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CETA, cosa c’è dentro al pacco
di Peter Rossman
Dal blog Transition, di Domenico Mario Nuti, traduciamo un post ospite sul CETA, l’accordo economico e commerciale tra Canada e UE: se ne è parlato molto meno di quanto si sia parlato del TTIP, si sta silenziosamente avvicinando alla conclusione, e non è meno pericoloso né meno foriero di disastri. Come tutti i trattati di questo tipo, contiene una vera e propria espropriazione della democrazia a favore dello strapotere delle multinazionali. Sono garantite al di sopra di tutto le aspettative di guadagno degli investitori internazionali: e per farlo si schiacciano e impediscono leggi e regolamenti nazionali volti a difendere l’interesse pubblico, i diritti dei lavoratori, la salute e l’ambiente
Ospitiamo questo post sul CETA – l’accordo economico e commerciale globale tra l’UE ed il Canada la cui ratifica è prevista per la fine di ottobre – a cura di Peter Rossman, responsabile di marketing e comunicazione presso l’IUF (International Union of Food, Agricultural, Hotel, Restaurant, Catering, Tobacco and Allied Workers’ Associations). L’articolo è frutto di una accurata lettura del trattato, ed è già apparso sul Global Labour Column edito da CSID (Corporate Strategy and Industrial Development, University of the Witwatersrand, Johannesburg). Ringraziamo l’autore per aver consentito la riproduzione del suo lavoro in questa sede. Esiste anche un precedente articolo più approfondito, intitolato “Trade Deals That Threaten Democracy”. (DMN)
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“Le Parti istituiscono un’area di libero scambio…” CETA Articolo 1.4.
“Il commercio, come la religione, è una cosa di cui tutti parlano, ma che pochi capiscono: il concetto stesso è ambiguo, e nella sua comune accezione, non precisato in modo adeguato.” Daniel Defoe, A Plan of the English Commerce (1728).
L’accordo economico e commerciale globale UE-Canada (CETA), come altri mega-trattati che incombono, è uno strumento generale per ampliare la portata degli investimenti transnazionali, riducendo la funzione tipica dei governi nazionali di legiferare nell’interesse pubblico.
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Conflitto Nucleare: inganno o minaccia reale?
di Federico Pieraccini
Gli eventi in Medio Oriente, in Siria e ad Aleppo sono al centro dell’attenzione globale. Raramente una battaglia è stata così decisiva per l’esito di una guerra e per il destino di centinaia di milioni di persone sparse per il mondo
Nell’ultimo dibattito presidenziale Hillary Clinton ha invocato ripetutamente la creazione di una No Fly Zone (NFZ) in Siria. Il concetto, ribadito più volte, si scontra con le rivelazione contenute nelle email private dell’ex segretario di Stato, secondo cui tale impegno comporterebbe un’elevate quantità di morti tra i civili Siriani. Non solo. In una recente audizione presso la commissione del Senato sulle forze armate è stato chiesto al generale Breedlove quale sforzo occorrerebbe alle forze armate USA per imporre una NFZ sui cieli Siriani. Con evidente imbarazzo il Generale è stato costretto ad ammettere che tale richiesta implicherebbe di colpire aerei e mezzi Russi e Siriani, aprendo le porte ad un confronto diretto tra Mosca e Washington. Una decisione ben al di fuori delle competenza del generale. I vertici militari, da sempre favorevoli ad interventi bellici, fiutano il pericolo di un conflitto con Mosca.
Il Cremlino ha pubblicamente ammesso di aver schierato in Siria sistemi avanzati antiaerei e antimissilistici S-400 ed S-300V4. La presenza annunciata del complesso difensivo ha scopi di deterrenza, ed è una strategia più che prevedibile. Il messaggio per Washington è evidente: ogni oggetto non identificato sui cieli Siriani verrà abbattuto . Gli Stati Uniti basano molta della loro forza militare sulla costante necessità di proiettare potere, illudendo l’avversario di possedere capacità che altri non detengono. E' molto improbabile quindi che il Pentagono decida di mostrare al mondo quanto valgano davvero i suoi sistemi stealth e i ‘ leggendari’ missili cruise americani, in un confronto diretto con S-300V4 o S-400. Ancora oggi in Serbia si ricordano del F-117 abbattuto con sistemi sovietici (S-125) risalenti agli anni 60'.
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Si può davvero scegliere tra Galilei e Bellarmino?
di Enrico Galavotti
La diatriba tra lo scienziato Galilei e il cardinale Bellarmino era sin dall’inizio impostata male. Basteranno alcune considerazioni per convincersene.
Che la Bibbia non potesse dir nulla sulla verità razionale degli esperimenti scientifici, laboratoriali, di Galilei, appare oggi pacifico. Solo una concezione integralistica della fede religiosa, che fa della teologia un’imposizione politico-istituzionale, cui un’intera società deve attenersi, poteva sostenere il primato “scientifico” della Bibbia su discipline come la matematica, la fisica e l’astronomia.
Una diatriba del genere non avrebbe mai potuto esserci là dove la Chiesa non pretende di avere un ruolo politico. Senza un tale ruolo, infatti, non si ha neppure la pretesa di egemonizzare la cultura e la scienza. Sotto questo aspetto Galilei avrebbe potuto avere seri problemi anche se avesse avuto a che fare non con la Chiesa romana, profondamente controriformistica, ma semplicemente con uno Stato confessionale (cattolico o protestante che fosse), ivi incluso quello ideologico e ateistico del regime staliniano.
