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trad.marxiste

Il nemico interno: l’imperialismo USA in Siria

di Patrick Higgins

nollisordersalhadid“Tutti i complotti sono uniti tra loro;
come le onde che sembrano fuggirsi eppure si mescolano”
– Louis Antoine de Saint-Just

“… là dove non esiste il disordine, gli imperialisti lo creano…”
– C.L.R. James, I giacobini neri

Nel 1971, al culmine della spaventosa e omicida guerra statunitense al Vietnam, un gruppo di cineasti radicali argentini e italiani, conosciuti come Colectivo de Cine del Tercer Mundo, realizzarono un film dal titolo provocatorio: Palestine, Another Vietnam. Un titolo che dice molto in poche parole, una breve dichiarazione gravida di possibili significati. La principale suggestione del titolo – ovvero, che tanto il Vietnam quanto la Palestina fossero obiettivi di un’aggressione imperiale, così come di una resistenza ad essa – non sarebbe stata in alcun modo fuori luogo, o insolita, negli ambienti della sinistra globale del 1971. In effetti, i rivoluzionari palestinesi dell’epoca prestavano non poca attenzione al Vietnam, studiando sia le brutali tattiche militari utilizzate dall’imperialismo USA al fine di schiacciare un movimento rivoluzionario di popolo, sia la storica resistenza del popolo vietnamita. Quale lezione si poteva trarre da tutto ciò?

A questo proposito, nel 1973, allorquando la rivoluzione anti-coloniale vietnamita proclamava la vittoria sulla superiorità militare degli Stati Uniti, un gruppo di rivoluzionari palestinesi e intellettuali arabi convocava una tavola rotonda moderata da Haytham Ayyoubi, capo della Divisione studi militari dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP).

 “Gli Stati Uniti, col loro violento intervento contro la rivoluzione e il popolo vietnamiti, hanno tentato di porre una questione, e lo hanno fatto nella pratica”, così dichiarava Tahsin Bashir, allora Assistente del Segretario generale della Lega araba. Gli Stati Uniti volevano lasciare intendere che “la scienza e tecnologia moderne, ricorrendo a computer e pianificatori, erano in grado di sconfiggere gli umani”. In risposta a questa arrogante affermazione, Bashir sosteneva quella che, a suo modo di vedere, era la principale lezione scaturita dalla fallimentare guerra USA al Vietnam: “Il successo dell’esperienza vietnamita si basa su quello degli umani sulla tecnologia”. Dawud Talhami, della Divisione studi mondiali del Centro di ricerche dell’OLP, proclamava il Vietnam come “l’esperienza più ricca fornitaci dall’eredità rivoluzionaria moderna nell’affrontare le più diverse forme di oppressione”. Dopo tutto, si trattava di una società, quella del Vietnam, che gli USA avevano cercato di distruggere – esattamente come le forze del colonialismo britannico e il sionismo in Palestina, anche prima delle devastanti vicende del 1948, quando le milizie sioniste, attuando una pulizia etnica, avevano espulso circa 750.000 palestinesi, riducendo la società palestinese in brandelli. Nel caso del Vietnam, ci si trovava di fronte ad una società che era riuscita a liberarsi dalle forze della distruzione imperialista.

Non stupisce il fatto che nessuna copia di Palestine, Another Vietnam sia sopravvissuta in pellicola – un film dimenticato, al pari di molto altro risalente all’epoca della solidarietà antimperialista durante la quale era stato realizzato. Dopo la controrivoluzione globale degli anni Ottanta, sembrava, specialmente agli occhi degli intellettuali di sinistra o ex tali, che l’internazionalismo antimperialista dei tardi anni Sessanta e dei primi Settanta fosse ormai divenuto un relitto del passato. Inoltre, emergeva un certa forma di consenso circa la campagna militare USA in Vietnam, secondo la quale: si era trattato del prodotto di una crisi, una disavventura e un pantano nei quali i panificatori imperiali statunitensi erano incappati con estrema violenza, controintuitiva, per altro, riguardo agli interessi USA. Ma a passare in rassegna gli odierni obiettivi dell’imperialismo statunitense, in particolare nel mondo arabo, pur tenendo in conto tutte le differenze tra allora e oggi, la pratica USA consistente nel distruggere le società nella loro interezza, ciò che effettivamente tentarono di fare gli Stati Uniti in Vietnam, si direbbe operante a pieno regime. La Palestina, causa storicamente fondamentale per il mondo arabo, rimane in stato di occupazione. I paesi vicini, Iraq, Libia, Yemen e Siria sono stati frammentati e, in alcune parti, ridotti a brandelli. Si è fatta strada l’ipotesi secondo la quale ciascuno di questi paesi – ognuno oggetto della violenza militare su larga scala degli USA – costituisca una “Nakba”, o “catastrofe”, il termine utilizzato dagli arabi in riferimento alle vicende della Palestina del 1948, riassumibili in un tentativo di cancellazione della società palestinese nel suo complesso, tramite l’invasione militare sionista, seguita dalla pulizia etnica e dall’assassinio degli abitanti palestinesi, cui fece seguito la sostituzione ai nomi dei villaggi e alle infrastrutture fisiche palestinesi di quelli israeliani.

