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micromega

“In Germania ha vinto la protesta. L'UE è irriformabile, come non capirlo?”

G. Russo Spena intervista Vladimiro Giacché

intervista giacche 510Non lo definisce “vento populista”, preferisce chiamarlo più semplicemente “vento della protesta” anche quando si tratta di commentare le elezioni tedesche e il grande exploit dei nazionalisti dell'AfD. Vladimiro Giacché, economista e presidente del centro Europa Ricerche, ne è convinto: “Se l'Europa vira a destra è per precise responsabilità della sinistra che è stata in buona parte corresponsabile delle politiche neoliberali (mi riferisco in particolare ai partiti socialisti/socialdemocratici) e dove non lo è stata, non ha saputo affrontare le radici della crisi e mettere davvero in discussione l’assetto dell’Europa di Maastricht”.

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Il crollo (annunciato) della Spd e la vittoria dell'estrema destra dell'AfD, sono questi i due aspetti predominanti del voto tedesco?

Aggiungo il crollo della CDU e della CSU, le due forze che sostenevano Angela Merkel. Non si tratta di un dettaglio: la frana riguarda entrambi i partiti che un tempo determinavano la politica tedesca.

Il voto sancisce la fine della socialdemocrazia europea come l’abbiamo conosciuta, confermando un trend già visto in opera in Grecia, in Francia, in Spagna, in Olanda – e che credo sarà confermato in Italia. Ma più in generale quella delle “famiglie” politiche tradizionali un tempo egemoni a livello europeo: la popolare/cristiano-democratica e quella socialdemocratica.

 

Ma, in realtà, in Italia il Pd è in testa ai sondaggi come primo partito, crede veramente rischi la pasokizzazione?

Credo che il Pd perderà la centralità politica; tenterà di mantenerla al prezzo di un’ulteriore deriva a destra, ma senza successo. L’operazione politica che ha dato vita al Pd si rivela per quello che era: un’operazione trasformistica  priva di respiro. Oggi è il bersaglio di tutti coloro che ritengono socialmente regressiva ed economicamente sbagliata la politica seguita dal 2011 in poi. Mi riesce difficile dar loro torto.

 

Torniamo alla Germania: malgrado la vittoria di Merkel, dal voto si evincerebbe una crisi di Sistema?

Oggi viene letto tutto in termini di instabilità, ma non credo che sia la lettura corretta: semplicemente, l’elettorato ha votato contro la gestione di questi partiti nei 10 anni che ci separano dall’inizio della Grande Recessione. Può essere sorprendente che questo avvenga anche in un Paese come la Germania, che è considerato da molti il vero vincitore di questa crisi. Ma il punto è che non tutta la Germania ha vinto, anzi.

 

In effetti in Germania negli ultimi dieci anni la povertà relativa è salita dall'11 al 17%; con l'introduzione dei mini Jobs sono raddoppiate a due milioni le persone che fanno un doppio lavoro per vivere, la crescita del Pil è stata costante ma i pensionati poveri sono arrivati al 30%. E la concentrazione della ricchezza in poche mani in Germania è seconda solo a quella Usa. E' per questo che Merkel vince ma non stravince, nel senso che perde voti rispetti alle precedenti elezioni?

Proviamo a dirlo in “economese”. La Germania in questi anni ha coerentemente praticato una politica mercantilistica, basata sulle esportazioni, sacrificando la domanda interna e gli investimenti. La capacità esportativa tedesca si è avvalsa per un verso della costruzione di una rete di subfornitori con manodopera a basso prezzo nei paesi dell’Est (che perlopiù non hanno adottato l’euro, e quindi hanno potuto beneficiare di svalutazioni rispetto ad esso), per l’altro di una vera e propria compressione dei salari. I salari tedeschi, nei settori esposti alla concorrenza internazionale, sono scesi in termini reali, tra il 1999 e il 2008, di qualcosa come il 9% (sono dati forniti da Bofinger, uno degli esperti economici che assistono il governo tedesco: http://voxeu.org/article/german-wage-moderation-and-ez-crisis). Con l’Agenda 2010 del socialdemocratico Schröder sono stati precarizzati i rapporti di lavoro (i minijobs), riducendo al contempo fortemente le indennità di disoccupazione. Nel frattempo, le tasse alle imprese e alla parte più ricca dei cittadini venivano diminuite. Ecco spiegata l’ampliarsi della disuguaglianza, e anche il mistero di una Germania che “va bene”, ma in cui tanti cittadini sono scontenti. E votano di conseguenza.

 

Se, come viene detto, la vittoria dell'Afd sarebbe dovuta alla campagna contro i rifugiati perché otterrebbe grandi consensi nella Germania dell'Est dove in realtà c'è una bassa affluenza di migranti?

Il tema dell’immigrazione ha fatto da detonatore a un disagio sociale presente già da tempo. All’Est le sue motivazioni si possono sintetizzare in due dati: una disoccupazione doppia che all’Ovest, e stipendi inferiori di un quarto. Si tratta di una situazione che affonda le sue radici nelle modalità dell’unificazione tedesca, e in particolare – come ho spiegato anni fa nel mio libro sull’unificazione, Anschluss – in un’unione monetaria affrettata e realizzata con un tasso di cambio assurdo (parità tra marco ovest e marco est nonostante che il tasso di cambio reale fosse all’epoca di 1 a 4,4), che ha distrutto l’economia della ex Germania Est. A questo punto tutti gli asset industriali dell’est furono svenduti attraverso la Treuhandanstalt (curiosamente riproposta come modello durante questa crisi, da Juncker e da altri, alla Grecia). Il risultato furono milioni di disoccupati, emigrazione di massa e la distruzione dell’industria dell’Est. Una distruzione cui non hanno potuto porre rimedio i massicci trasferimenti statali successivi: molto semplicemente, al di là di poche isole felici, l’Est del Paese non è a tutt’oggi autosufficiente.