Idee scientifiche così innovative come le sue e, per molti aspetti, chiaramente favorevoli a una visione laica della vita, potevano trovare, a quel tempo, ampi consensi solo se la borghesia si poneva il compito di difenderle. Cosa niente affatto scontata. Copernico, ad es., diede alle stampe le sue analisi rivoluzionarie solo poco prima di morire.
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Ventotene, l’Europa e il postmoderno
di Giovanna Cracco
Nell’epoca postmoderna le grandi narrazioni universali finalistiche e collettive che avevano legittimato il legame sociale non sono più credibili perché hanno tradito le promesse
Imprescindibile Lyotard, quando si parla di postmodernismo. Ne sono state date definizioni plurime, ma al filosofo francese si risale per la prima: “Semplificando al massimo, possiamo considerare ‘postmoderna’ l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni”, scrive nel 1979 ne La condizione postmoderna. Un’epoca che per Lyotard coincide con il capitalismo avanzato e l’“informatizzazione della società”, cambiamenti tecnologici che incidendo fortemente sul processo di ricerca e di trasmissione delle conoscenze, generano la trasformazione del Sapere in merce; già l’èra industriale ne aveva fatto forza produttiva, questo è un passaggio ulteriore. “Il sapere viene e verrà prodotto per essere venduto, e viene e verrà consumato per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i casi, per esse-re scambiato. Cessa di essere fine a se stesso, perde il proprio ‘valore d’uso’.” (1)
In questa fase storica, le grandi narrazioni universali, finalistiche e collettive che nella precedente epoca moderna avevano legittimato il legame sociale – illuminismo, idealismo e marxismo, ma anche il positivismo scientifico che si è accompagnato al capitalismo, esaltando la tecnologia come motore dello sviluppo economico e del benessere delle società – non sono più credibili, perché hanno tradito le promesse, e l’agire dell’Uomo non appare più quel processo di emancipazione verso una civiltà globale sempre più avanzata, libera ed egualitaria.
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La crisi del lavoro oggi
Sviluppo tecnologico, instabilità dell'occupazione e crisi del capitalismo
di Maurilio Lima Botelho
Quest'articolo di Maurilio Lima Botelho cerca di affrontare il tema della crisi del lavoro, discutendone le sue tre dimensioni: il ruolo dello sviluppo tecnologico nell'eliminazione di posti di lavoro; la costante trasformazione nei processi produttivi, che crea instabilità nell'occupazione; e l'improduttività progressiva della forza lavoro globale. Queste riflessioni sono la base per una più ampia discussione sulla crisi della società del lavoro, vale a dire, la contraddizione strutturale, con cui oggi ci confrontiamo, di una società in cui il lavoro è il meccanismo alla base della socializzazione, ma che allo stesso tempo mobilità tutti i mezzi per eliminarlo
È da più di un decennio che, in Brasile, la discussione a proposito della "crisi della società del lavoro" è stata relegata nello sgabuzzino della teoria sociale. La profonda critica rivolta al ruolo centrale occupato dal lavoro, sia nella filosofia e nella scienza borghese (liberalismo, protestantesimo ed economia politica) che nella teoria socialista (marxismo), è stata scartata come errore di interpretazione. L'idea della crisi del lavoro sarebbe un'impossibilità oggettiva, dal momento che il lavoro sarebbe la relazione eterna dell'uomo con la natura. L'ontologia è servita da base inconfutabile per la rinuncia ad una critica radicale della società borghese. Ma tale rifiuto non si limita al piano teorico, poiché le difficoltà di un mercato del lavoro sempre più ristretto e selettivo vengono tacciate di essere solamente una falsa percezione: l'instabilità del mercato del lavoro sarebbe una costante nella storia capitalista. In questo modo, le singolarità stesse della nostra epoca hanno cominciato ad essere ignorate.
Si arriva adesso alla base storica di questo rifiuto: gli anni dello "spettacolo della crescita" sono serviti da illusione per coloro che ancora confidano nel "paese del futuro" e nello "sviluppo nazionale" - perfino intellettuali critici dell'economia di mercato si sono arresi alle fantasie del breve ciclo di ascesa fittizia, credendo che gli indici manipolati del mercato del lavoro abbiano liquidato questo dibattito.
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Tempo guadagnato, di Wolfgang Streeck
di Militant
Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, 25 euro
Con tre anni di ritardo rispetto alla sua pubblicazione, ci troviamo a segnalare un interessante testo di Wolfgang Streeck capitatoci per le mani. Come si legge nell’introduzione, “Tempo guadagnato” è la versione ampliata delle lezioni su Adorno tenute dall’autore nel giugno del 2012 presso l’Istituto di ricerche sociali di Francoforte. Il libro ha il merito di mettere a tema, anche se da un punto di vista non rigidamente marxista, la questione del rapporto tra capitalismo e democrazia alla luce della rivoluzione neoliberista e le trasformazioni dello Stato che ne sono conseguite. La tesi iniziale da cui l’autore muove, e che ci sentiamo di condividere, è che sia possibile comprendere la crisi in cui si dibatte il capitalismo del XXI secolo solo se la si interpreta come il culmine provvisorio di un processo più ampio, un processo che ha avuto inizio alla fine degli anni 60 del Novecento con la fine dei cosiddetti Trente Glorieuses. Prima di aggredire il tema cardine del suo lavoro Streeck fa però i conti con i limiti mostrati dalla “teoria della crisi” elaborata dalla cosiddetta “Scuola di Francoforte” sottolineandone soprattutto l’incapacità di prevedere la finanziarizzazione. Le ragioni di tale incapacità analitica, stando all’autore, sono da ricercare nel modo con cui anche a sinistra venne di fatto accettata l’autodescrizione che l’economia capitalista dava di sé come di un sistema capace di realizzare una crescita stabile e superare definitivamente le sue criticità interne. Nelle teorie di quegli anni le contraddizioni del modo di produzione capitalistico vennero così progressivamente relegate a residuo ideologico di un certo marxismo ortodosso.
