da una famiglia della borghesia liberale tedesca di origine israelitica il 5 maggio 1818. Egli ha 13 anni quando muore Hegel, 14 quando muore Goethe. La giovinezza di Marx si svolge nel periodo compreso tra la rivoluzione francese di luglio (1830) e la rivoluzione francese di febbraio (1848).
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Nuove armi, terra e mare
Alla luce di Carl Schmitt
di Armando Ermini
Impossibile per un non esperto valutare se veramente quelle nuove armi di cui ha parlato Putin1, non solo cambiano la guerra navale ma addirittura, come scrive il Sa-ker, annullano l’opzione militare contro la Russia. Fosse davvero cosi, le implicazioni di questo fatto avrebbero conseguenze molto piu grandi della pura strategia militare. Conseguenze geopolitiche, immediate e di lungo periodo, e quindi anche storico-filosofiche, nella misura in cui ogni paese ispira la sua politica, i suoi fini e mezzi su alcuni fondamenti e scelte prima di tutto culturali.
Per stare sull’immediato, rilevo intanto che le parole di Michael Griffin, che sembra non sminuire l’importanza di quelle armi, pongono gli USA ma anche il mondo intero, di fronte all’inquietante scenario di una alternativa secca fra ciò che egli definisce una «sconfitta» o l’uso dell’opzione nucleare. Uno scenario, come sostiene Grasset, che significativamente non contempla la terza alternativa; quella di una presa d’atto realistica da parte americana che un mondo unipolare non è piu possibile, e quindi che è necessaria una ricontrattazione complessiva degli equilibri fra le grandi potenze. Equilibri militari, politici (zone d’influenza), economici, in vista di un nuovo «nomos» della terra, ovvero di un ordine multipolare fondato sul diritto internazionale e sui suoi vincoli cosi spesso disattesi.
Che il sottosegretario americano non contempli tale possibilità, che sembra paragonare tal quale ad una sconfitta del proprio paese, la dice lunga su ciò che gli USA intendono per «convivenza pacifica». Molto pericoloso, evidentemente!
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Gli incalcolabili danni dell’economia mainstream
di Lucrezia Fanti, Mauro Gallegati
I modelli economici ed econometrici utilizzati per programmare e valutare le politiche economiche da governi e banche centrali derivano dall’adozione di un paradigma teorico fallace e obsoleto. Ma che continua a produrre enormi danni sulla vita di noi tutti
L’economia è una scienza sociale che consente di quantificare e valutare empiricamente numerose variabili che attengono alla sua analisi – variabili micro, meso e macroeconomiche. La valutazione dei fenomeni economici e delle loro determinanti è legata alla teoria economica sottostante e al modo di intendere il sistema economico in termini socialmente e storicamente determinati.
Criticare e ripensare il paradigma economico dominante e le teorie che ne derivano, pertanto, non è solo uno sterile esercizio tra accademici e addetti ai lavori, ma è un elemento imprescindibile di discussione riguardo alle politiche economiche che condizionano materialmente il contesto economico e sociale in cui noi tutti viviamo.
Le politiche economiche messe in campo da governi e banche centrali sono sì il frutto di valutazioni rispetto all’andamento di variabili economiche chiave – quali ad esempio il PIL, la disoccupazione o il debito pubblico –, ma il segno di tali politiche è diretta conseguenza del paradigma teorico sottostante ai modelli economici (ed econometrici) utilizzati dalle istituzioni in questione.
Non fanno eccezione le politiche economiche adottate dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni in Italia – a loro volta influenzate e orientate da indicazioni e vincoli imposti a livello comunitario – e che sono oggetto delle critiche e delle analisi proposte all’interno di questo e-book.
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Chi non rispetta le regole?
Italia, Germania, le doppie morali dell'euro
di Sergio Cesaratto
Anticipiamo il filo rosso del libro, in arrivo presso le librerie e disponibile in digitale dai primi di maggio
Dalla prefazione e dall'introduzione
Questo libretto trae origine da una conferenza dal medesimo titolo tenuta il 25 gennaio 2018 presso l’Università di Friburgo in Brisgovia, la splendida cittadina nel Sud della Germania, organizzata dagli amici (tedeschi) della locale Società Dante Alighieri assieme all’Università Albert-Ludwigs di Friburgo. ...
Il filo rosso del libro
Il ragionamento che svilupperemo nel libro può essere così sintetizzato. Vi sono delle “regole del gioco”, ben note all’analisi economica, che rendono un’unione monetaria sostenibile. Tali principi prescrivono che gli squilibri esterni (delle partite correnti) fra i Paesi di un’area valutaria vadano regolati col concorso sia dei Paesi in avanzo che dei Paesi in disavanzo. Queste regole sono analoghe a quelle già imperfettamente applicate nel sistema aureo, un sistema monetario internazionale a cui l’euro è considerato affine. Con la copertura di precetti monetaristi, le regole nei fatti adottate nell’Eurozona sono invece altre, e sono in buona misura quelle desiderate dalla potenza europea dominante, in maniera tale che la moneta unica non ne contraddica il modello economico mercantilista. Il fatto che tali regole non abbiano funzionato nello stabilizzare l’area euro è condiviso; ma perché sbagliate, oltre che contorte, o perché non rispettate? Il processo di riforma delle regole, attualmente in corso, sembra basarsi sulla seconda tesi.