È la Siria, probabilmente, ad aver lasciato maggiormente interdetta e divisa la sinistra occidentale. Ed è dove ha avuto luogo la più recente e diretta occupazione militare USA. Il 31 ottobre del 2017, è stato riportato che il generale dell’esercito James B. Jarrard ha accidentalmente rivelato che il numero delle truppe statunitensi all’interno della Siria si aggira intorno alle 4.000 unità – numero di gran lunga superiore a 500, ovvero quello spacciato dal Pentagono. Queste divisioni circa la Siria rendono ancor più importante un’adeguata comprensione. Non possiamo opporci significativamente all’imperialismo USA in nessun luogo se scendiamo a compromesso, o lasciamo spazio anche alla minima conciliazione, col suo concretizzarsi in Siria. Dunque, in quale modo la distruzione della Siria collima con un modello storico più ampio? Come collochiamo la guerra alla Siria nel contesto della storia dell’imperialismo statunitense, del mondo arabo (compresa la Palestina), e delle relazioni tra i due? Solo ponendo tali questioni possiamo sviluppare i fondamenti teorici necessari a costruire il movimento, e le alleanze necessarie, al fine di sconfiggere la macchina bellica USA in Siria e altrove.

La nostra comprensione dell’imperialismo USA e del suo odierno funzionamento in luoghi come la Siria, per tanto, esige di attingere alla storia, nonché di essere riformulata così da rispondere agli interrogativi suscitati dalla congiuntura attuale. Ciò implica la necessità di considerare sia gli imperativi politici che i circuiti bellici di accumulazione del capitale, due aspetti che permangono intrecciati in profondità. Gli obiettivi politici della guerra e le reti di profitto, parte integrante di una crudele e barbara forza responsabile di miseria e collasso sociale in tutto il mondo, dovrebbero non solo indirizzarci verso una strategia politica, ma anche rammentarci perché ci opponiamo innanzitutto all’imperialismo statunitense, richiamando alla mente, per coloro tra noi che si trovano negli Stati Uniti, l’ancora attuale avvertimento lanciato da Karl Liebknecht agli esordi della Prima guerra mondiale: il nemico principale si trova nel proprio paese! Né dovremmo scordare l’altra sua sollecitazione: “Impara tutto, non dimenticare nulla!”.

 

Gli imperativi politici degli USA in Siria

Il 5 gennaio del 1957, Dwight D. Eisenhower, come presidente dell’impero USA in procinto di divenire sempre più assertivo sulla scia della Seconda guerra mondiale, faceva appello per una risoluzione del Congresso che lo autorizzasse, nelle parole di Salim Yaqub, “a garantire un crescente sostegno economico e militare, e persino la diretta protezione da parte USA, a ogni paese mediorientale pronto a riconoscere la minaccia rappresentata dal comunismo internazionale”. Un importante corollario di tale risoluzione, nota come “dottrina Eisenhower”, consisteva nel “contenere il nazionalismo arabo radicale del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, nonché gettare discredito sulla sua politica di ‘neutralità positiva’ riguardo alla Guerra fredda”, in base alla quale i paesi arabi hanno diritto ad intrattenere relazioni proficue con entrambi i blocchi”. In altre parole, la politica di Eisenhower mirava a sminuire l’indipendenza dei paesi arabi.

Nel momento in cui la linea proposta da Eisenhower divenne operativa come materia della politica USA, gli Stati Uniti svilupparono legami politici ed economici con entità regionali disposte a contribuire alla demolizione del panarabismo, specie nelle sue propaggini anticolonialiste e antimperialiste. La prima di queste entità, lo Stato di Israele, una colonia europea nel cuore del mondo arabo divenuta, per riprendere le parole dell’attivista palestinese Hatem AbuDayyeh, il “cane da guardia” degli Stati Uniti contro le popolazioni arabe della regione. La seconda entità, o meglio insieme di entità, era costituita dalle monarchie arabe sprezzanti nei confronti dei movimenti nazionalisti per via, fra tante altre ragioni, della tendenza al repubblicanesimo radicale di questi ultimi.

Nel 1962, nel corso della guerra in Yemen tra forze repubblicane e monarchiche, Israele e il Regno dell’Arabia Saudita si trovarono a collaborare con l’obiettivo di sconfiggere le prime. Nel 1967, gli Stati Uniti, ottenuta prova, durante la cosiddetta “Guerra dei sei giorni”, della potenziale utilità militare Israeliana nel menomare le capacità e l’influenza delle forze pro-indipendenza in una regione ricca di petrolio, consacravano il proprio ruolo di sovvenzionatori di Israele, con un incremento degli aiuti militari USA del 450 percento tra il 1967 e il 1968, ossia passando da 7 a 25 milioni di dollari. Nel corso del 1970, periodo della storia palestinese e giordana noto come “Settembre nero”, Stati Uniti e Israele intervenivano a sostegno di Re Hussein di Giordania al fine di schiacciare una rivoluzione guidata dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina. All’indomani della guerra in Giordania, nel corso della quale l’esercito del paese distrusse le istituzioni civiche e popolari costruite dalla Rivoluzione palestinese tra le macerie dei campi profughi, la CIA si spinse fino a iscrivere re Hussein direttamente sul proprio libro paga. Una vicenda che presagiva un ulteriore impulso al sostegno USA ad Israele, questa volta di proporzioni astronomiche: sino a 1,15 miliardi di dollari tra il 1971 e il 1973.