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Ottava bolgia infernale
Su Ciampi
di Gianfranco Pala
Ottavo cerchio dell’inferno dantesco
In fondo a destra, questo è il cammino,
e poi dritto fino al mattino.
Poi la strada non la trovi da te,
sprofonda all’inferno, che però non c’è.
Solo un <buzzurro> {*} come Salvini che nella sua ignoranza non sa nemmeno l’italiano, giacché “traditore” è chi consegna libri e pensieri ai loro avversarî e il fellone che ha commesso tradimento nei confronti della patria; della causa,o dei compari di una lotta merita una dura punizione, fino alla morte, o per dirla con la severità di Dante “se le mie parole esser dien seme, che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo”. Ma i libri o i pensieri di Carlo Azeglio Ciampi per chi e di chi erano? Certamente non per proletari e comunisti, ma per banchieri e capitalisti internazionali, cui semmai gli italiani si fossero omologati. E parimenti ciò è vero altresì per il silente <convitato-di-pietra> Giorgio Napolitano, che qui non dovrebbe entrare direttamente in gioco (ma che, come si dirà, <tomo tomo, cacchio cacchio> si è dedicato e plasmato sugli stessi padroni e opposto ai medesimi nemici). Quindi è palese l’ipocrisia del legaiolo – con il suo <cesso di anima>, per dirla come il diavolo di Altàn – di manifestare “preghiera e cordoglio” per la non prematura morte di Ciampi; lo storico e politico analfabetismo del disumano guitto <ruspista> lombardo ne delinea le magnifiche sorti, e regressive. Ossia definire Ciampi “uno dei traditori dell’Italia e degli italiani, come Napolitano, Prodi e Monti” non sono “parole choc, a caldo”, di Matteo Salvini sulla morte del presidente emerito della repubblica, il quale a dire del legaiolo “si porta sulla coscienza il disastro di 50 milioni di italiani, e come per Napolitano è uno da processare come traditore”.
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Il regime europeo del salario 3
Germania: sostenere la precarizzazione, esigere lo sfruttamento
di Lavoro Insubordinato
Vedi anche Il regime europeo del salario #1, Regno Unito e #2, Francia
Guardando agli ultimi teatrali battibecchi tra i leader europei, sembrerebbe che vi sia nell’UE una divergenza di vedute sulle politiche migratorie. Le lunghe e vivaci discussioni al vertice di Bratislava parrebbero tradire la fine della coesione tra Italia, Germania e Francia, mentre a Est si forma un blocco a 4 che minaccia di dare un volto ancora più destro all’Unione, specie in fatto di migranti. A ben vedere, al di là delle tensioni, una tale sintonia tra i governi in tema di comando del lavoro e di governo della mobilità non si era mai vista. Il tanto osannato modello tedesco, avviatosi con l’agenda Schröder 2010 e le leggi Hartz – non a caso fondate sullo stesso principio del «sostenere ed esigere» («Fordern und Fördern») che ora Merkel sbandiera come principio cardine del governo delle migrazioni – è realmente esemplare in termini di impoverimento del lavoro e tagli al welfare. Un modello esaltato perché avrebbe portato la Germania al tasso di occupazione maggiore degli ultimi anni. Eppure, ciò che non si dice è che questo calo della disoccupazione ha significato un abbattimento dei salari e un incremento esponenziale di lavoro precario. In Germania, come in ogni Stato europeo, la lotta alla disoccupazione nasconde la logica secondo cui il lavoro è un privilegio da accettare a qualsiasi condizione. Imponendosi come espressione di politiche di respiro quanto meno europeo, questo modello detta la linea, fornendo la ricetta perfetta per un regime del salario fatto di compressione e precarizzazione dei resti di welfare, sfruttamento dei migranti extraeuropei e degradazione dello status dei migranti interni.
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Paura della paura
Su questo blog ci siamo occupati spesso della paura come strumento di governo. In Come si fabbrica un terrorista abbiamo documentato come l'intelligence interna americana organizzi e finanzi finti attacchi terroristici commissionandoli a disadattati che si vanterà in seguito di avere arrestato. In Dovete parlare di guerra civile abbiamo abbozzato una grammatica della paura decostruendo un'intervista di Enrico Letta, mentre in #facciamocome Israele si è osservato come l'esempio dello stato di Israele - il più colpito dal terrorismo tra le nazioni economicamente avanzate - sia paradossalmente indicato come un antidoto al terrorismo alludendo direttamente alla necessità di vivere nella paura dell'altro e di riconoscere poteri sempre più ampi alla sorveglianza di Stato.
