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“Per mezzo dell’inganno”: la doppiezza del Mossad e la complicità di Washington

di Rima Najjar*

Nonostante miliardi di aiuti militari, un supporto tecnologico all’avanguardia e un’incrollabile protezione diplomatica, gli Stati Uniti sono regolarmente sorvegliati dallo stesso alleato che sostengono. Attraverso il Mossad, Israele ricambia non con lealtà, ma con uno spionaggio stratificato, descritto dall’ex agente della CIA Andrew Bustamante come doni intrisi di programmi spia e una collaborazione intrisa di sfiducia. Per molti americani, questa imparità morale contrasta il legame intuitivo tra generosità e fedeltà.

In un segmento del programma radio podcast #224 di Julian Dorey, ormai virale, Bustamante racconta come il Mossad offrisse alla CIA dei “regali”, solitamente strumenti tecnologici o di rilevamento, sistematicamente dotati di programmi spia. L’aneddoto non è eccezionale; è emblematico. L’etica del Mossad, plasmata da una politica Sionista che privilegia il dominio sulla responsabilità, è impenitente: l’inganno sulla trasparenza, la sopravvivenza sulla solidarietà, gli interessi sulle alleanze. Il suo credo guida, “Con l’inganno, farai la guerra”, non è un vezzo retorico. È una dottrina tattica in cui la manipolazione è sacra, i confini etici sacrificabili e il tradimento strategico, persino dei benefattori, pienamente normalizzato.

Mentre la CIA si destreggia tra vincoli diplomatici e supervisione esecutiva, il Mossad opera con autonomia dottrinale. L’imparità è sia operativa che filosofica, e si ripercuote negativamente sui palestinesi attraverso l’elaborazione delle politiche, le regole di spionaggio e il linguaggio morale dell’alleanza.

L’imparità al centro dell’alleanza tra Stati Uniti e Israele, dove l’aiuto incondizionato incontra il tradimento strategico, non è un caso diplomatico. È strutturale. L’etica dell’inganno del Mossad, radicato nella Dottrina Sionista, offre un modello per un potere irresponsabile: la sorveglianza riformulata come partenariato, l’aggressione mascherata da prevenzione. E la politica statunitense non si limita a tollerare questo calcolo, ma lo amplifica.

Prendiamo il dibattito sul finanziamento dell’Iron Dome del 2021. Nonostante le prove che il sistema abbia protetto dal lancio di razzi da Gaza, i legislatori di entrambi gli schieramenti lo hanno inquadrato come un imperativo umanitario, slegato dalla realtà sul campo. La collaborazione tra spionaggio USA e Israele, che include strumenti di sorveglianza congiunti e banche dati biometriche, ha potenziato la polizia predittiva dello Shin Bet, segnalando i giovani palestinesi come minacce preventive basate sul sospetto algoritmico.

Le operazioni del Mossad che prendono di mira diplomatici statunitensi o violano le norme del controspionaggio vengono accolte con il silenzio, non per mancanza di prove, ma perché l’alleanza è sacrosanta. In questo schema, l’inganno viene valorizzato come brillantezza strategica. Il risultato: quadri politici che privilegiano l’impunità sui principi, l’alleanza sulla responsabilità e la cancellazione sulle prove.

L’arte di governare Sionista non limita l’inganno allo spionaggio. Lo codifica nell’architettura stessa della governance. A Gaza, la dottrina israeliana del “Falciare l’erba”, un eufemismo per i continui bombardamenti di massa, riformula l’annientamento dei civili come antiterrorismo. La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 2024, che ha stabilito l’illegalità dell’Occupazione israeliana di Gaza, Gerusalemme Est e Cisgiordania, ha incontrato un’intensificazione dell’espansione degli insediamenti e della violenza delle milizie dei coloni, soprattutto nell’Area C. Queste milizie, spesso armate e protette, sfrattano pastori palestinesi e comunità beduine con il pretesto di “zone di sicurezza”. La copertura diplomatica occidentale trasforma la Pulizia Etnica in un imperativo strategico.

Tale logica ha precedenti. La Dichiarazione Balfour del 1917 e l’Accordo di Ha’avara con la Germania Nazista esemplificano come le istituzioni Sioniste abbiano storicamente sfruttato il potere imperiale per consolidare il Dominio Coloniale. Oggi, questo schema persiste, questa volta attraverso gli Stati Uniti, consentendo l’impunità di Israele attraverso l’Apartheid normalizzato. L’esproprio di terreni, le restrizioni di movimento e la negazione della cittadinanza sono bollati come manovre difensive contro una popolazione resa sospetta intenzionalmente. In questa matrice, la sicurezza non è più protezione, è pretesto. La Realpolitik non è pragmatismo, è il lubrificante ideologico per un Progetto di Cancellazione.

L’impunità di Israele è protetta non solo dalla superiorità militare o dalla forza diplomatica, ma anche da una corazza narrativa. Ricodifica la trasgressione come necessità, il dominio come difesa. Questa impalcatura ideologica si basa pesantemente sulla memoria dell’Olocausto, sull’ansia esistenziale e sul linguaggio della minaccia perpetua. Israele, come professa al mondo, non si limita a difendersi, ma difende la “civiltà” dalla barbarie. In questo schema, attacchi preventivi, detenzioni a tempo indeterminato e guerra d’assedio vengono ribattezzati imperativi morali.

Si considerino gli omicidi extragiudiziali del Mossad, in Stati sovrani dal Libano alla Malesia. Raramente condannati, vengono inquadrati come genio tattico, immortalati a Hollywood e riconfezionati come innovazione eroica. La logica: la violenza israeliana è di una leggibilità unica, radicata nel trauma storico e nel peso della sopravvivenza ebraica. Nel frattempo, la Resistenza Palestinese, a prescindere dal suo allineamento con le norme anticoloniali internazionali, viene trattata come strutturalmente illegittima.