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Il docente di filosofia, un intellettuale organico della Buona Scuola
di Giovanni Carosotti
Anche solo sfogliando il «documento aperto» del MIUR intitolato Filosofia a scuola oggi, se ne avverte la totale continuità, stilistica e contenutistica, con le proposte precedenti: l’uso strategico della coppia «conservazione\innovazione», per screditare tutti coloro non in linea con la “didattica innovativa”; il riferimento alla «Società della Conoscenza» come condizione epocale che renderebbe inevitabile la «didattica per competenze»; la necessità di riconfigurare radicalmente la professione docente, considerando in qualche modo frenanti le competenze professionali sino a ora acquisite. Il Sillabo della filosofia non intende solo applicare la didattica per competenze alla filosofia, ma giustificare attraverso quest’ultima il quadro teorico alla base dell’intero impianto della Legge 107. Una disciplina messa al servizio della legge, e dell’esecutivo che l’ha prodotta. Ciò che più irrita del testo in esame è la caricatura della figura dell’alunno di cui si dà per scontata la mancanza di curiosità se non sono in gioco attività pratico-ludiche, e la definizione del docente quale «attivatore delle potenzialità dello studente». Cè anche il portfolio filosofico dello studente, con tanto di presunte competenze filosofiche, da testimoniare in uno specifico libretto. Un documento che costituisce un lavoro intellettuale di compiacimento verso le tesi governative e che rappresenta quanto di più ostile possa esserci all’essenza stessa (libera, dialogica, pluralista, etica) della filosofia.
* * * *
Il «documento aperto» del MIUR intitolato Filosofia a scuola oggi, pubblicato sul sito dell’INDIRE inaugura un nuovo percorso verso l’attuazione effettiva della Legge 107. Consultandolo, qualcuno potrebbe pensare a un cambio di rotta.
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Il picco di Draghi
Il "sottile" mercantilismo alla prova della bolla globale
di Quarantotto
La notizia ha praticamente fatto il giro del mondo: Draghi (da Washington) "ammette: la crescita potrebbe essere giunta al suo picco".
Risulta dunque di estremo interesse capire per quali ragioni, secondo l'illustre banchiere centrale, il "ciclo" potrebbe entrare nella sua fase discendente.
Ebbene, a stare a quanto riporta Zerohedge, oltre a un profluvio di "platitudes" (banalità), a ben vedere, Draghi queste ragioni non le indica: genericamente si richiama a degli "indicatori economici" che preannunzierebbero il raggiungimento del "picco", ma aggiunge poi, - non si sa bene in base a quali valutazioni-, che "lo slancio della crescita è atteso in prosecuzione", e che "il protezionismo (?) potrebbe aver già prodotto i suoi effetti sugli indicatori (altri? gli stessi della crescita?) del global sentiment".
Conclusione: da un lato, "un ampio grado di stimolo monetario rimane necessario", dall'altro, però, trapela (secondo Bloomberg) che i componenti del Consiglio BCE vedono come ragionevole attendere fino alla riunione di luglio per annunciare la fine del programma di acquisti".
2. Dal che si desume, per necessità logica insita nel ragionamento sintetizzato, che:
a) il fantomatico protezionismo sarebbe la causa principale, se non unica, del paventato rallentamento della crescita, mentre questa, viceversa, si basa su elementi puramente piscologici, o, più esattamente, capricciosi, cioè sul "sentiment" di non meglio individuati decisori globali;
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Che si può fare con questa Europa
di Carlo Clericetti
“Europa: quali regole rivedere (e come) per salvare l’Unione” era il tema del seminario che si è tenuto oggi 19 aprile alla facoltà di Economia di Roma 3, promosso da Astril e coordinato dal suo presidente Sebastiano Fadda. Nel frattempo a Berlino Angela Merkel e Emmanuel Macron annunciavano che entro giugno avrebbero concordato una proposta per la riforma dell’Eurozona. Le indiscrezioni affermano che probabilmente non ci riusciranno, ma volendo fare gli ingenui ci sarebbe da chiedersi perché mai su una problematica di tale rilevanza questi due paesi ritengano corretto annunciare ufficialmente che si metteranno d’accordo tra loro, sottintendendo in pratica che tutti gli altri potranno al massimo tentare di proporre qualche modifica al quadro da essi disegnato. D’altronde l’Italia brilla per la sua assenza, e non solo perché non c’è ancora un governo nella pienezza dei suoi poteri. E’ bene ricordare che Germania e Francia non hanno dato finora nessun segno di voler fare beneficienza, in particolare nei confronti del nostro paese. Qui di seguito il mio intervento al seminario di oggi.
* * * *
Quando Sebastiano Fadda mi ha parlato di questo seminario ho pensato due cose. La prima, che questa fosse un’ottima iniziativa. E’ in corso un dibattito sulla riforma dell’Unione che dovrebbe essere varata entro il prossimo anno, le proposte di cui si discute avrebbero – se approvate – pesantissime ripercussioni sulla nostra situazione, ma in Italia di questo problema quasi non si parla: molto poco a livello di economisti, niente del tutto in ambito politico, dove ci si accontenta di dichiarazioni generiche per lo più di fedeltà all’Europa, come se qualsiasi altro problema fosse secondario e poco rilevante.
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Più debito per uscire dalla crisi
di Andrea Baranes
Il problema dell’Italia è il debito pubblico. E’ stupefacente quanto poco ci si domandi – tra statistiche, impegni e dichiarazioni onnipresenti sulla riduzione del debito – per cosa lo Stato si stia indebitando. Lo Stato italiano ogni anno incassa più di quanto spende. Il problema sono gli interessi. Ma allora perchè non tornare alla proposta […]
Il problema dell’Italia è il debito pubblico. Non è nemmeno un argomento su cui discutere, ma un assunto evidente. Posto che il debito pubblico è eccessivo e ci strangola, ragioniamo pure di quali siano le strategie più efficaci per ridurlo il più velocemente possibile. Ma è davvero così, o è forse necessario fare un passo indietro?