Rapporti destinati in seguito ad estendersi. Sebbene le alleanze tattiche degli Stati Uniti, in determinate congiunture, abbiano subito variazioni rispetto a tale schema, e nonostante la persistenza di rilevanti divergenze tattiche all’interno dell’impero USA circa la politica in Asia occidentale, questa tendenza strategica generale ha conservato la propria validità sino al momento presente, anche successivamente al collasso dell’Unione Sovietica. Al punto che i paesi oggi in fiamme (Iraq, Yemen, Libia e Siria) hanno in comune una storia di nazionalismo arabo e strutture statali repubblicane, in contrasto alle retrograde monarchie dell’area che mantengono una relativa stabilità, oltre a godere di relazioni amichevoli con gli Stati Uniti (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania e così via).

L’biettivo politico degli Stati Uniti nell’intrattenere tali rapporti regionali è stato, almeno in un senso, coerente con quello delle potenze francese e britannica nel momento in cui eressero i confini tra le società arabe nel 1916, sulla base dell’accordo Sykes-Picot. Secondo l’esposizione di Ali Kadri, l’imperialismo USA, storicamente, ha mirato “ad erigere di proposito barriere tra gli stati arabi”. Nella sua argomentazione, si tratta, dal punto di vista dell’imperialismo statunitense e del sionismo, di una strategia razionale, poiché la riduzione della sovranità economica degli stati arabi ha contribuito alla riduzione di quella politica, e viceversa. Dunque, se osserviamo la storia del mondo arabo nel corso del XX e XXI secolo, risulta chiaro che, nella misura in cui Stati Uniti e Israele hanno ottenuto vittorie militari sugli stati arabi in diverse guerre (1948 e 1967 prima, passando per il Libano nel 1982 e, ancora, più recentemente, 1991 e 2003 in Iraq), la capacità di questi ultimi nel gestire le proprie leve economiche (controllo dei capitali e del commercio, tassi di cambio e di interesse, per fare solo alcuni esempi) è rapidamente declinata. Simultaneamente, le vittorie militari di USA e Israele contro gli stati arabi hanno condotto alcuni di questi ultimi ad una serie di rese politiche, in particolare riguardo alla questione palestinese, dagli Accordi di Camp David nel 1979 a quelli di Oslo nel 1993.

L’idea panaraba che gli Stati Uniti hanno cercato di minare non può essere ridotta semplicemente all’ideale di un singolo (spesso articolato come socialista) stato arabo, esteso dal Nord Africa sino al Golfo, passando per il Levante. Ha invece anche prevalso come realtà viva, nel dominio pratico dell’organizzazione politica di base. Le capacità di molti partiti di sinistra e socialisti arabi – dai partiti comunisti alle diramazioni del Movimento nazionalista arabo, sino a organizzazioni e sindacati di massa associate ai partiti – sono sempre state rafforzate tramite la formazione di rapporti transnazionali.

L’idea panaraba è stata anche storicamente importante per le capacità militari del movimento rivoluzionario palestinese contro l’imperialismo e il sionismo. Secondo Sa’ad Sayel, generale di brigata della rivoluzione palestinese durante la terribile guerra del 1975-1990, storicamente il vantaggio strategico del movimento palestinese risiedeva nel suo essere arabo nel profondo. (Come ebbe a dire Mao nel 1965 ad una delegazione dell’OLP in Cina: “quando si discute di Israele, bisogna tenere sott’occhio la mappa dell’intero mondo arabo”). Sayel ha descritto i conflitti regionali in corso negli anni Ottanta, quello in Libano così come la guerra Iran-Iraq, come conflitti “secondari” che “distoglievano dal conflitto principale”, ovvero quello con Israele. In Libano, Israele tentò di “mantenere alta la tensione, al fine di prevenire il raggiungimento di un equilibrio strategico”. L’egemonia militare israeliana, e per estensione quella statunitense, quindi, poggiano sulla frammentazione delle società arabe, nonché sulla debolezza militare degli stati arabi.

Dunque, come si inserisce la Siria, stato arabo nazionalista con inscritto l’anti-sionismo nella propria costituzione, all’interno di questo quadro? Il rapporto tra la Repubblica Araba di Siria ed il movimento di liberazione palestinese è stato senza alcun dubbio segnato da dibattiti, rivalità politiche e persino da esplicita violenza, come nel caso dell’intervento militare contro l’OLP, in Libano, ordinato dal presidente siriano Hafez al-Assad nel 1976. I critici palestinesi del governo siriano hanno affermato che quest’ultimo appoggerà le organizzazioni palestinesi solo nella misura in cui potrà controllarle. È un’accusa frutto della lunga storia di pesanti sovrapposizioni tra politica siriana e palestinese. Vi sono state personalità palestinesi, la più notevole delle quali è forse quella di Ahmed Jibril del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – Comando Generale (FPLP-CG), che hanno professato supporto nei confronti della strategia di lotta anti-sionista proposta dal governo siriano. (Il Ba’th siriano ha anche la propria fazione all’interno dell’OLP, al Saiqa). Ad ogni modo, nessuna di queste tensioni, interne alla politica nazionalista araba, svolge un ruolo preminente nel modellare il punto di vista degli strateghi USA, in particolare dopo la seconda amministrazione Bush, riguardo al rapporto fra governo siriano e forze anti-israeliane. Agli occhi di un impero impegnato nella salvaguardia della sua risorsa militare sionista, la resistenza materiale contro il colonialismo israeliano appare, in qualsivoglia forma, inaccettabile.

