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L’Italia produce una cura per Covid-19, ma finisce negli Stati Uniti

di Paolo Mauri

Si chiama Bamlanivimab, o LY-Cov555, ed è un anticorpo monoclonale scoperto dalla multinazionale americana Eli Lilly che riduce la carica virale di Sars-CoV-2, quindi ne abbatte i sintomi e conseguentemente il rischio di ricovero. La stessa cura che, per intenderci, ha permesso al presidente degli Stati Uniti Donald Trump di guarire da Covid-19 in relativamente poco tempo.

Gli Usa ne hanno acquistate 950mila dosi, seguiti dal Canada e, a quanto sappiamo, anche dalla Germania. Questa cura, però, avrebbe potuto essere somministrata anche a 10mila italiani, ma non è stato fatto. Perché? La multinazionale del farmaco statunitense produce LY-Cov555 anche in Italia, in uno stabilimento nei pressi di Latina, e ad ottobre, come ha scoperto un’inchiesta de Il Fatto Quotidiano, era stata data la possibilità al nostro Paese di sperimentare questi anticorpi un un trial clinico gratuito che avrebbe coinvolto 10mila persone, ma il tutto è rimasto lettera morta.

Diverse sono le motivazioni, alcune delle quali riguardano le tempistiche burocratiche di accettazione e commercializzazione dei nuovi farmaci in Europa, ed in Italia, che sono molto diverse rispetto a quelle negli Stati Uniti.

L’Ema, l’agenzia del farmaco europea, non ha ancora formalmente dato il via libera alla sperimentazione di questa cura, sebbene una direttiva del 2001 dia la possibilità alle singole nazioni dell’Ue di procedere autonomamente: strada seguita dalla Germania, come abbiamo detto, ma anche dall’Ungheria. L’Italia, che avrebbe avuto un canale preferenziale per la sperimentazione e commercializzazione invece attende. Il 29 ottobre, dopo che il New England Journal of Medecine (Nejm) pubblica uno studio che conferma l’efficacia di LY-Cov555, i vertici della multinazionale di Indianapolis e le massime cariche dell’Aifa, l’Agenzia Italiana del Farmaco, insieme a rappresentanti delle istituzioni come Gianni Rezza (del Ministero della Salute) ed altri esperti, nella fattispecie il direttore dell’Istituto Spallanzani di Roma Giuseppe Ippolito ed il professor Guido Silvestri della Emory University di Atlanta che ha fatto da tramite tra la società e le autorità italiane, si riuniscono per stabilire un piano d’azione che avrebbe previsto la sperimentazione del farmaco che ha dimostrato la capacità di ridurre l’ospedalizzazione dei malati tra il 72 ed il 90% dei casi.

L’offerta però viene dimenticata in un cassetto, e forse non solo per questioni burocratiche legate alle tempistiche di approvazione di un nuovo farmaco, che, è bene ricordarlo, è in fase 2 di sperimentazione; fase – non definitiva – da cui ha preso le mosse proprio il documento del Nejm per la propria valutazione scientifica.

Sembra infatti che l’Italia abbia già investito su una cura, che utilizza la stessa tipologia (gli anticorpi monoclonali), tutta italiana: il governo ha infatti stanziato 380 milioni di euro per un progetto guidato dalla fondazione Toscana Life Sciences, ente no profit di Siena, che in collaborazione con l’Istituto Spallanzani dovrebbe ottenere una cura similare considerata molto promettente in un arco di temporale che andava, allora, tra i quattro e i sei mesi, pertanto se si giungerà all’elaborazione di un farmaco, i primi risultati li vedremo tra oggi e febbraio del 2021.

La sperimentazione, infatti, deve ancora partire, e come ben sappiamo incontra tre fasi di test sull’uomo con tempistiche adeguate. Nel frattempo però, la Fda, la Food and Drug Administration, l’ente statunitense che sovrintende anche alla verifica e commercializzazione dei nuovi farmaci, autorizza LY-Cov555 quindi Eli Lilly non può più elargire dosi a titolo gratuito per essere sperimentate, e, per assurdo, in quel momento l’Italia esprime il proprio interessamento per il farmaco. Misteri della burocrazia.

Il negoziato con la multinazionale si tiene il 16 novembre, alla presenza del commissario Domenico Arcuri, del ministro della Salute Roberto Speranza, e del dirigente dell’Aifa Nicola Magrini. Sembra che si sia parlato di prezzo e dosi, ma il negoziato non procede ulteriormente. Aifa e Arcuri, alla richiesta di spiegazioni da parte del Fatto Quotidiano, si trincerano dietro la necessità di dover attendere il via libera da parte dell’Ema, ma questa decisione stride con quella presa da Berlino o da Budapest.

Non tutti però la pensano come l’ente nazionale del farmaco e Arcuri: Walter Ricciardi, che era presente alla riunione del mese scorso, sostiene che, se fosse stato per lui, avrebbe proceduto all’acquisto – pur sempre tardivo – mentre per il professor Massimo Clementi, del San Raffaele di Milano, siamo davanti a un paradosso. Il professore afferma infatti che “è importante trovare il miglior farmaco possibile, ma non possiamo scartare a priori una possibilità terapeutica che altrove salva le persone”.

Una scelta dettata dalla prudenza? Una scelta dettata dal bisogno di autosufficienza? Una mera questione di italica lentezza burocratica? O si potrebbe addirittura parlare di miopia? Forse si tratta di un insieme di tutto quanto: un farmaco al 100% italiano ci garantirebbe il controllo totale della sua produzione e distribuzione, con importanti ricadute non solo economiche legate ai brevetti, ma anche di capacità di stimolare la ricerca scientifica con investimenti statali. I farmaci, così come i vaccini, per il trattamento di Covid19 portano con sé delle importanti ricadute in ambito geopolitico: non si tratta solo di prestigio, ma anche di una vera e propria questione di sicurezza nazionale.

Una pandemia incontrollata, o controllabile solo con provvedimenti estremi come le chiusure forzate, rappresenta un duro colpo per tutto il tessuto economico e sociale di un Paese, pertanto avere una cura, non esclusivamente rappresentata da un vaccino, significa ridurre una malattia pericolosa ad un comune raffreddore, quindi limitare i danni economici che derivano dal blocco delle attività. Chi controlla, o chi mette per primo le mani su certi ritrovati, prima si risolleva dalla crisi, e prima può proporsi come attore attivo sul piano internazionale: non è infatti un caso che la prossima distribuzione del vaccino, in Italia, sia affidata alle Forze Armate che hanno già individuato l’hub nazionale di stoccaggio e smistamento nell’aeroporto militare di Pratica di Mare. Una filiera strategica, quindi, quella dei vaccini e delle cure, che è messa ai primissimi posti dell’agenda dei servizi di intelligence di tutto il mondo: proprio recentemente siamo venuti a sapere che durante il colossale attacco informatico che ha colpito le reti statunitensi private e statali, sono stati anche fatti tentativi di rubare documenti sulla ricerca del vaccino contro il coronavirus.

Al netto di queste considerazioni generali, risulta però difficile non meravigliarsi per la mancata occasione, lo scorso ottobre, di poter iniziare a sperimentare una cura che, altrove, è stata ritenuta efficace, con l’aggravante rappresentata dal fatto che eravamo in un periodo in cui si prospettavano imminenti nuove chiusure date dal peso sostenuto dal sistema sanitario nazionale, che magari avrebbe potuto essere sgravato proprio attraverso l’inizio della sperimentazione di una cura con anticorpi monoclonali, made in Italy o in Usa che fossero.

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