Più che l’ammontare del debito pubblico, il faro che guida ogni scelta di politica economica è il rapporto tra debito e PIL. Cerchiamo di capire perché con un esempio semplificato. Ho un debito di 20.000 euro. E’ tanto o poco? Dipende. Se sono disoccupato e nullatenente, è enorme. Se guadagno un milione di euro l’anno, sono spiccioli o poco più. In altre parole, il valore di un debito va riportato a quanto si guadagna. L’esempio è forse fuorviante, anzi troppo spesso si sente dire che uno Stato dovrebbe comportarsi “come un buon padre di famiglia”, mentre la contabilità e gli obiettivi di una famiglia, un’impresa e una nazione sono completamente diversi. L’idea è comunque di misurare il debito in rapporto alla ricchezza prodotta per capirne la sostenibilità.
Anche qui sono però necessarie alcune precisazioni, soprattutto considerando quanto il rapporto debito/PIL definisca le politiche europee e italiane. Se dobbiamo accettare l’austerità, se il mantra degli ultimi anni è che “non ci sono i soldi”, se dobbiamo tagliare su servizi pubblici, pensioni o sanità, il problema è uno solo: dobbiamo ridurre il rapporto debito/PIL, e dobbiamo farlo a marce forzate. Il fiscal compact prevede di rientrare in 20 anni al famigerato 60%, mentre l’Italia viaggia oltre il 130%.
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La sinistra alle prese con l'Europa, la Nazione, il Mondo
di Pierluigi Fagan
Tra un anno si va a votare per l’Europa. Su Micromega, G. Russo Spena (qui), sintetizza le posizioni in cui si divide la sinistra europea.
La prima posizione è sostenuta da Linke (Germania) e Syriza (Grecia), dove però la posizione greca rispetto ai diktat della Troika, non ha mostrato apprezzabili pratiche politiche alternative. Cambiare l’UE dal di dentro con intenti progressisti, la difficile linea.
C’è poi Varoufakis ed il suo Diem25 sostenuto dai sindaci Luigi de Magistris e Ada Colau, oltre a Benoit Hamon, fuoriuscito dal partito socialista francese ha creato il movimento Génération-s – e da altre piccole forze provenienti da Germania (Budnis25), Polonia (Razem), Danimarca (Alternativet), Grecia (MeRA25) e Portogallo (LIVRE). Sinistra transnazionale che vuole democratizzare l’Europa.
Infine, ci sono Bloco de Esquerda portoghese, Podemos spagnolo e France Insoumise francese che hanno firmato assieme la Dichiarazione di Lisbona a cui ha successivamente aderito anche l’italiano Potere al Popolo. Anche qui si vuole costruire un contropotere democratico all’Europa neo-ordo-liberale.
Tutti e tre gli schieramenti mostrano un nuovo interessante fenomeno che è quello del dialogo e del coordinamento tra forze politiche di più paesi. Da tempo lo facevano le forze conservatrici, liberali e socialdemocratiche ovvero le forze di governo, quelle che governano nei rispettivi paesi e quel poco che si decide al parlamento europeo. Interessante che ora anche la sinistra quasi sempre di opposizione (Bloco de Esquerda è l’unica forza al governo oltre a Syriza) faccia i conti con il formato inter-nazionale.
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Gli errori fatali del fondamentalismo finanziario
di William Vickrey
Visto che sui media mainstream impazza un sedicente dibattito su deficit e debito pubblico, utile più che altro a confondere le idee e perpetuare convinzioni sbagliate, ripubblichiamo questo articolo del premio Nobel per l’Economia William Vickrey, che illustra gli errori fatali del pensiero economico convenzionale in questo campo
Nel mese di ottobre 1996, il premio Nobel per l’Economia William Vickrey pubblicò un articolo che illustrava “I 15 errori fatali del fondamentalismo finanziario”: per esempio il sacro terrore del deficit e del debito pubblico, legato a erronee analogie tra comportamento economico del singolo e azione dello Stato. Queste fallacie sono rimaste ben vive – o meglio, sempre più vive – nel dibattito pubblico, e lo hanno anzi permeato, trovando un’applicazione concreta, dai risultati disastrosi, nelle regole di Maastricht. Per questo oggi abbiamo scelto di ripresentarne alcune, con la spiegazione del perché si tratta di ragionamenti sbagliati e – se tradotti in pratica – forieri di inutili sofferenze. Quelle che in un’eurozona intrappolata in questi errori, purtroppo, sono ormai evidenti agli occhi di tutti.
* * * *
In campo economico, una grande parte delle teorie convenzionali oggi prevalenti negli ambienti finanziari, ampiamente utilizzate come base per le politiche governative, nonché pienamente accettate dai media e dall’opinione pubblica, si basa su analisi parziali, su ipotesi smentite dalla realtà e su false analogie.
Per esempio, si sostiene che sia bene incoraggiare il risparmio, senza prestare attenzione al fatto che, per quanto riguarda la maggior parte delle persone, favorire il risparmio significa scoraggiare il consumo e ridurre la domanda, e che una spesa fatta da un consumatore o da un governo è anche un reddito per i venditori e i fornitori, così come il debito pubblico è anche una risorsa.