Sullo stesso tema ci siamo recentemente imbattuti in una copertina di fine luglio del settimanale Sette. Qui campeggiano il mezzobusto del DJ parigino David Guetta in tuta mimetica e un titolo a caratteri cubitali gialli: "Ma io non ho paura". Più sotto: "Il terrore è parte della nostra vita, è come se non fossimo liberi di essere felici ecc.".
C'è evidentemente un problema: se il terrore è un "sentimento di forte sgomento, di intensa paura" (Garzanti), come può il suo essere "parte della nostra vita" conciliarsi con il fatto di non avere paura? Non può, appunto.
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Stiglitz tra "riforme" e "le riform€": un problemino di democrazia, no?
Quarantotto
1. Fingiamo per un attimo che Stiglitz non sia parte di un establishment USA, storicamente connotato dal nuovo modo di essere "democrat" (e cioè liberal, ben radicato nella upper middle class); e fingiamo pure, per un attimo che Stiglitz non sia il terminale spendibile, - in un'€uropa sempre più squassata dal dramma della disoccupazione e della dottrina ordoliberista al potere-, di un blocco di potere che, pur annoverando tra le sue fila, per l'appunto, persone di oggettivo valore, non riesce a produrre altro che Hillary Clinton come sua punta di diamante politica e la prospettiva, sempre più concreta, di una guerra globale nucleare.
Forti (...) di questa "ipotesi" di laboratorio, andiamo dunque a esaminare senza pregiudizi (determinati dal contesto che abbiamo scartato), le interessantissime risposte date da Stiglitz a questa intervista (disponibile fortunatamente in italiano): Referendum, Stiglitz: "Se Renzi perde parte fuga dall'euro".
2. Esaminiamo la prima risposta del Nobel per l'economia, che segue ad una domanda circa la pericolosità (addirittura!) del suo ultimo libro, per aver "fornito munizioni a tutti i populismi", ripiombando l'€uropa nella sue "paure" (cioè la domanda tendeva ad affermare che senza l'euro gli europei non sarebbero capaci di mantenere rapporti civili e cooperativi nei reciproci confronti!!!):
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Nuove confessioni di un sicario dell'economia
...Questa volta disponibili per la vostra democrazia
Sarah van Gelder intervista John Perkins
Dodici anni fa, John Perkins ha pubblicato il suo libro “Confessions of an Economic Hit Man” (n.d.T. Confessioni di un sicario dell’economia). Oggi dice che “le cose sono di gran lunga peggiorate.”
Dodici anni fa, John Perkins ha pubblicato il suo libro, Confessioni di un sicario dell’economia, che ha scalato rapidamente la lista dei best-seller del New York Times. In esso Perkins descrive la sua carriera basata sul convincere i capi di Stato ad adottare politiche economiche che hanno impoverito i loro Paesi e minato le istituzioni democratiche. Queste politiche hanno contribuito ad arricchire piccoli gruppi di élite locali, nel mentre imbottivano le tasche delle multinazionali a base americana.
Perkins è stato reclutato, dice, dalla National Security Agency (NSA), ma ha lavorato per una società di consulenza privata. Il suo lavoro come economista strapagato senza un addestramento adeguato è stato quello di generare report che hanno giustificato lucrosi contratti per le aziende statunitensi, nel mentre le nazioni più vulnerabili venivano immerse nel debito. I Paesi che non hanno collaborato hanno visto le viti serrate sulle loro economie. In Cile, ad esempio, il presidente Richard Nixon ha notoriamente invitato la CIA a “far urlare l’economia” per minare le prospettive del presidente democraticamente eletto, Salvador Allende.
Se la pressione economica e le minacce non hanno funzionato, Perkins dice, gli sciacalli sono stati chiamati sia a rovesciare che ad assassinare i capi di Stato non conformi. Questo è, infatti, quello che è successo a Allende, con l’appoggio della CIA.
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Introduzione a Sindacalismo sociale. Lotte e invenzioni istituzionali nella crisi europea (DeriveApprodi, 2016)
di Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi
Il libro che avete tra le mani è una raccolta di interventi con a tema la nuova natura delle lotte sociali che si sono presentate sulla scena della più grande e devastante crisi economica e istituzionale degli ultimi decenni. Nonostante comincino ad essere numerose le iniziative editoriali sui movimenti contro le politiche di austerity, ciò che qui ci apprestiamo a presentareha una caratteristica piuttosto singolare: si tratta del tentativo di leggere come espressioni di una tendenza comune la variegata costellazione di pratiche sociali che in Europa e non solo hanno tentato di resistere allo smantellamento del Welfare State, alla compressione dei salari, all’aumento della precarizzazione del lavoro e dell’impoverimentosociale. Più precisamente, abbiamo provato ad intendere le pratiche di riappropriazione del reddito e di autogestione dei servizi, gli esperimenti di mutualismo così come le nuove forme di conflitti sul lavoro e per il salario, come indicatori di un nuovo fenomeno sindacale. Con l’utilizzo della definizione di“sindacalismo sociale” si è dunque puntata l’attenzione su quanto questi conflitti, apparentemente scollegati, stessero riproponendo ed al contempo radicalmente riconfigurando, gli assi fondamentali che hanno caratterizzato l’esperienza storica del sindacalismo: le forme organizzative della forza lavoro, la pratiche negoziali e i conflitti sulla distribuzione del reddito e della ricchezza.
