Le mele del Kansas
di Ferruccio Gambino
Il capitalismo statunitense sta cercando di passare il conto della crisi corrente ai contemporanei meno fortunati e alle generazioni future. Il precedente più grave è la Grande depressione conseguente al crollo del 1929. Dopo le alterne vicende del primo quadrienno di presidenza di F. D. Roosevelt (1933-‘36), gli Stati Uniti riemersero soltanto nel 1938 grazie ai nuovi programmi di spesa militare; intanto, nel crogiolo della Grande depressione si era scoperto che le crisi possono essere attenuate con opportuni stimoli e che possono addirittura essere convertite in strumenti di conservazione dei rapporti tra le classi. Ma oggi tale conversione si presenta più ardua che in tutte le crisi degli ultimi 80 anni.
Indubbiamente, il partito informale e minoritario ma vigoroso che si opponeva alle riforme rooseveltiane – in particolare all’affermazione dei nuovi sindacati industriali e alla previdenza sociale – non si è mai dato per vinto. Dopo l’inizio della Guerra fredda l’ostilità padronale alla sindacalizzazione, i licenziamenti (illegali ma tollerati) dei militanti sindacali, le nuove leggi antisciopero dei singoli stati, il razzismo intaccavano l’assetto di garanzie del lavoro conquistate alla metà degli anni Trenta.
Il contraccolpo alla restaurazione viene con i movimenti degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, con le campagne contro la discriminazione razzista e per salari adeguati – ma anche per la fine della guerra del Vietnam. Dal 1973 riparte la reazione con lo shock petrolifero e poi, nel 1979, con il golpe ovattato della Federal Reserve che, aumentando drasticamente i tassi d’interesse, spegne l’inflazione e riduce i salari reali e l’occupazione. Sono gli anni in cui, con la forza dei movimenti oggettivi, il capitale industriale statunitense prova sempre più a emanciparsi da larga parte della “sua” classe operaia investendo all’estero. A questo nuovo assetto fin dagli anni Sessanta alludevano i corifei della scomparsa della classe operaia, i lancillotti della liquidazione dei salariati nei cosiddetti “settori maturi” (leggi: sindacalizzati) e gli scout degli investimenti in Asia e in America latina.
Domandiamoci: sarebbe stato possibile risparmiarsi la crisi corrente? Forse, ma solo mettendo a ferro e fuoco un paio di continenti. Sarebbe “bastato” che fosse in atto la corsa dei salari verso il basso in Asia e in America latina, ossia che il Dipartimento di stato non avesse “perduto” la Cina nel 1947-49, che gran parte delle lotte contro il colonialismo e il neocolonialismo fossero completamente fallite e che oggi gli investimenti all’estero potessero galleggiare su interi continenti di lavoratori senza diritti e in concorrenza endemica tra di loro.
L’euforia capitalistica scoppiata dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989 ha subìto una prima doccia fredda con la cosiddetta crisi asiatica del 1997, provocata principalmente dalle rivendicazioni e dalle lotte sociali in Corea del Sud, Indonesia, Tailandia. Poi i movimenti sorti attorno a Seattle e a Genova hanno addirittura anticipato le guerre disastrose in Iraq e in Afghanistan. Il disperato tentativo della Federal Reserve sotto Greenspan di abbattere il malcontento interno trasformando gli Usa in un paese di capitalisti immaginari, ma davvero indebitati, si è rivelato un misero espediente per guadagnare tempo e scaricare la crisi sulla presidenza subentrante nel 2008.
Il recente tentativo di salvataggio del sistema finanziario statunitense deve parecchio alla tragicomica emissione di un’enorme quantità di nuove banconote, il cosiddetto “credito puro”. La più grande nevicata di denaro mai fioccata sulle maggiori istituzioni finanziarie statunitensi e sui loro titoli tossici ha evitato, tra l’altro, il massiccio ricorso al contante per tutti gli scambi, come invece era avvenuto sùbito dopo il 9 luglio del 1932, quando chi era ancora solvente versava in banconote persino le rate del mutuo, dato che i creditori rifiutavano gli assegni.
Mentre nel 1932 la scala dei salvataggi era limitata “ai tempi insoliti ed esigenti”, nella crisi corrente la Federal Reserve ha fatto le cose in grande. Ha stampato cartamoneta per le maggiori banche (e per una compagnia di assicurazione) e ha lasciato naufragare molte banche minori (con l’aggiunta di una grossa, la Lehman). Salvate le grandi, le piccole si arrangino: adesso come all’inizio degli anni Trenta. Nel folklore della Grande depressione non poteva mancare la storia del modesto banchiere di una città del Kansas. Di buon mattino, costui si presentò rilassato di fronte a una fila di ansiosi creditori, addentando una mela e offrendo mele a tutti da un barile che fin dall’alba aveva prudentemente collocato davanti alla banca. Alla vista di un raro banchiere sicuro di sé, gran parte dei creditori ritrovarono la loro fiducia, disperdendosi senza reclamare i crediti.
Nell’attuale congiuntura, dov’è l’albero di mele? In Cina? Di stretta misura Washington ha evitato il panico finanziario nei grandi centri urbani con l’emissione di nuovo denaro, così rimettendo in sella un sistema finanziario che aveva appena morso la polvere. In breve, qual è il rischio corrente che deriva da tale operazione? Quello dell’eccesso di debito federale che potrebbe scassare la finanza pubblica. E’ un rischio dal quale non sono immuni altri governi nordatlantici. Ma quando si dice che “Washington” ha evitato il panico, a quali attori ci si riferisce? In effetti, la vera decisione di fornire un’enorme quantità di cartamoneta fresca d’inchiostro alle grandi finanziarie non è stata presa dagli organi costituzionalmente preposti, bensì da pochissimi individui, (nessuno dei quali eletto), e soltanto in séguito è stata avallata dagli eletti. La Costituzione degli Stati Uniti ha un bel dettare che “il Congresso ha il potere di battere moneta e di regolarne il valore”. Di fatto, al Tesoro e alla Federal Reserve (architettata nel 1913) una ristretta cerchia di esperti, scommettendo sulla ripresa entro il 2010, ha fatto assumere alla Federal Reserve “i contorni di un bazar mediorientale”, come ha scritto nel maggio del 2009 il maggiore quotidiano economico statunitense, peraltro senza chiedere scusa ai bazar. E se la ripresa non spunta, si profila all’orizzonte un’altra crisi. Il conto dovrebbero pagarlo i meno fortunati con un’inflazione predatoria e con un indebitamento lungo quanto qualche generazione.
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