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Tra psiche e politica: funzionamento mentale e immaginario collettivo
di Paolo Bartolini*
Per creare dobbiamo fidarci delle nostre risorse più nascoste, armonizzare coscienza e inconscio, sognare la realtà nonostante la sua brutalità
Alcuni mesi fa è uscita, per le edizioni Raffaello Cortina, una lunga intervista di Luca Nicoli ad Antonino Ferro, uno dei pensatori più originali e apprezzati del nostro tempo in campo clinico e psico-analitico. Il dialogo con questo “psicoanalista irriverente” ha preso la forma di un libro che mi sento di suggerire a chi coltiva ancora, nel rumore assordante del presente, la passione per l’ascolto che cura, per il dialogo che rende possibili nuove narrazioni, per le vie con le quali l’inconscio (questo sconosciuto a cui dobbiamo buona parte della nostra creatività) sembra palesarsi dilatando la nostra esperienza della realtà. Il lettore curioso scoprirà piacevolmente che le ipotesi metapsicologiche sviluppate nel corso degli ultimi decenni stanno stravolgendo la psicoanalisi classica aprendo una nuova fase nello studio del funzionamento mentale. Dopo l’avvento delle esplorazioni psicoanalitiche di Wilfred R. Bion, Ferro dichiara candidamente che la visione del profondo di Freud, a parte alcuni punti fermi (l’importanza del setting e la centralità dei sogni, della sessualità nello sviluppo della personalità e dell’inconscio), può essere oggi considerata antiquata e priva di utilità terapeutica. L’inconscio stesso non va più pensato come un luogo psichico, ma come una funzione della personalità.
Bion, soprattutto mediante la nozione di “pensiero onirico della veglia”, ha dischiuso negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso la possibilità di effettuare un vero e proprio salto quantico nella comprensione della psiche e delle relazioni umane.
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Austerità in Italia: i sacrifici alimentano il debito
di Walter Paternesi Meloni, Antonella Stirati
Negli ultimi anni il rapporto tra debito pubblico e PIL è aumentato, non diminuito, e questo, insieme ad una informazione economica spesso tendenziosa o di cattiva qualità, potrebbe indurre molti a credere che le politiche di austerità in Italia non siano state fatte, o quantomeno che non siano state fatte a sufficienza (si vedano, rispettivamente, le dichiarazioni degli ex commissari alla spending review Perotti e Cottarelli). Al contrario, in questa breve nota proveremo a mostrare per mezzo di alcuni dati di contabilità nazionale che i tagli alla spesa e l’aumento della pressione fiscale ci sono stati, e che proprio per questo il rapporto debito/PIL è aumentato.
Il fondamento economico per cui le politiche di austerità fiscale possono in molti casi peggiorare ciò che dicono di voler migliorare, ossia il rapporto debito/PIL, risiede nel fatto che, per via del moltiplicatore fiscale,[1] la riduzione di debito pubblico – attuata ad esempio grazie ad un avanzo di bilancio – può causare una riduzione del denominatore del rapporto (il reddito) di proporzione maggiore della riduzione del numeratore (il debito pubblico). In altre parole, un consolidamento fiscale, inteso come taglio della spesa o aumento delle tasse, può far crescere il rapporto debito/PIL invece di ridurlo.[2] Per queste ragioni il principio del bilancio in pareggio, introdotto in Costituzione nel 2012 ed in linea con le linee di politica economica dettate dal Fiscal Compact, non è virtuoso ogni qual volta l’economia si trovi in una fase ciclica negativa o comunque vi siano nel Paese lavoro e capacità produttiva (gli impianti delle imprese) inutilizzati o sotto-utilizzati.[3]
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La teoria della conoscenza nel materialismo dialettico
Da Engels e Lenin alla riflessione di Guglielmo Carchedi
di Massimiliano Romanello
Contributo della FGCI al seminario "Lavoro mentale e classe operaia", del 19 aprile 2018, presso la facoltà di Economia dell'Università degli studi Roma Tre, nell'ambito del ciclo di incontri "Tecnologia, lavoro e classe", promosso dall'organizzazione Noi Restiamo
Teoria del Riflesso e materialità della conoscenza
Il testo che segue è da considerarsi come un’introduzione alla lettura dell’opera di Guglielmo Carchedi Sulle orme di Marx, lavoro mentale e classe operaia, che si presenta come un quaderno estremamente denso di nozioni e dall’elevato valore teorico, in cui l’autore propone un tentativo di interpretazione dello sviluppo del capitalismo contemporaneo, ponendo la propria attenzione e quella del lettore su una realtà consolidata e che va sempre più articolandosi: Internet.
La base su cui poter edificare l’intero discorso è individuata nel fondamentale concetto di trasformazione. Ogni sistema produttivo in generale e il capitalismo in particolare prevede la trasformazione di forza lavoro, mezzi di produzione e materie prime in un prodotto finale, da destinare al mercato. Tuttavia essa non riguarda soltanto ciò che è comunemente riconosciuto come merce, cioè come frutto della manualità di uomini o macchine. Dal momento che l’attività cognitiva dell’uomo è diffusa in modo sempre più capillare nei paesi occidentali e partecipa a pieno diritto al ciclo produttivo, e poiché, secondo Carchedi, non esiste in linea di principio una distinzione tra lavoro manuale e intellettuale, (“Tutto il lavoro materiale necessita il concepire, l’ideare; tutto il lavoro mentale necessita tutto il corpo senza il quale il cervello non potrebbe funzionare” [1]), la categoria della trasformazione si può e si deve estendere anche alla conoscenza.