Nel 2006 i vertici siriani mantenevano alcune delle loro promesse a siriani e palestinesi, offrendo sostegno militare e politico alla guerriglia di resistenza Hezbollah contro Israele. Per citare solo una fra le tante analisi della guerra da parte USA, quella fornita dal maggiore Anthony A. Kerch della Marine Corps Academy, nell’ambiente dei pianificatori militari circolava l’impressione secondo la quale “numerosi avversari imiteranno le tattiche di Hezbollah” e, fatto cruciale, “l’assistenza ricevuta da Hezbollah è provenuta da paesi coi quali gli Stati Uniti potrebbero, in un futuro prossimo, essere coinvolti in conflitti (Corea del Nord, Iran, Cina e Siria)”. Tutto ciò è rientrato nei “fattori che hanno contribuito al successo di Hezbollah e alle difficoltà di Israele sul campo di battaglia”. Un’analisi corroborata e risuonata nel cuore del cane da guardia degli Stati Uniti, Israele. In particolare, la “relazione conclusiva” della Commissione Winograd ha stabilito che nel 2006 “un’organizzazione semi-militare di poche centinaia di uomini [Hezbollah] ha resistito, per alcune settimane, all’esercito più forte del Medio Oriente, dotato non solo della piena superiorità aerea, ma anche del vantaggio numerico e tecnologico”.

In Siria, a partire dal 2011, gli Stati Uniti si sono serviti delle loro alleanze con Israele e le monarchie del Golfo, principalmente Arabia Saudita e Qatar, al fine di distruggere i legami esistenti tra la Repubblica Islamica dell’Iran e le organizzazioni della resistenza. Queste ultime non possono esser ridotte ad Hezbollah. Il fatto che, per esempio, le organizzazioni palestinesi di sinistra abbiano potuto tenere conferenze strategiche, alla luce del sole, a Damasco, prima dello scoppio della guerra, non è affatto insignificante, né per gli imperialisti USA né per gli antimperialisti, in una regione dove tali organizzazioni sono fuorilegge e costrette alla clandestinità, così da nascondersi e sfuggire alla sorveglianza delle monarchie assolute e dell’inesorabile occupante israeliano.

 

Il capitale USA e la Guerra alla Siria

Ritornando, al fine di contestualizzare, ai precedenti tentativi dell’impero statunitense di smembrare un’altra società nel sud-est asiatico: la guerra USA al Vietnam avrebbe rappresentato comunque un “errore” per i pianificatori statunitensi, se non avesse condotto ad una crisi di legittimità in patria? È un interrogativo che vale la pena prendere in considerazione. Certamente il ritiro degli Stati Uniti dal Vietnam derivò dall’incapacità di imporre la propria volontà politica al popolo vietnamita. Innegabilmente la loro campagna militare, basata sul fare terra bruciata, si trovò ad affrontare un dilemma di fondo irrisolvibile. Più risorse gli Stati Uniti riversavano nella guerra, più i vertici USA avvertivano la necessità di seguire tale corso, in modo che gli investimenti precedenti non risultassero vani. Allo stesso modo, più a lungo rimanevano e sostenevano le perdite militari, maggiori divenivano gli investimenti, prolungando e approfondendo la vergogna dell’inevitabile ritiro.

Le spese per la guerra al Vietnam assunsero proporzioni talmente colossali che il presidente Lyndon Johnson tentò, come sostenuto da Atif A. Kabursi e Salim Mansur, “di gestire la guerra tassando indirettamente gli alleati degli Stati Uniti, pressandoli ad accettare un flusso illimitato di dollari USA” [1]. Il suo successore, Richard Nixon, portò l’iniziativa un passo avanti, con l’abbandono del gold standard. Tuttavia, il concentrarsi su simili problemi dell’imperialismo USA, non risponde ad una questione incombente: perché gli Stati Uniti, lo stato-nazione guida del sistema capitalistico, esprimevano il proprio potere all’estero, come scritto da Gabriel Kolko, “rendendo una questione politica la messa a ferro e fuoco del Vietnam del Sud, prendendo di mira un’intera nazione?”.

Si tratta di una questione da affrontare con la consapevolezza che gli Stati Uniti, sebbene tramite mezzi assai differenti così come lo è il contesto globale, hanno di nuovo reso una questione politica mettere a ferro e fuoco intere nazioni in diversi stati arabi. Non è solo la Palestina ha rappresentare “un altro Vietnam”; ma, a questo punto, ci sentiamo di suggerire, anche la Siria. In quest’ultimo paese, e di fatto in tutti i paesi arabi presi di mira dagli Stati Uniti, non è solo la società ad essere ridotta a brandelli, bensì l’intera infrastruttura statale, ad essa inestricabilmente intrecciata. Appurato il ricorrere di questa politica, diviene necessario considerare anche a quale punto una tale distruzione sia intrinseca all’iniziativa imperialistica USA nel suo complesso: ovvero, finché gli Stati Uniti costituiscono un impero, ci saranno paesi più piccoli e deboli ridotti in macerie.

Per porre l’interrogativo in termini maggiormente concreti: quale settore del capitale USA trae beneficio dalla guerra alla Siria? Qualsiasi risposta implica un rigoroso esame dei mezzi coi quali gli Stati Uniti hanno condotto la guerra. L’impero, in alcune are della Siria, ha fatto ricorso ad attacchi aerei con armi chimiche. Ad esempio, “il portavoce del Comando Centrale USA (CENTCOM), maggiore Josh Jacques, ha riferito che 5.265 proiettili da 30 mm, contenenti uranio impoverito, sono stati sparati dagli A-10 dell’aeronautica il 16 e il 22 novembre 2015” in aree rurali della Siria orientale.