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La verità sul referendum
di Raniero La Valle
Discorso tenuto dal professore Raniero La Valle a Messina e Siracusa il 16 e il 17 settembre scorsi. Lo riteniamo utile per una riflessione approfondita in vista del referendum sulla cosiddetta “Riforma Costituzionale”
Cari amici, poiché ho 85 anni devo dirvi come sono andate le cose. Non sarebbe necessario essere qui per dirvi come sono andate le cose, se noi ci trovassimo in una situazione normale. Ma se guardiamo quello che accade intorno a noi, vediamo che la situazione non è affatto normale. Che cosa infatti sta succedendo? Succede che undici persone al giorno muoiono annegate o asfissiate nelle stive dei barconi nel Mediterraneo, davanti alle meravigliose coste di Lampedusa, di Pozzallo o di Siracusa dove noi facciamo bagni e pesca subacquea.
Sessantadue milioni di profughi, di scartati, di perseguitati sono fuggiaschi, gettati nel mondo alla ricerca di una nuova vita, che molti non troveranno. Qualcuno dice che nel 2050 i trasmigranti saranno 250 milioni. E l’Italia che fa? Sfoltisce il Senato. E’ in corso una terza guerra mondiale non dichiarata, ma che fa vittime in tutto il mondo. Aleppo è rasa al suolo, la Siria è dilaniata, l’Iraq è distrutto, l’Afganistan devastato, i palestinesi sono prigionieri da cinquant’anni nella loro terra, Gaza è assediata, la Libia è in guerra, in Africa, in Medio Oriente e anche in Europa si tagliano teste e si allestiscono stragi in nome di Dio. E l’Italia che fa? Toglie lo stipendio ai senatori. Fallisce il G20 ad Hangzhou in Cina.
I grandi della terra, che accumulano armi di distruzione di massa e si combattono nei mercati in tutto il mondo, non sanno che pesci pigliare e il vertice fallisce. Non sanno che fare per i profughi, non sanno che fare per le guerre, non sanno che fare per evitare la catastrofe ambientale, non sanno che fare per promuovere un’economia che tenga in vita sette miliardi e mezzo di abitanti della terra, e l’unica cosa che decidono è di disarmare la politica e di armare i mercati, di abbattere le residue restrizioni del commercio e delle speculazioni finanziarie, di legittimare la repressione politica e la reazione anticurda di Erdogan in Turchia e di commiserare la Merkel che ha perso le elezioni amministrative in Germania.
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Marx, la crisi, il debito
di Marco Trasciani
Cosa può ancora dire il pensiero di Marx sulla crisi che attanaglia il mondo contemporaneo, una crisi che tende sempre di più a porsi come strumento di governo capace di neutralizzare l’insorgere di alternative al modo di vita che il capitalismo contemporaneo impone al pianeta?
Nell’opera di Marx sono legate all’ insorgere della crisi, alla necessità politica di cogliere le opportunità che essa offre, le accelerazioni della attività teorica, così come la sua concettualizzazione è elemento essenziale della costruzione teorica.
Già negli anni che precedono lo studio intensivo dell’economia politica e della storia economica, cioè gli straordinariamente prolifici anni ’50 dell’esilio londinese, Marx è giunto alla conclusione del carattere strutturale delle ricorrenti crisi capitalistiche, dell’inevitabile sbocco che esse produrranno (Manifesto del partito comunista).
Successivamente, ripresi gli studi economici, affermerà che la crisi commerciale del 1847 è stata la vera madre delle rivoluzioni di febbraio e marzo.
Poi, mentre è impegnato nella stesura della prima bozza del Capitale, auspica ed assiste all’esplodere di una crisi, 1857, che è economica e finanziaria allo stesso tempo. La sua attività si fa febbrile.
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Ecco come gli Usa hanno armato il Jihad in Siria
Alastair Crooke*
L'Occidente punta il dito contro la Russia per il massacro siriano ma le Forze Speciali Statunitensi sanno che le confusionarie politiche degli USA, tese a sostenere i jihadisti, hanno consentito ad Al Qaeda e all'ISIS di distruggere la Siria, spiega l'ex diplomatico britannico
“Sul campo, nessuno crede in questa missione”, scrive un ex Berretto Verde a proposito dei programmi segreti di addestramento e armamento dei ribelli siriani, “sanno che stiamo addestrando la prossima generazione di jihadisti, quindi la boicottano perché se ne fregano’”. “Non voglio sentirmi responsabile quando dei membri di al Nusra diranno che sono stati addestrati dagli americani” aggiunge il Berretto Verde.
In un rapporto dettagliato dal nome Le Forze Speciali statunitensi sabotano le fallimentari Operazioni sotto copertura in Siria, Jack Murphy, anch’egli ex Berretto Verde, racconta che un ex ufficiale CIA gli avrebbe rivelato che “il programma di operazioni segrete in Siria è una creatura del Direttore della CIA John Brennan… È stato Brennan a dare vita alla Syrian Task Force … John Brennan si era innamorato della folle idea di rovesciare il regime.” In sostanza, Murphy sostiene che le Forze Speciali Statunitensi, che stanno armando i gruppi anti-ISIS, rispondevano a un’autorità Presidenziale, mentre la CIA, ossessionata dal pensiero di destituire il Presidente Assad, rispondeva a un’autorità separata e conduceva un programma distinto e parallelo per armare i ribelli.