I processi lavorativi contengono quindi sia trasformazioni oggettive, sia trasformazioni mentali e, in queste ultime, la forza lavoro trasforma sia la conoscenza soggettiva, propria cioè dell’agente mentale che opera, sia la conoscenza oggettiva, che è contenuta fuori da esso, in altri agenti mentali, in libri, computer ecc. oppure nei mezzi di produzione, in nuova conoscenza, che può essere differente o semplice riproduzione della precedente, pronta ad essere considerata come punto di partenza di un nuovo ciclo.
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Rousseau, il conflitto e la politica
Note a margine del libro La gabbia dell'Euro
di Giovanni Di Benedetto
Il libro di Domenico Moro, La gabbia dell’euro (Imprimatur, Reggio Emilia, 2018) è un agile pamphlet nel quale l’autore sostiene che il dispositivo dell’euro e del vincolo monetario rappresenta lo strumento attraverso il quale le classi dirigenti europee hanno ridefinito, a proprio favore, i rapporti di forza e gli equilibri, per come si erano assestati lungo i Trenta gloriosi, con le classi subalterne e, in primis, il movimento operaio. Si è trattato di una vera e propria controrivoluzione per affermare, a partire dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, il dominio del capitale e, con esso, margini di profitto in grado di fronteggiare i limiti di redditività dovuti alla caduta tendenziale del saggio di profitto, e per causare l’erosione del carattere pubblico e redistributivo dello Stato dei diritti e del welfare keynesiano. La proposta del libro di Moro risiede nella necessità di superare l’integrazione europea e, in particolare, l’integrazione valutaria e l’euro: “in effetti, non è credibile lottare per la sanità, per il salario, per la creazione di posti di lavoro, per i servizi del proprio comune se si cozza contro la gabbia dell’integrazione europea, soprattutto valutaria. (…) In questo senso, l’obiettivo del superamento dell’euro permette di recuperare i salariati, i disoccupati e i giovani alla partecipazione politica e di ricostruire una coscienza di classe a livello europeo” (D. Moro, ibidem, p. 95). L’intento di queste riflessioni non è, tuttavia, quello di riassumere il testo di Moro; già numerose sono le recensioni, tutte di valida fattura, che danno conto delle tesi dell’autore. Il proposito, più modesto, consiste e si limita, piuttosto, a soffermarsi, brevemente, su tre temi che vengono affrontati ne La gabbia dell’euro e che oggi assumono, agli occhi di chi scrive, particolare importanza.
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Riforme lacrime e sangue
Storia recente del saccheggio pensionistico
di coniarerivolta
Il recente studio a cura del Fondo Monetario Internazionale “Italy: Toward a Growth-Friendly Fiscal Reform” (“Italia: verso una riforma fiscale amica della crescita”) pubblicato a marzo di quest’anno, oltre a tracciare la rotta ortodossa delle più congrue politiche fiscali e del lavoro per il nostro Paese, fissa anche le priorità di nuovi interventi in tema previdenziale. Evidentemente le riforme più recenti, che hanno già stravolto in senso restrittivo le pensioni dei lavoratori italiani, non sono state sufficienti a saziare gli appetiti dei sostenitori della presunta insostenibilità del sistema previdenziale italiano.
Dopo venti anni di stravolgimento del sistema previdenziale, cerchiamo di capire in modo più approfondito qual è il quadro attuale delle pensioni in Italia così come plasmato dalle ultime riforme del biennio 2010-2012, la duplice Riforma Sacconi 2010-11 e la Monti-Fornero del 2011. Tali riforme meritano particolare attenzione: in primo luogo poiché sono state le ultime vaste riforme che hanno fortemente modificato in direzione restrittiva il sistema pensionistico; in secondo luogo perché i contenuti stabiliti esprimono in modo palese la furia controriformistica dettata dal dogma dell’austerità finanziaria che, seppur già pienamente vigente dagli anni ’90, ha visto una forte accelerazione negli anni della crisi economica e in particolare in concomitanza con la crisi dei debiti sovrani dei Paesi periferici dell’eurozona (2009-2011).
I provvedimenti restrittivi hanno colpito due aspetti: l’età pensionabile e l’entità della pensione media attesa.
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Moneta Fiscale: Aspetti Finanziari e Contabili
di Biagio Bossone, Marco Cattaneo,
Massimo Costa, Stefano Sylos Labini
Dalla sua prima resa pubblica sul Sole 24 Ore di ben 6 anni addietro a oggi, l’idea della Moneta Fiscale di strada ne ha fatta e tanta anche. Al di là delle facili critiche, i commenti caustici e persino le affermazioni ingiuriose che alcuni hanno rivolto all’idea senza nemmeno averne letto i contenuti o compreso i sottostanti fondamenti, occorre riconoscere invece che i dubbi, i quesiti nonché gli incoraggiamenti manifestatici tanto da qualificati esperti quanto da comuni cittadini semplicemente incuriositi all’idea ci hanno aiutato a farla crescere e a suscitare l’interesse.
Come risultato, di Moneta Fiscale oggi si parla, che ciò piaccia o no, e il Financial Times ne definisce l’attuazione come “tecnicamente possibile”. Il concetto si è affermato all’attenzione della politica, delle istituzioni e del grande pubblico, anche ad onta di grandi organi nostrani (di cosiddetta informazione aperta e democratica) che, esprimendosi sulla materia in modo, a dir poco, disinformato, non hanno inteso dar voce a chi ai loro lettori la materia l’avrebbe almeno saputa esporre correttamente…
Lo scorso anno, raccogliendo i numerosi spunti ricevuti e mettendo a frutto i ragionamenti maturati lavorando al perfezionamento dell’idea, abbiamo svolto, tra le altre, due approfondite riflessioni, ospitateci da Economia e Politica e dalla rivista MicroMega, dedicate al proposito di fare il punto sull’argomento e dare risposte precise ai precisi interrogativi postici da lettori e commentatori in via privata o pubblica.