Ancora più insidiosamente, l’eccezionalismo Sionista strumentalizza il linguaggio della democrazia liberale per oscurare l’Apartheid. Israele si autoproclama “l’unica democrazia in Medio Oriente” imponendo al contempo un doppio regime giuridico: uno per i coloni ebrei, un altro per i palestinesi sotto Occupazione. Il discorso antisemita viene strumentalizzato per trasformare la critica alla politica israeliana in odio per il popolo ebraico. Non è casuale, è tattico. Riformula il Colonialismo di Insediamento come una crociata di civiltà, in cui la cancellazione dei nativi diventa una necessità sacra.

Nello spionaggio, questa logica rispecchia la strategia del Mossad: ingannare, distorcere, dominare, non in violazione dei codici morali, ma in loro nome. I “doni” dotati di programmi spia, l’infiltrazione istituzionale e la normalizzazione della doppia agenzia sono affermazioni strategiche di una missione sacra. La sovversione è santificata, l’inganno, un diritto di nascita.

La risposta degli Stati Uniti alle tattiche del Mossad non è plasmata dall’ignoranza, ma riflette un allineamento ideologico. La politica estera americana è guidata da convinzioni che inquadrano il potere come virtù. Attraverso l’eccezionalismo, gli Stati Uniti si considerano moralmente superiori e applicano selettivamente standard di responsabilità. L’egemonia liberale guida gli sforzi per rifare il mondo a sua immagine, promuovendo la democrazia e i mercati attraverso il predominio militare e diplomatico. Insieme all’impegno per il primato militare, queste ideologie filtrano quali azioni sono condannate e quali giustificate. Questo quadro rende politicamente proibita la critica ad alleati come Israele.

Questi paraocchi ideologici statunitensi trovano un parallelo nell’eccezionalismo Sionista, un sistema di credenze che inquadra Israele come l’unico avente diritto a legittimità morale e politica a prescindere dalle sue azioni. L’eccezionalismo Sionista presenta l’identità israeliana come singolarmente virtuosa o storicamente gravata, permettendo che la sua violenza venga razionalizzata mentre la Resistenza Palestinese viene patologizzata. Attraverso questa lente, le istituzioni, dai media al mondo accademico, interiorizzano e riproducono una gerarchia di legittimità che protegge la condotta israeliana da ogni controllo e presenta la sopravvivenza palestinese come sospetta:

 

Inquadramento mediatico

I notiziari occidentali sterilizzano sistematicamente la violenza israeliana. I bombardamenti aerei su Gaza diventano “scontri”, i Pogrom dei coloni si trasformano in “tensioni” e le infrastrutture dell’Apartheid vengono rietichettate come “misure di sicurezza”. Il bilancio delle vittime palestinesi viene inquadrato come collaterale, non strutturale. Quando il programma spia Pegasus si infiltra nei dispositivi dei giornalisti, la storia diventa un’anomalia tecnologica, non uno scandalo politico. Questa riformulazione immunizza Israele dalla condanna riservata ad altri regimi.

 

Controllo accademico

Nelle istituzioni d’élite, la Palestina è isolata in moduli di studi sui conflitti o di sicurezza, dove la strategia è in primo piano e l’etica oscurata. I finanziamenti filo-israeliani influenzano assunzioni, borse di studio e simposi, frenando la ricerca. Gli studiosi palestinesi affrontano barriere per i visti, censura e isolamento accademico. La stessa sovranità epistemica diventa sospetta. La regola tacita: solo alcune voci possono parlare di Occupazione.

 

Scudo diplomatico

Nonostante la crescente documentazione: rapporti ONU, indagini della Corte Penale Internazionale, testimonianze sui diritti umani, Israele si sottrae all’obbligo di rendere conto delle proprie azioni. I Veti statunitensi fungono da barriera. Gli accordi di spionaggio congiunto elevano il Mossad ad alleato strategico, anche in mezzo a un inganno palese. L’ironia è brutale: gli stessi strumenti del Diritto Internazionale e della diplomazia vengono trasformati in armi per preservare l’impunità Sionista.

La rete di complicità globale sopra descritta non si limita a giustificare l’imparità, ma la rende operativa. Lo spionaggio del Mossad diventa astuzia; l’Apartheid israeliano viene presentato come pragmatismo; la sopravvivenza palestinese viene trattata come una minaccia.

Mettere in discussione l’indulgenza statunitense non è una scelta editoriale, ma un imperativo geopolitico. Per contrastare l’impunità Sionista, dobbiamo smantellare le narrazioni che la sostengono. Ciò significa costruire sistemi in cui la testimonianza, la memoria e la Resistenza palestinesi siano trattate non come eccezionali, ma come autorevoli. Significa slegare la legittimità dalle alleanze militarizzate e ridefinire la sicurezza non come Dominio, ma come Dignità.

Questa è una resa dei conti morale. Richiede di spogliare lo spionaggio del suo fascino, di denunciare la complicità della diplomazia e di affrontare la macchina ideologica che favorisce il tradimento. Nel farlo, non ci limitiamo a nominare l’imparità, ma la rifiutiamo. Le contrapponiamo quadri di responsabilità, trasparenza e liberazione, riscrivendo il copione che per troppo tempo ha rappresentato il dominio come destino della Palestina. Quel copione è finito.


* Rima Najjar è un’attivista, ricercatrice e professoressa in pensione di letteratura inglese presso l’Università Al-Quds, nella Cisgiordania Occupata.

https://rimanajjar.medium.com/by-way-of-deception-mossads
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