Ma la principale ragione della confusione generata dalla Siria presso gli analisti è il fatto che, prima della diretta occupazione, l’aggressione militare statunitense si è svolta prevalentemente per procura, ad opera della CIA o in subappalto ai servizi segreti sauditi e del Qatar. Si tratta di una tattica di guerra che vanta precedenti nell’arsenale dell’imperialismo USA; così, laddove la CIA, a suo tempo, si rivolgeva alla destra, nel caso siriano sono le bande ribelli anti-nazionaliste ad operare per suo conto sottobanco. Come documentato da Andrew Cockburn, i legami tra CIA e fondamentalisti settari, durante le attività coperte degli Stati Uniti in Afghanistan negli anni Ottanta, erano a tal punto consolidate che i finanziamenti congiunti con l’Arabia Saudita avrebbero stazionato negli uffici di reclutamento dei combattenti ribelli, a Brooklyn, Atlantic Avenue, tramite un’organizzazione nota come Maktab al-Khidamat.

In Siria ha avuto luogo una campagna analoga. Come riferito dalla stampa mainstream USA nel dicembre 2017, Conflict Armament Research (CAR) ha compilato un rapporto di 200 pagine nelle cui conclusioni si afferma che “gli Stati Uniti hanno ripetutamente stornato armi e munizioni di fabbricazione UE verso forze di opposizione siriane”. Di conseguenza, “le forze dell’IS hanno rapidamente ottenuto la custodia di significative quantità di questo materiale”. Si tratta di armi consegnate in abbondanza a gruppi assai poco raccomandabili, e ciò al di là dello Stato Islamico, da Jabhat al-Nusra a Nour al-Din al-Zenki.

La destinazione di tali armamenti non è mai stata un mistero, né per le branche dello stato USA coinvolte, né per alcune sezioni dei media statunitensi. In un comunicato della U.S. Defense Intelligence Agency, emesso nel 2012, si afferma chiaramente che “i salafiti [sic], i Fratelli musulmani e [al Qaeda in Iraq] sono le forze principali alla guida dell’insurrezione in Siria”. I media vicini all’establishment USA sono stati in molti casi espliciti circa la politica dei ribelli, e ciò sin dal 2012, come nel caso del dichiarato appoggio da parte di Foreign Policy ai combattenti ribelli siriani perché si trattava, parole testuali, di “islamisti”: “… sebbene la sollevazione islamista non sarà un picnic per il popolo siriano”, così si esprimeva la rivista, liquidando con noncuranza l’indicibile miseria e regressione sociale di un intera società, “presenta nondimeno… importanti lati positivi riguardo agli interessi USA”, come l’infliggere un colpo all’Iran [2]. Logicamente, se i pianificatori USA non avessero gradito le conseguenze della loro politica degli armamenti in Siria, di cui anche i giornalisti erano a conoscenza nel 2012, avrebbero potuto assumere provvedimenti così da porvi fine, anziché lasciarla protrarsi per altri cinque anni.

Al fine di condurre con successo una simile campagna, gli Stati Uniti e i loro alleati necessitano di due requisiti: armi e combattenti. Soddisfare il primo dà impulso all’industria degli armamenti; andare incontro al secondo, invece, apre opportunità per tutta una serie di subappaltatori, i quali forniscono un’ampia gamma di servizi, dall’equipaggiamento e addestramento di milizie armate, alla costruzione di basi militari. Entrambi attestano il fatto che, sin dal 1945, l’apparato militare-industriale USA ha costituito il principale elemento strutturante del capitale statunitense, con la devastante campagna contro la Corea, dal 1950 al 1953 (secondo Curtis LeMay, allora ai vertici dello Strategic Air Command, “causa dell’uccisione del 20 percento della popolazione [nordcoreana]”), a segnare una significativa accelerazione, a partire dalla quale i produttori di armi hanno realizzato che fabbricare prodotti per il Dipartimento dell difesa era ben più redditizio, rispetto a un approdo nei mercati civili. Una confidenza, quella dei produttori di armamenti nei confronti delle commesse statali, gonfiatasi durante la guerra USA al Vietnam.

La guerra alla Siria è scoppiata parallelamente – di fatto ne è stata una componente essenziale – ad una massiccia espansione delle esportazioni di armi in corso sin dal 2011, quando gli Stati Uniti e i loro partner regionali hanno innescato il conflitto. Nel febbraio dello stesso anno, il quotidiano israeliano Ha’aretz citava il think tank svedese Stockholm International Peace Research Institute, affermando che “le esportazioni globali di armamenti hanno avuto un incremento del 14 percento nei cinque anni precedenti il 2015”. L’articolo aggiungeva, “gli Stati Uniti [hanno conservato] il primo posto, a seguito della crescita delle loro vendite di un 27 percento rispetto al quinquennio trascorso”.

La guerra siriana, in particolare, ha dato agli Stati Uniti occasione per espandere le vendite di armi ai propri accoliti regionali. Secondo la Reuters, l’amministrazione Obama ha offerto al Regno dell’Arabia Saudita “oltre 115 miliardi di dollari in armamenti, altro equipaggiamento militare e addestramento, più di ogni altra amministrazione USA nei settantuno anni di alleanza coi sauditi”. Obama ha anche garantito a Israele una “fornitura record” di almeno 38 miliardi di dollari in armi, nel contesto di un accordo decennale. Gli aerei israeliani, va tenuto a mente, continuano a bombardare l’esercito siriano e siti governativi, incluso l’assalto aereo, nel gennaio 2017, all’aeroporto militare di Mezza alla periferia di Damasco. Per non parlare della persistente ed illegale occupazione israeliana delle Alture del Golan in Siria, dell’assistenza medica fornita ai combattenti antigovernativi (gli stessi che, in precedenza, nel 2012, avevano combattuto nel ramo siriano di al-Qaeda), nonché dell’aperta cospirazione finalizzata a usare la guerra in Siria per espandervi le colonie.