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L'ultima guerra
di Piotr
1. È col cuore grave che sono costretto a prendere atto che dal giorno 6 ottobre 2016 una guerra tra la Russia e gli USA è possibile in ogni momento. Una guerra che può avere devastanti effetti anche per noi. Per quanto sia orrendo e penoso parlarne, bisogna farlo, perché i grandi media nascondono questa serissima eventualità. Non ne parlano perché vogliono continuare a farci pensare a una guerra mondiale come a un videogioco e perché vogliono continuare a convincerci che lo Zio Sam alla fine prevarrà, perché è il più forte e perché è nel giusto, qualsiasi cosa faccia.
Perché un'affermazione così brutale (o catastrofista, come mi vien detto)?
Bene, questo è lo svolgimento del dramma, in tre atti:
Atto 1. A margine dell'Assemblea Generale dell'ONU di qualche giorno fa, il segretario di Stato, John Kerry, si incontra con esponenti dei "ribelli" siriani, i quali sono preoccupati per come stanno andando le cose e soprattutto per il fatto che gli USA non abbiano mai attaccato militarmente Damasco. Kerry farfuglia le cose che potete leggere nell'articolo "Ad Aleppo si gioca il destino del mondo", che per il tema qui riguarda in sintesi suonano così:
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Foucault e il liberalismo
Riflessioni su Foucault
di Paolo Di Remigio
Riceviamo e pubblichiamo molto volentieri questo articolo su Foucault di Paolo Di Remigio. (M.B.)
La sinistra è stata colta di sorpresa dal neoliberalismo; anziché riconoscerlo come un programma criticabile, lo ha scambiato per una svolta storica già accaduta, a cui rassegnarsi, a cui anzi i suoi capi hanno prestato i propri servizi in modo da averne la piccola ricompensa. Il grande merito delle lezioni del 1978-79 di Michel Foucault al Collège de France1 è di avere colto la natura di programma del neoliberalismo, rintracciandone la doppia radice nell'ordo-liberalismo tedesco della scuola di Friburgo degli anni ’20 e nel successivo anarco-liberalismo americano della scuola di Chicago, e narrandone con grande accuratezza la storia. Chi leggesse il libro potrebbe riconoscere nelle vecchie idee ordo-liberali non solo i principi ispiratori dell'Unione Europea, ma la sua stessa retorica; l'espressione «economia sociale di mercato», infine scivolata nel trattato di Lisbona, è stata coniata là, in polemica con l'economia keynesiana; l'adorazione ordo-liberale della concorrenza si è insinuata nel trattato di Lisbona come definizione della natura fortemente competitiva dell’Unione Europea2; la stessa idea di reddito di cittadinanza che trasforma la disoccupazione in occupabilità dei lavoratori ha la sua genesi nella scuola di Friburgo. Dall'anarco-capitalismo americano è invece influenzato, più che il moralismo europeista della competitività, il capitalismo post-keynesiano in generale, che pretende di fare dell'individuo, qualunque sia la sua condizione, un imprenditore, e della sua attività, qualunque essa sia, un'impresa3.
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La democrazia in crisi: una retorica pericolosa
di Luca Nivarra
1. Si parla molto di “democrazia” (per lo più in relazione alla sua “crisi”), senza che, però, gli innumerevoli partecipanti a questo dibattito globale riescano a proporre un uso univoco e costante della parola. Certo, “democrazia” è un termine “grasso”, grasso come la prosa degli scrittori che non piacevano a Tomasi di Lampedusa, e questo di per sé agevola, o perfino, rende inevitabile, una certa ambiguità. Oggi, però, il fenomeno si presenta aggravato dalla circostanza che, in linea di massima, dovremmo avere un’idea di ciò che nominiamo quando parliamo di “democrazia”, dal momento che, qui, nel mitico “Occidente”, veniamo da una storia che, sia pure con vicende alterne, si protrae da più di un secolo all’insegna, appunto, della democrazia.
L’obiettivo del mio articolo non è certo quello di avanzare una nuova definizione di “democrazia”, e neppure quello di selezionare tutti i modi in cui oggi la parola viene usata (imprese entrambe impossibili o, comunque, al di fuori delle mie capacità): molto più semplicemente, vorrei andare a vedere cosa si nasconde dietro una (presunta) crisi che, ancora prima della cosa, è del nome, di cui si fa un uso che, semplificando al massimo, rimanda ad uno spazio concettuale vuoto (o, almeno, molto povero) una volta per eccesso di regole e difetto di contenuti, una volta per difetto di regole ed eccesso di contenuti.
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Guerres et Capital
Introduzione: Ai nostri nemici
di Éric Alliez e Maurizio Lazzarato
Presentiamo ai lettori e alle lettrici italiani/e un’anteprima del libro “Guerres et Capital” di Éric Alliez e Maurizio Lazzarato che uscirà in Francia per Edition Ámsterdam il prossimo 22 ottobre. Si tratta dell’introduzione al volume, intitolata Á nos ennemis, Ai nostri nemici. La traduzione italiana è a cura di Antonio Alia, Andrea Fumagalli, Davide Gallo Lassere e Cristina Morini. Il testo viene presentato in contemporanea anche sul sito Commonware.
Qui si può scaricare il pdf dell’Introduzione, in francese: guerres-et-capital introduction.