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Possibilità di azione - E nel concreto!
di Herbert Böttcher
Lettera aperta alle persone interessate ad EXIT! nel passaggio dal 2017 al 2018
Non è per caso che le difficoltà nel formare il governo, dopo l'elezione del parlamento tedesco, mostrino di essere in relazione con le centrali questioni sociali ed ecologiche, le questioni relative ai rifugiati ed al clima. È qui che diventano chiari i limiti dell'azione del governo, il quale pretende di gestire i processi di distruzione sociale ed ambientale, che vanno dal collasso degli Stati fino alla distruzione delle basi della vita, attraverso quelli che sono i metodi della scatola magica dell'immanenza capitalista: ora, più mercato, ora di nuovo, un'altra volta, più Stato; e tutto questo in una successione sempre più rapida, oppure, se è necessario, facendo uso di una miscela delle due cose. E, in tutta questa confusione, dev'essere mostrata una faccia o un profilo.
Alla domanda preoccupata di un presentatore televisivo - che si domanda, di fronte agli ambigui risultati elettorali, se si possa fare affidamento sull'instabilità politica, ora presente in Germania, così come negli altri paesi europei - risponde uno dei soliti esperti accademici: «Oggi, l'Europa è arrivata anche in Germania». Il professore ha ragione, perché l'instabilità politica è sempre meno lontana dalla Germania. Ma il fatto che egli abbia trasfigurato in normalità quello che è lo stato di crisi comune all'Europa, dimostra che non ha capito niente.
A partire dal progetto del modello verde-rosso della riforma Hartz IV, e dalla deregolamentazione del lavoro - con la conseguente massificazione del lavoro precario -, la Germania è riuscita ad ottenere un vantaggio per quanto riguarda l'esportazione nel quadro della concorrenza fra i paesi in crisi.
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Autonomia della tecnica ed obsolescenza dell'uomo in Günther Anders
di Michel Iets
Nel momento in cui i trans-umanisti ci promettono un avvenire nel quale coloro che sono inadatti diverranno gli «scimpanzé del futuro», dove l'imminenza della catastrofe nucleare abita il nostro quotidiano, e gli oggetti tecnici sembrano colonizzare sempre più a maggior velocità le nostre vite. Come pensare la tecnica, allorché la densità, la complessità e la potenza dei suo artefatti va crescendo, e la nostra intimità viene violata da dei dispositivi che spettacolarizzano e rendono mediatica la nostra vita nella sua interezza? A tale domanda, Günther Anders sembra poter fornire delle salutari chiavi di lettura e di comprensione.
Günther Stern - che negli anni '30 scelse lo pseudonimo di Anders («l'altro», in tedesco) al fine di nascondere la sua ebraicità - dedico gli anni della sua gioventù all'elaborazione di un'antropologia filosofica detta «negativa», nella quale la libertà è la categoria fondamentale dell'uomo, «abbandonato» nel mondo. Ma ben presto, storicizzando la sua antropologia filosofica, Anders si rese conto che l'uomo non si trova più circondato «da api, da granchi e da scimpanzé, ma da stazioni radio e fabbriche». A partire dall'inizio degli anni '40, comincia a costruire un'opera che considera l'uomo, non più dal punto di vista della natura, ma da quello della tecnica. Di più, egli cerca di pensare la tecnica, anche quando l'uomo - la cui artificialità aumenta - si dota dei mezzi per il suo stesso annientamento. Auschwitz, e poi Hiroshima, rende attuale la coscienza della catastrofe e l'arma nucleare ordina l'avvento della tecno-scienza.
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Superpoliticamente apolitico. L’uso dei corpi
di Lorenzo Chiesa
Qualche anno fa, nel 2014, Giorgio Agamben ha chiuso il ciclo di "Homo sacer" con la pubblicazione di "L'uso dei corpi"*. In questa recensione, uscita originariamente sullo Stanford University Blog in occasione della traduzione in inglese del libro, Lorenzo Chiesa ne ha approfittato per fare il punto sul significato complessivo della operazione filosofica agambeniana, mettendone in luce tanto la coerenza quanto le ambiguità
L’uso dei corpi ruota attorno a ciò che, citando l’Antigone di Sofocle, Agamben chiama “superpolitico apolitico” (hypsipolis apolis). L’espressione compare soltanto due volte nel libro ma è del tutto decisiva.
Che cos’è vivere in quanto “superpolitico apolitico”? È vivere e, allo stesso tempo, pensare una politica liberata da ogni “figura della relazione” (e della rappresentazione) nella quale, tuttavia, “siamo insieme” al di là di qualsiasi relazione.
Questo essere-insieme non relazionale richiede l’“uso dei corpi” – nel senso soggettivo del genitivo. Ovvero, un altro corpo – improduttivo, non strumentale – è possibile per l’essere umano nella misura in cui emerge una “zona d’indifferenza” tra il proprio corpo e quello di un altro. L’uso diventa uso comune.
Il “superpolitico apolitico” comporta pure un ambizioso disinnesco dell’intero dispositivo della metafisica occidentale, come intesa a partire almeno da Aristotele. L’ontologia, in quanto inscindibile dalla politica, è infatti fondata sulla relazione di bando, la quale in definitiva fonda qualsiasi tipo di relazione.