Gli attacchi imperialisti per procura sono stati lanciati nel mezzo di proteste emerse in un contesto interno di accresciute povertà e disuguaglianza. Le condizioni economiche della Siria, prima della guerra, sono estremamente rivelatrici circa la natura dell’imperialismo contemporaneo inteso come sistema globale, nonché del suo funzionamento all’interno degli stati post-coloniali in periodo di “pace”, vale a dire, quando il blocco USA non ha ancora fatto ricorso all’aggressione militare, non avendo raggiunto i propri obiettivi con altri mezzi. A seguito della perdita, da parte della Siria, di un importante partner commerciale con il collasso dell’Unione Sovietica, il Fondo monetario internazionale, insieme ad altre potenti istituzioni finanziarie, ha cercato di presiedere alla creazione di nuovi mercati finanziari nel paese. (Non va dimenticato che, col crescere della povertà in Siria, l’FMI ha espresso la propria enorme soddisfazione riguardo al processo di privatizzazione). Beneficiari, oltreché complici, di tale processo sono stati elementi dello stato siriano. Obiettivo di alcune proteste del 2011 è stato, non a caso, il miliardario Rami Makhlouf, sotto diversi aspetti vera e propria personificazione di questa tendenza. Makhlouf ha accumulato una fortuna personale in diversi mercati, inclusi investimenti USA. Esempio di corruzione personale interna all’apparato statale siriano, questa figura ha rappresentato per la Siria l’embrione di ciò che potrebbe diventare una forma di neocolonialismo, caratterizzata, a detta di Sam Moyo e Paris Yeros “in prima istanza, dal trasferimento dell’apparato statale a una piccola borghesia indigena conservatrice e, successivamente, dal duplice processo di formazione e compradorizzazione di una classe capitalista interna”.

La Siria non è la sola, tra gli stati che hanno ottenuto l’indipendenza attraverso movimenti anti-coloniali, a dover fronteggiare simili problemi, e la lotta intorno alla natura del capitale privato, tanto nella società siriana quanto nel partito Ba’ath al governo, si protrarrà anche dopo la fine della guerra. Per coloro fra di noi che vivono all’interno di stati imperialisti, il rapporto con queste lotte sarà determinato primariamente da quello con i nostri governi. L’illustrazione più chiara di tale realtà è forse il fatto che Makhlouf è stato sottoposto a sanzioni da parte degli USA e, infine, costretto a rinunciare ai suoi investimenti negli Stati Uniti – un effetto della fondamentale ineguaglianza tra nazioni, nonché un aspro promemoria al fatto che il maggiore potere finanziario risiede nelle società finanziarie basate negli USA, e da essi protette.

Ritornando alla guerra alla Siria, vi è poi il corollario insanguinato di un'”economia” costruita sulla guerra – l’impatto sociale. In un caso precedente, quello del Vietnam, gli Stati Uniti hanno sganciato massicciamente bombe e defolianti sulle comunità contadine, avvolgendo interi villaggi con fiamme e napalm. La Siria odierna, invece, è oramai uno stato post-coloniale da lunga data. Ciò significa che la guerra USA ha preso di mira e distrutto le istituzioni statali, fungenti anche da siti della riproduzione sociale, dagli edifici governativi alle scuole, in cui la vita quotidiana della Siria si è trovata forzata a convivere in prossimità dei mortai e degli attacchi suicidi.

Queste atrocità non costituiscono altro che un massivo attacco all’investimento sociale, la ricchezza del popolo siriano, in quanto, come rilevato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) nel 2013, “[le imprese di proprietà dello stato] operano in Siria in ogni settore, su ispirazione del modello sovietico di proprietà statale, compreso quello alimentare, in altri paesi della regione in mano a operatori privati”. Inoltre, vi sono inclusi settori dell’industria leggera, delle telecomunicazioni, banche pubbliche ecc. Nel frattempo, parallelamente all’espansione dei mercati degli armamenti, il capitale USA continua a crescere. L’ultimo Global Wealth Report del Credit Suisse Research Institute rivela che il 2017 ha mostrato “il ritmo di creazione della ricchezza più alto dal 2012”, gli Stati Uniti emergono “leader indiscussi” nella ricchezza globale, con i tre statunitensi più ricchi a detenerne una fetta maggiore rispetto alla meta inferiore della restante popolazione USA.

L’importanza di questi dettagli non può essere sottostimata, poiché indicano come intere sezioni del capitale USA dipendono non solo dal minare la sovranità della Siria, ma anche dalla distruzione dello stato siriano e dall’evaporar della sua ricchezza, in quello che si configura come un indicibile episodio di saccheggio. Tale aspetto, l’avidità dell’imperialismo statunitense, è stato teorizzato in precedenza proprio dai rivoluzionari della regione in questione.