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1. Viviamo nel tempo della soggettivazione delle guerre civili. Non usciamo da un’epoca in cui il mercato, gli automatismi della governamentalità e della depoliticizzazione dell’economia del debito trionfano per rivivere l’epoca delle “concezioni del mondo”, ma per entrare nell’epoca della costruzione di nuove macchine da guerra.
2. Il capitalismo e il liberalismo portano le guerre al loro interno come le nuvole portano la tempesta.
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Conferenza stampa dei 5 Stelle con l'arcivescovo di Aleppo
di Fulvio Grimaldi
Un popolo eroico, con ormai solo 17 milioni di abitanti su 23, di cui non si sa quanti uccisi e circa 5 sradicati, in fuga, sparsi nel mondo, perlopiù alla mercè di schiavisti turchi e di negrieri europei, centinaia di migliaia di vittime tra civili e combattenti patrioti, una delle più antiche civiltà del mondo, quella che ha dato i natali al meglio di noi e poi ci ha restituito Aristotile ed Eschilo, un popolo sepolto sotto il vilipendio di una narrazione falsa e bugiarda da parte di mandanti e sicari, ieri ha potuto far sentire la sua voce in una sede istituzionale del più alto livello, nella casa deputata all’esercizio della sovranità del popolo. Per la prima volta. Grazie al Movimento Cinque Stelle, grazie al deputato Manlio Di Stefano, responsabile Esteri del Movimento.
Un popolo eroico, avanguardia del riscatto nazionale anticoloniale arabo, affermatosi come il più valido resistente nella tre guerre d’aggressione dell’elemento estraneo incistato dal neocolonialismo nel corpo della nazione araba, oggi in piedi, sanguinante, ma non piegato, dopo quasi sei anni in cui gli si è lanciato contro quanto di più criminale e orrendo l’Uccidente imperialista, con il suo presidio locale israeliano, abbia saputo concepire nei secoli delle sue scorribande genocide e predatrici: le più sofisticate tecnologie di morte insieme ai perenni strumenti della fame, delle malattie (sanzioni) e delle armate di lanzichenecchi.
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La conversazione necessaria
di Benedetto Vecchi
Il terrore dei silenzi durante una conversazione, l’angoscia che toglie il respiro quando viene rivolta una richiesta di attenzione dalla persona cara; o l’ansia che prende quando l’argomento del dialogo con amici, famigliari, amanti richiede impegno e concentrazione. Infine la paura della solitudine. Questa la cornice cesellata da Sherry Turkle nell’ultimo saggio La conversazione necessaria (Einaudi, traduzione di Luigi Giacone, pp. 447, € 26) dedicato al dialogo nell’era digitale. Un libro che rivela l’ostilità verso un mondo, quello contemporaneo, dove ogni aspetto della vita privata e sociale deve chinarsi alla algida tendenza a rendere tutto calcolabile e a una costante accelerazione della vita individuale e sociale. Ma che va letto, al tempo stesso, come un disincantato atto di amore, a volte dal sapore melenso ma mai antitecnologico, verso l’attitudine delle discipline umanistiche nel fornire strumenti per vivere in una realtà dove siamo Insieme ma soli, come titolava un altro saggio di Sherry Turkle pubblicato da Codice edizioni. In una successione seriosa di aspetti della vita sociale dove la conversazione ha un ruolo essenziale – la famiglia, il lavoro, l’amore, l’educazione, la politica –, l’autrice così affronta i mutamenti intervenuti nella conversazione: meglio, analizza il venir meno di questa attività quotidiana, sostituita da scambi di messaggi, post e incontri mediati dalla Rete.
Nell’affresco che emerge ci sono nuvole di parole e immagini che avvolgono i singoli, quasi a costituire un habitus che indirizza scelte e comportamenti individuali.
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Il vincolo estero è irrilevante, anzi fondamentale
Sergio Cesaratto
Questo è il primo post che fa seguito alla promessa del libro di approfondirne parti, discutere critiche e quant’altro. Intenderei cominciare con la vexata quaestio del vincolo estero discussa nella quarta lezione del libro. Lo faccio perché è politicamente oltre che economicamente centrale.
La questione è posta semplicemente: “E’ la piena sovranità monetaria, vale a dire il possesso di una banca centrale di emissione di una valuta non convertibile, condizione necessaria e sufficiente per l’implementazione di politiche di pieno impiego?”. Questa è la tesi in genere sostenuta dagli esponenti e sostenitori della Modern Monetary Theory (MMT).
La tesi opposta è quella che vede nell’insorgere di squilibri nei conti esteri l’ostacolo principale alla conduzione di politiche di piena occupazione, problema a fronte del quale la piena sovranità monetaria può solo limitatamente essere d’aiuto. Per vincolo estero si intende l’insorgere di squilibri commerciali (e in generale di partite correnti) prima che le politiche fiscali e monetarie abbiano condotto l’economia in piena occupazione. Un MMT, Philip Pilkington (2013), definisce questa tradizione “kaldoriana” dal nome del grande economista eterodosso Nicholas Kaldor (1908-1986). Questo secondo punto di vista è spesso ricondotto anche all’economista britannico Anthony Thirlwall.
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Quelli che "le riserve si vaporizzerebbero"...
di Alberto Bagnai
Contrordine compagni!