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Ernst Lohoff sul capitale fittizio e la duplicazione della ricchezza
di Giordano Sivini
1. Il capitale e il suo doppio
Il capitalismo sopravvive precariamente alla crisi della valorizzazione basandosi su capitale fittizio che alimenta bolle finanziarie destinate a scoppiare. Robert Kurz aveva avanzato questa tesi per spiegare che la crescita economica degli anni ’80 e ’90 era virtuale, costruita su montagne di debiti generati dall’anticipazione di un valore futuro che non sarebbe stato mai realizzato. Aveva continuato ad interpretare le vicende successive su questa base, trovando conferma nella successione ininterrotta di crisi finanziarie a livello mondiale.
Ernst Lohoff e Norbert Trenkle avevano partecipato a questa elaborazione, così come, in precedenza, alla definizione della teoria del soggetto automatico e della crisi della sua capacità di creare valore a causa della irreversibile prospettiva della scomparsa del lavoro. Il loro rapporto con Kurz si era poi rotto sul piano personale e su quello teorico. Pur non allontanandosi dalla teoria del soggetto automatico, avevano concentrato l’analisi sul capitale fittizio, convinti che la sopravvivenza del capitalismo alla crisi della valorizzazione dovesse essere attribuita alla capacità della sfera finanziaria “di produrre, in qualche modo, una forma peculiare di moltiplicazione del capitale che permette di sostituire, transitoriamente, l’accumulazione di plusvalore”. La sua drammatica crescita non poteva essere attribuita “ad una mera distribuzione e mobilitazione del plusvalore già accumulato”.1
Questa loro ricerca ha dato luogo al volume La grande svalorizzazione,2 presentato in Germania nel 2012, anno in cui Kurz ha pubblicato il suo ultimo libro Denaro senza valore,3 facendo emergere una divaricazione di posizioni, poi oggetto di un confronto tra due anime della Critica del valore che dura tuttora, in assenza di Kurz deceduto quello stesso anno.
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Adorno e l’attualità del pensiero critico
di Armando Lancellotti
Stefano Petrucciani, A lezione da Adorno. Filosofia Società Estetica, manifestolibri, Roma, 2017, pp. 176, € 22,00
Questo libro di Stefano Petrucciani(*), ordinario di filosofia politica presso la Sapienza di Roma, si presenta come una rilettura complessiva del lavoro di Theodor Wiesegrund Adorno, di cui considera tutte le grandi opere, toccando ciascuno dei nuclei fondamentali della riflessione del maestro francofortese, ma lo fa assumendo spesso come punto di osservazione privilegiato – seppur non esclusivo – i materiali dei corsi e gli scritti delle lezioni universitarie del filosofo.
Un excursus complessivo, organizzato per tematiche, che da un lato tiene opportunamente conto dei settanta o cinquanta anni che ci separano da opere quali la Dialettica dell’Illuminismo o la Dialettica negativa e la Teoria estetica – distanza temporale, profondi cambiamenti economico-sociali e culturali nel frattempo intervenuti che contribuiscono ad evidenziare alcune inadeguatezze o rigidità della adorniana teoria critica della società – ma dall’altro permette di cogliere distintamente l’importanza intellettuale cruciale della cifra essenziale del pensiero francofortese, da cui – aggiungiamo – proprio oggi, forse più che mai in precedenza, sarebbe opportuno ripartire: la vigile attenzione critica, il meticoloso scavo analitico, l’infaticabile lavoro di analisi interpretativa, che urge risvegliare nell’epoca e nella società della nuova unidimensionalità della globalizzazione, economica, politica ed ideologica.
Petrucciani legge le lezioni sul concetto di filosofia che Adorno tiene a inizio anni Cinquanta, al momento del suo ritorno in Germania dopo l’esilio americano e dopo la conclusione della collaborazione con Horkheimer per la stesura della Dialettica dell’Illuminismo, considerandole l’inizio di un percorso più personale: la specificità che distingue Adorno da altri francofortesi consiste in un permanente e prevalente approccio filosofico alla teoria critica della società praticata dalla Scuola, per cui essa è essenzialmente un’azione teoretica, per quanto collegata alla complessità dei saperi sociali.
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Industrializzazione e progresso
La lezione della Rivoluzione d’ottobre
di Giorgio Grimaldi
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
Premessa. Dalla rivoluzione socialista a quella borghese e viceversa
Per dimensioni, dinamiche e contenuti, solo la Rivoluzione francese può essere proposta per un’analisi comparativa con la Rivoluzione d’ottobre, mentre il ciclo rivoluzionario inglese e a maggior ragione la Rivoluzione americana, pur preparando anche sul piano ideologico gli eventi del 1789, fanno riferimento a blocchi sociali troppo diversi da quelli che saranno protagonisti dei rivolgimenti successivi. Naturalmente - e non solo dal punto di vista cronologico - il rapporto tra queste due grandi epoche di crisi storica va subito rovesciato: la Rivoluzione francese è stata uno sconvolgimento politico e sociale le cui ripercussioni su larga scala hanno dato avvio a un ciclo rivoluzionario che si sarebbe concluso esattamente duecento anni dopo.