Nel 2005, nel tentativo di sviluppare una teoria in grado di spiegare la distruzione dell’Iraq da parte USA, Soula Avramidis ha evocava il concetto di “nuovo imperialismo”, secondo il quale “l’economia statunitense necessita sempre maggiore instabilità all’estero per mantenere in salute il proprio capitale”. Avramidis riconosce che “ben prima che i discorsi sul ‘nuovo imperialismo’ divenissero popolari in occidente, gli intellettuali palestinesi nei campi profughi erano giunti a tale conclusione, semplicemente riflettendo sulle miserevoli condizioni della loro esistenza”. Dunque, “la teoria implicita in quasi ogni numero di Al-Hadaf [rivista ufficiale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina] sosteneva che la lotta al sionismo andava oltre una lotta per reclamare la terra – si trattava infatti di una lotta contro l’egemonia capitalista statunitense, in nome della quale Israele era ritenuto agire come un gendarme”. I rivoluzionari palestinesi e arabi avevano presente quanto il fomentare guerre regionali, da parte di Israele, fosse necessario al riciclaggio dei dollari.

Si tratta di una teoria emersa dalla pratica e ad essa applicata, consacrata e applicata nella realtà, ovvero nei travagli che ogni teoria efficace deve affrontare. È il comunismo dei campi profughi, il quale produce teoria “alimentato dall’incocciarsi delle fogne a cielo aperto e dei tetti in lamiera con la capacità degli esseri umani di analizzare la propria vita”. Nelle parole dell’FPLP, “che Israele costituisca un avamposto imperialista e colonialista nella nostra terra, utilizzato al fine di arginare la marea della rivoluzione… è un fatto evidente, fuori discussione”. Per quale motivo? Ai loro occhi questa non era “una mera conclusione teorica, bensì rappresentava la reale esperienza vissuta durante l’aggressione tripartita del 1956, nel giugno del 1967 e nel corso dell’intera esistenza di Israele sul loro suolo”.

Coloro fra di noi che si trovano a vivere nel ventre della bestia hanno l’obbligo internazionalista di accumulare tutte le forze possibili, al fine di contrastare, ostruire e, da ultimo, porre fine a queste reti della guerra. Nel fare ciò, dobbiamo riconoscere che abbiamo di fronte un nemico col quale un compromesso parziale equivale ad uno totale. Per avere un esempio di cosa si voglia qui intendere, possiamo rivolgere lo sguardo all’ascesa dei mercenari. Nel 2016, una compagnia denominata Six3 Intelligence Solutions Inc., con base a McLean in Virginia, ha ottenuto dallo stato un contratto del valore di 9.578.964 dollari, per svolgere attività non meglio specificate in Siria. Secondo una relazione dello U.S. Department of Defense Press Operation, alla stessa società era già stata garantita “una modifica (P00003) di 13.967.720 dollari al contratto W560MY-15-C-0004, così da finanziare pienamente il periodo di riferimento, nonché le attività di intelligence a supporto delle forze USA in Afghanistan… “. Detto in parole povere, non ci si può opporre all’imperialismo USA in alcun luogo se lo si accetta, attivamente o passivamente, in Siria. Opporvisi significa opporsi al capitalismo stesso. Viceversa, il successo dell’imperialismo USA in Siria, ne rafforzerebbe i profitti e, quindi, le capacità espansive altrove, dall’Honduras alla Colombia, dal Niger alle Filippine e oltre.

 

“Qui è Gerusalemme”

Nel settembre 2017, Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, dichiarava la vittoria dell’Esercito siriano e dei suoi alleati. “Abbiamo vinto la guerra”, affermava; il “progetto” USA-israeliano-saudita fallito. Per una volta, la stampa statunitense mainstream concordava con Nasrallah. “Come gli USA hanno perso la guerra in Siria contro Russia e Iran”, titolava Newsweek un mese dopo. Un certo consenso si è fatto strada: gli Stati Uniti hanno perso la guerra non essendo riusciti a rovesciare il governo siriano. Ma per quanto possa essere vero che gli USA hanno fallito nel raggiungere i loro obiettivi massimi, fino a 4.000 unità delle loro truppe restano in Siria, di stanza in basi sparse in tutta la parte settentrionale del paese. Nel settembre 2017, l’ambasciatrice alle Nazioni Unite nominata da Donald Trump, Nikki Haley, ha ribadito sul palcoscenico mondiale che gli Stati Uniti non si riterranno soddisfatti fintanto il presidente Bashar al Assad rimarrà al potere. Appariva del tutto evidente che Trump aveva in programma di proseguire la guerra e – a conti fatti, allargarne il campo d’azione.

Quando Trump ha annunciato che gli Stati Uniti sposteranno la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, da lui definita simultaneamente come unica capitale di Israele, ciò è avvenuto sulla scorta di estese manovre regionali, miranti a riconsolidare i legami regionali degli Stati Uniti con Israele e l’Arabia Saudita, fonti, rispettivamente, delle ideologie esclusiviste del sionismo e del wahhabismo. Entrambi gli stati reclutati in uno sforzo finalizzato a reindirizzare l’attenzione regionale verso una guerra al nemico comune, la Repubblica islamica dell’Iran. A discrezione di Trump, il rapporto di lunga data tra Israele e l’Arabia Saudita è finito sotto i riflettori nella maniera più vergognosa agli occhi delle masse arabe, col principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, impegnato a stabilire un’alleanza con una figura statunitense che, di fatto, sta spingendo per una totale colonizzazione, e definitiva de-arabizzazione, di una città, Gerusalemme, profondamente araba e pervicacemente palestinese.