Dunque: finora dovevamo dire che "la liretta, l'Italietta, la carta straccia", e altre consimili scemenze. Sì, insomma, dovevamo, noi "de sinistra", esattamente come gli opinionisti degli organi di stampa del grande capitale, alimentare il mito di una Italia troppo piccola per resistere da sola alle grandi tendenze della globalizzazione. Dovevamo cioè presentare come processo oggettivo, e in quanto tale non gestibile né sindacabile politicamente, il fatto che il popolo italiano dovesse cedere la propria sovranità democratica a beneficio di interessi per definizione esteri (in quanto non nazionali: consultate un dizionario dei contrari).
Perché dovevamo fare, a sinistra, una simile operazione? Bò, questo resta uno dei grandi misteri della storia del nostro paese.
Sospetta è questa corrispondenza di amorosi sensi fra gli intellettuali di sinistra e gli opinionisti del capitale, come ho notato qualche giorno fa. Ed è anche sospetta questa incapacità di comprendere che lo spazio politico ha anche lui un suo horror vacui. Annichilire la sovranità del popolo non significa entrare in uno stato irenico ed edenico: significa solo creare un comodo spazio per la sovranità delle multinazionali, come i fatti stanno dimostrando (e se volete dettagli, vi suggerisco questo post del blog di Nuti, che forse qualcuno dovrebbe tradurre).
Ma per fortuna oggi, grazie alla sagace maieutica dello stesso Nuti e dei suoi coautori, ci siamo lasciati dietro le spalle questo retaggio di un passato subalterno, o, come io amo dire, autorazzista.
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Dalle periferie al Campidoglio, cresce l’opposizione sociale
di Militant
L’assemblea popolare di ieri pomeriggio in Campidoglio ha segnato un punto di svolta, per diversi motivi. Immaginata come “semplice” assemblea, ha travolto le aspettative di tutti e si è trasformata in una mobilitazione inaspettata. Più di 500 persone hanno occupato letteralmente la scalinata antistante l’entrata al Comune, un numero imprevisto e che infatti ci ha obbligato a trasformare l’assemblea in manifestazione pubblica. Il dato numerico è il più eclatante ma forse non il più rilevante. E’ la composizione sociale dei partecipanti che ha determinato un salto di qualità, anche questo ricercato ma per niente scontato in partenza. Non è stata un’assemblea di “compagni”, men che meno di militanti. E’ stata una mobilitazione dei lavoratori delle multiformi vertenze cittadine; degli abitanti delle periferie degradate; della miriade di comitati che lottano contro le devastazioni ambientali territoriali; del sindacalismo conflittuale; dei senza casa; dei migranti in lotta. E’ stata una mobilitazione di classe e di sinistra (le due cose, ultimamente, non vanno troppo d’accordo nel mondo), come non si vedeva da tempo immemore, perché non legata ad una specifica vertenza, ma rivendicativa un diritto sociale e politico alla partecipazione, alla mobilitazione anche contro una giunta a cui pure erano state fatte aperture di credito in funzione anti-Pd e anti-liberista. L’assemblea segna l’inizio di un processo potenzialmente decisivo: quello di riavvicinare le ragioni di classe a quelle della sinistra, mai come oggi distanti e incomunicanti.
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Decrescenti, ancora uno sforzo…!
di Anselm Jappe
Pubblichiamo, dopo la lunga pausa estiva, un articolo di Anselm Jappe indispensabile al dibattito decrescita-critica del valore. Dibattito che occuperà ancora le nostre pagine, e presto.
«Decrescenti ancora uno sforzo!», che ho tradotto qualche anno fa con la supervisione di Anselm Jappe e direttamente dalla lezione pubblicata in Francia nella seconda parte del libro Crédit à mort1, circolava in rete, fino ad oggi, in una versione priva di una consistente parte centrale.
La traduzione è già stata pubblicata in appendice al libro «Uscire dall’economia», Mimesis, 2014, curato dal nostro Massimo Maggini. [Riccardo Frola]
Il discorso della “decrescita” è una fra le rare proposte teoriche un poco innovative apparse negli ultimi decenni.
La parte del pubblico, ancora molto ristretta, che è attualmente sensibile a questa proposta, sta aumentando incontestabilmente. Questo successo segnala una presa di coscienza di fronte ad un’evidenza: lo sviluppo del capitalismo ci sta trascinando ormai verso una catastrofe ecologica, e non saranno certamente delle automobili meno inquinanti, o qualche filtro in più, a risolvere il problema. Si diffonde una sfiducia nei confronti dell’idea stessa che una crescita economica perpetua sia sempre e comunque desiderabile. Allo stesso tempo, l’insoddisfazione aumenta anche nei confronti di quelle critiche che rimproverano al capitalismo esclusivamente l’ingiusta distribuzione dei suoi frutti, o soltanto i suoi “eccessi”, come le guerre e le violazioni dei “diritti umani”. L’attenzione rivolta al concetto di decrescita, insomma, traduce l’opinione sempre più diffusa che sia l’intera direzione del viaggio intrapreso dalla nostra società ad essere, almeno da qualche decennio, errata e che ci si trovi ormai di fronte ad una “crisi di civilizzazione”, che coinvolge tutti i valori sociali, persino al livello della vita quotidiana (culto del consumo, della velocità, della tecnologia, etc.). Siamo entrati in una crisi che è economica, ecologica ed energetica allo stesso tempo.
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