Tralasciamo gli avvenimenti intermedi come la Comune di Parigi. Tralasciamo anche il fatto che alla fine del XIX secolo la borghesia nel prendere il potere abbia dovuto mettere in azione forze a lei conflittuali, aprendo la strada a istanze nuove e più avanzate; forze anche contrapposte agli interessi borghesi stessi, ma che continueranno a muoversi nel solco della loro provenienza. Se la rivoluzione del 1789 ha visto la presa del potere politico da parte di una classe che già deteneva di fatto quello economico, la rivoluzione del 1917 si è trovata di fronte per lo meno un doppio ostacolo: giungere al socialismo a partire da un’economia ancora prevalentemente agraria.
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Circa la ‘tentazione’ del populismo democratico
di Alessandro Visalli
Di recente Michele Prospero, filosofo fortemente impegnato nella critica di leaderismo e populismo, in particolare negli anni che vanno dall’insorgere di Berlusconi a Renzi, passando per il M5S, ha scritto un interessante articolo su Il Manifesto (qui il testo) nel quale segnala la crisi del liberismo anglosassone ed anche, contemporaneamente sia del “liberismo a contaminazione populista”, di marca berlusconiana, sia del “neo-illuminismo europeo”, di marca prodiana. Distingue quindi in queste crisi l’emergere di un vuoto nel quale sono premiate quelle che chiama “chiusure, protezioni e illusioni comunitarie”.
L’articolo si muove chiaramente nell’orbita di LeU, che ne è il soggetto, il “progetto” cui fa riferimento nei primi righi è questo:
Che il voto non abbia premiato la sinistra è così evidente che non vale insistervi oltre. Invece di accanirsi in una metafisica della sconfitta o di trincerarsi in un silenzio che dura ormai da un mese, i dirigenti dovrebbero chiarire cosa fare del modesto bottino elettorale comunque ricevuto. Non ci vuole una disperata opera di contrizione per spiegare perché dal 6% raggiunto alcuni mesi prima alle regionali in Sicilia si è verificata alle politiche una perdita di almeno due punti che ha indebolito di molto il progetto.
Nel seguito immediato l’autore nomina le cause che hanno sottratto “quei decimali di consenso” che avrebbero ridotto la sconfitta elettorale. Questi sono:
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I diritti civili dell'Unione Europea
La maschera del Neoliberismo
di Daniela Danna
L'Unione europea del pareggio di bilancio, dell'austerità nei conti dello Stato che erodono il settore pubblico e il welfare, l'Europa delle norme che avvantaggiano il grande capitale, dell'euro che strangola i Paesi economicamente più deboli a vantaggio di quelli più forti è anche l'avamposto dei diritti per le minoranze sessuali, e secondo gli esperti batte per impegno anche l'Onu. Come è possibile?
Dobbiamo tornare indietro all'onda lunga del Sessantotto, in cui il risveglio politico dei soggetti oppressi, la loro autorganizzazione e presa di parola, toccava anche gay e lesbiche (minoritarie sia nel movimento gay che nel femminismo) (1). Invece di vergognarci per i nostri amori, abbiamo cominciato a praticare la visibilità all'insegna dell'aspirazione rivoluzionaria di quegli anni: nel Gay Liberation Front, nel Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano (il Fuori!), più tardi persino nelle Brigate Saffo. E abbiamo prodotto cambiamenti nella società e nelle leggi: dal 1989 a oggi ben 24 Paesi europei hanno introdotto forme di riconoscimento per le coppie dello stesso sesso. Questo è avvenuto senza obblighi da parte degli organi comunitari europei, che lasciano il Diritto di famiglia agli Stati, però con il loro contributo politico. Dalla seconda metà degli anni '70 sia le istituzioni che oggi chiamiamo Unione europea che il Consiglio d'Europa (2) sono stati oggetto di pressione politica da parte dell'Interna-tional gay and lesbian association (ILGA), fondata in Gran Bretagna nel 1976, e spinta dall'associazione britannica Stonewall a lottare per l'inserimento dell'orientamento sessuale tra le categorie per cui è proibita la discriminazione nei vari forum europei.
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Favole del reincanto
di Stefania Consigliere
E allora perché non mi sento antifascista? La prima ragione è strategica e generale: definirsi a partire dall’avversario è pericoloso
La trappola oppositiva
Come al solito fra me e il mondo qualcosa non torna. Questa volta è il fatto di non sentirmi particolarmente antifascista e proprio mentre i resti della sinistra e del pensiero critico sembrano trovare una piattaforma comune nel definirsi tutti come tali. Riconosco che non è un buon inizio. Fascismo, nazismo e totalitarismo mi ossessionano almeno fin da quando gli anni Settanta hanno inciso brandelli di storia e di politica nel mio (in)conscio di bambina. Mi angosciava l’idea che intere nazioni avessero potuto idolatrare un Mussolini o un Hitler, tollerare l’esistenza dei campi o trovare sensata l’eliminazione di ogni differenza. Poi l’ultimo paio di decenni mi ha ben chiarito cosa può uno Stato, quanti e quali investimenti in paura, coazione, intossicamento e scissione siano necessari per insegnare agli umani l’alienazione da sé e dal mondo.
E allora perché non mi sento antifascista? La prima ragione è strategica e generale: definirsi a partire dall’avversario è pericoloso. C’è un mimetismo nascosto, una fratellanza segreta fra A e non-A che satura il campo del pensabile e nasconde tutto ciò che, essendo altro, rifiuta di farsi catturare nella logica binaria. Questa trappola concettuale ha avvelenato lo spazio politico novecentesco, generando ortodossie speculari e spingendo tutto il resto ai margini e nell’insignificanza. Meglio allora definirsi a partire da ciò che si è o si vorrebbe essere.
La seconda ragione più difficile da fissare.
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