Trump, il brutale reazionario, con quest’unica mossa ha strappato la maschera di rispettabilità indossata con tanta abilità dal suo predecessore Barack Obama. In un colpo solo ha offerto a coloro che hanno a cuore l’emancipazione un regalo potenzialmente inestimabile, gettando via la chimera del cosiddetto “processo di pace”, attraverso il quale i palestinesi sono stati sistematicamente derubati. Esponendo la collaborazione israelo-saudita, dispiegatasi sotto copertura in Siria e – di gran lunga il fattore più importante – reindirizzando lo sguardo delle classi popolari arabe verso la Palestina occupata, restituendo il suo posto nel cuore dei diseredati del mondo alla causa palestinese, nonché fornendo un punto d’incontro anti-settario nel mondo arabo, minando, nel corso di tale processo, anni di propaganda basata sul settarismo al fine di spezzare l’unità intorno alla Palestina. Man mano che le proteste guadagnano slancio nel mondo arabo, con gli Stati Uniti quale fonte della loro ira, a noi in Nord America rimane da comprendere come cogliere il momento, e fare la nostra parte per contribuire alla sconfitta dell’imperialismo USA nell’intera area.

Identificare e rafforzare le alleanze necessarie contro la macchina bellica USA potrebbe sembrare un’impresa strenua, in un’epoca di crescente reazione nel centro imperialista. Tuttavia, appare sempre più evidente la precarietà di Trump, malgrado i suoi toni aggressivi, e la sua amministrazione in realtà pullula di debolezze e contraddizioni intrinseche, senza dubbio quando si tratta di guerra. Dopotutto, quando Obama e il Segretario di stato John Kerry hanno rumoreggiavano, nel settembre 2013, circa una possibile invasione della Siria, i sondaggi Gallup rivelavano che “il supporto degli statunitensi a un’azione militare contro il governo siriano… è vicino a emergere come uno dei più bassi tra tutti quelli agli interventi sui quali Gallup ha posto dei quesiti negli ultimi vent’anni”. Il sondaggio mostrava una maggioranza di cittadini USA, 51 percento, contraria ad intraprendere un’azione militare contro il governo siriano, mentre un 13 percento si diceva incerto. Solo il 36 percento degli intervistati si esprimeva a favore.

Un sentimento che si può estendere allo stesso Trump. Durante la campagna, quest’ultimo ha assunto una posizione contraria al pieno sostegno di Hillary Clinton all’imperialismo liberale. È stata la Clinton a promette nel sito della sua campagna elettorale l’implementazione di No Fly Zone tramite il potere dei bombardieri USA, così da fornire una “leva e l’impulso necessario a una soluzione diplomatica che porti alla rimozione di Assad… “. Douglas L. Kriner, della Boston University, e Francis X. Shen, University of Minnesota Law School, hanno condotto uno studio in cui si suggerisce “che vi è un significativo e rivelatore rapporto tra il tasso di sacrificio militare di una comunità e il sostegno di questa a Trump”. Un’analisi nella quale si afferma che “centrale per la vittoria di Trump è stata la sua abilità nello spostare tre stati sicuramente democratici: Pennsylvania, Michigan e Wisconsin”. In termini di militari morti, questi stati “hanno visto un tasso di vittime in Iraq e Afghanistan che li colloca nel mezzo, rispetto alla distribuzione su scala nazionale”. A voler essere precisi, lo studio di Kriner e Shen non tiene in alcun conto quegli statunitensi stanchi della guerra astenutisi dal voto. Spingere la bellicosità militarista e contemporaneamente lanciare un’enorme offensiva classista per conto dei ricchi, potenzialmente, pone Trump e l’imperialismo USA di fronte a un dilemma irrisolvibile. Inviare truppe a combattere e dunque indebolire potenzialmente il proprio sostegno interno, oppure continuare, come aveva fatto Obama, a eludere la colpa di vittime militari USA, esternalizzando la guerra a ribelli in grado di garantire in Siria un successo militare solo parziale.

Rimane la questione di quali sostenitori sia possibile mobilitare in questo momento. Su tale fronte, esiste già un’importante e crescente solidarietà tra movimenti di liberazione palestinesi e neri, fondati su basi e rapporti precedenti stabiliti negli anni Sessanta e Settanta. Qualsiasi risorgente sforzo contro la guerra dovrebbe trovare un punto d’incontro con tali movimenti, e articolarsi secondo modalità che corrispondano alle loro esigenze strategiche, contribuendo, al contempo, ad ampliarne l’analisi del nemico imperialista. Laddove si agisse in questo senso con successo, si disporrebbe di una forza in grado di utilizzare un ampio spettro di tattiche conflittuali contro i quartier generali della guerra globale, ovvero ciò che fece il movimento di liberazione nera insieme a quello contro la guerra al Vietnam nelle generazioni precedenti, lasciandoci una preziosa tradizione rivoluzionaria antimperialista, nella quale si esprimeva l’importanza di avere all’interno degli Stati Uniti una forza fondamentalmente contro gli Stati Uniti. Di fatto, un altro Vietnam.


Note
  1. Atif A. Kabursi and Salim Mansur, “From Sykes-Picot Through Bandung to Oslo: Whither the Arab World?”, Arab Studies Quarterly 18, n. 4 (1996), 11.
  2. Questo sostengo, un desiderio di morte psicopatico, una minaccia a milioni di persone, lanciata da rispettabili opinionisti in giacca e cravatta, dovrebbe essere considerato sintomatico dell’odierna cultura dell’imperialismo USA.

Patrick Higgins è dottorando in storia araba moderna alla University of Houston.

Link all’articolo originale in inglese Viewpoint Magazine

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