 

Alternative für Deutschland prende i voti delle classi popolari e dei ceti meno abbienti?

L’AfD non vince soltanto all’Est, ma anche in zone certamente tutt’altro che povere come la Baviera, dove la motivazione anti-immigrati è senz’altro prevalente.

 

In Italia se ne è parlato poco: la Linke, la sinistra radicale tedesca, ha preso quasi il 10 per cento. Il vento di protesta si muove anche a sinistra?

La Linke prende mezzo milione di voti dalla SPD, ma cede poco meno alla AfD. In questi numeri sta scritto tutto quanto ci è necessario sapere, e quanto del resto confermano le evidenze sulle zone di maggiore radicamento della Linke stessa: che guadagna voti all’Ovest ma li perde ad Est; che conquista consensi nei quartieri della borghesia riflessiva, ma li perde nelle zone operaie. Non ha pagato la linea sull’immigrazione (“refugees welcome” non è una politica), e questo ha neutralizzato il fatto (importante) che una parte dell’elettorato deluso dalla Grosse Koalition si è rivolto a sinistra, preferendo la Linke alla SPD. A questo proposito va detto che all’interno della stessa Linke chi aveva avanzato idee sensate sulla necessità di un’immigrazione regolata (Sahra Wagenknecht) è stata attaccata violentemente: i risultati si sono visti nelle elezioni.  

 

Nei suoi libri ha spiegato bene come la Francia fosse ad un bivio: o accodarsi all'Agenda 2010 della Germania e proseguire sulla linea dell'austerity o far cambiare marcia all'Europa opponendosi al dominio della locomotiva tedesca. Mi sembra netta la scelta di Macron, no?

Ha imboccato la prima strada, in questa direzione vanno senza alcun dubbio le (cosiddette) riforme del lavoro annunciate. È una pessima notizia per la Francia e per l’Europa. Se Macron riuscirà a realizzare queste misure proseguirà e si rafforzerà la tendenza alla deflazione salariale e alla compressione della domanda interna in Europa.

 

Detta così, l'Europa a due velocità ha imboccato un vicolo cieco. Il vento populista ha terreno fertile?

Sì, direi che più importante della velocità è qui la direzione: che è quella sbagliata. Si è troppo spesso confuso l’internazionalismo con l’europeismo, e l’Europa con l’Unione Europea. Per contro, si è data troppo poca importanza al tema della democrazia e a quello, connesso, della sovranità popolare: la verità è che l’Europa di Maastricht è profondamente antidemocratica. Lo è per essenza, e non per accidente. È un’architettura disegnata nel periodo trionfale del neoliberismo, quello immediatamente successivo al crollo dell’Urss. Il suo impianto non è soltanto antisocialista, ma antikeynesiano.

 

Lei spesso pone un problema di incompatibilità di questa Europa con i nostri dettami costituzionali...

Quando Tietmeyer (presidente della Bundesbank) nel 1998 si compiacque per il fatto che i politici europei, spogliandosi della sovranità monetaria – conferita a un’unica banca centrale indipendente - avevano avuto la saggezza di sostituire “il plebiscito quotidiano dei mercati” al “plebiscito delle urne”, sapeva cosa diceva. Per di più durante la crisi, una classe politica e tecnocratica assai poco lungimirante ha deciso di dare un ulteriore giro di vite a questa macchina neoliberale con il fiscal compact. Quel fiscal compact che oggi si vorrebbe includere nei Trattati. Faccio fatica a trovare un’idea più miope e regressiva.

 

Come uscirne?

Capendo fino in fondo che l’assetto attuale dell’Unione Europea è il problema, e non la soluzione. 

 

In tutto questo, quali possibili scenari intravede?

Sinceramente non sono ottimista. Mi sembra che la consapevolezza dei problemi a livello politico sia assolutamente inadeguata. Si continua a perdere tempo con problemi nella migliore delle ipotesi secondari, non si ha alcuna strategia, e quindi si soggiace a quelle altrui. È quello che emerge dall’esame di tutti i principali dossier degli ultimi anni: dall’Unione bancaria al problema dell’immigrazione, alla politica energetica. Non conosco un solo caso in cui la soluzione adottata non sia stata svantaggiosa per il nostro Paese, e favorevole ad altri.

 

L'Italia dovrebbe maggiormente battere i pugni sul tavolo a Bruxelles, è questo il problema?

Non si tratta soltanto né soprattutto di incapacità negoziale, che sarebbe comunque sconfortante. C’è un pregiudizio ideologico: ogni passo avanti dell’integrazione europea è considerato positivo a priori. E c’è la convinzione – contraria a ogni evidenza – che solo il “vincolo esterno” ci possa salvare. Quasi che, per qualche tara genetica, fossimo incapaci di governarci da soli. In genere la storia non è stata tenera nei confronti delle classi dirigenti e dei popoli dominati da questo tipo di convinzioni.

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