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III Conclusioni

In un mondo in cui gli interessi di un’esigua minoranza prevalgono con sempre maggiore arroganza sulle aspirazioni e le necessità dei meno abbienti,[67] si sono create le condizioni per il moltiplicarsi di movimenti fondamentalisti di ispirazione ideologica e religiosa che hanno fatto del conflitto armato e degli attentati terroristici la ragione primaria della propria esistenza. Inoltre, i cambiamenti climatici stanno producendo modificazioni catastrofiche degli assetti idrogeologici e delle condizioni di vita di intere popolazioni, con conseguenti perdite di coltivazioni e di risorse idriche essenziali.[68] Le risposte a questi fenomeni destinati a cambiare gli assetti geopolitici del mondo sono diverse.

Nella Cina di Xi Jinping è in corso un processo di trasformazione radicale della società, del sistema produttivo e delle istituzioni di governo che, recuperando parte dei valori etici e del patrimonio culturale tradizionale, ha come obiettivo la costruzione di una nazione moderna, prospera e potente. Si stanno compiendo sforzi straordinari per costruire un’immagine nuova e più positiva di un paese che, pur tra mille contraddizioni e problemi interni che non hanno ancora trovato risposte adeguate, sta portando avanti con determinazione un progetto concreto a lunga scadenza di riorganizzazione e ristrutturazione in una prospettiva di sviluppo globale che, dopo aver fatto uscire dalla povertà assoluta oltre 700 milioni di persone (60 milioni solo nell’ultimo quinquennio), si prefigge di continuare in questa direzione, riscattando dall’indigenza almeno dieci milioni di individui l’anno e contribuendo a migliorare le condizioni generali di vita dei cinesi e delle popolazioni di altri paesi. Desta non poche preoccupazioni la recente svolta accentratrice e autoritaria, che richiede capacità di gestione eccezionali, se si vuole evitare un arretramento delle conquiste ottenute negli ultimi decenni.

In Occidente stiamo assistendo a una profonda crisi dei valori e delle istituzioni che imporrà una trasformazione della società, destinata a essere sempre più multirazziale, e la ridefinizione delle relazioni tra stati in un’ottica che non potrà che essere diversa da quella attuale. Gli Stati Uniti di Donald Trump sembrano ossessionati dal solo obiettivo di “rendere l’America di nuovo grande” in una prospettiva egemonica alla quale non intendono in alcun modo rinunciare; l’obiettivo politico principale di Trump sembra essere lo smantellamento sistematico di tutto ciò che il suo predecessore ha realizzato in otto anni di governo, in un’ottica di decostruzione sistematica dello stato sociale che favorisca il dominio assoluto di un’esigua élite. Di questo passo l’immagine degli Stati Uniti verrà ulteriormente indebolita, mettendo a nudo i punti di fragilità del modello americano e, più in generale, di quello occidentale. Ciò nonostante la posizione dominante degli Stati Uniti sembra per lungi dall’essere seriamente compromessa.[69] La Cina non sembra infatti pronta a cogliere questa opportunità; nonostante gli enormi sforzi profusi e il crescente livello di affidabilità sul piano internazionale di cui gode, la cultura, i valori e lo stile di vita cinesi non esercitano quell’influenza e quell’attrazione “sottile e penetrante” che i suoi dirigenti si aspetterebbero e non riescono ad affermarsi al di fuori del paese.

La Russia di Vladimir Putin e un’Europa che stenta a trovare il passo giusto tentano di inserirsi in questo gioco a due, ma senza particolare successo per il momento. Alcuni ritengono che questo sarà il secolo che vedrà il declino della leadership degli Stati Uniti e dell’Occidente a vantaggio della Cina e dell’Asia, altri prevedono invece che il passaggio di testimone non avverrà. Di certo sarà un secolo che porterà a trasformazioni radicali, senza le quali il mondo non sarebbe in grado di affrontare problemi di natura sovranazionale, come l’aumento vertiginoso della popolazione, l’alto tasso di inquinamento atmosferico, i drammatici cambiamenti climatici, le imponenti migrazioni di massa, i rischi di una guerra globale. Gli attuali equilibri geopolitici, militari, economici e commerciali sono comunque destinati a mutare, l’incognita riguarda la portata di questo cambiamento, le modalità e i tempi con cui avverrà. Il tanto temuto scontro tra civiltà potrà essere evitato solo a condizione che si abbia la capacità di trovare nuove forme di dialogo e di integrazione tra nazioni responsabili, capaci di mettere al primo punto della loro agenda l’interesse del mondo e in secondo piano le ambizioni nazionali, impresa tutt’altro che semplice da realizzare ma che ormai appare ineludibile. Il mondo globalizzato richiede la creazione di un nuovo ordine mondiale, più equilibrato, armonioso e pacifico dell’attuale. Si tratta di non perdere l’occasione, anche se la strada appare oggi più in salita di ieri.[70]


 

Questo testo verrà pubblicato a stampa in “Inchiesta” aprile-giugno 2018

NOTE
[1] Il grido d’allarme viene da molteplici parti. Tra gli interventi più incisivi segnalo Naomi Klein, No is Not Enough: Resisting Trump’s Shock Politics and Winning the World We Need, Chicago, Baymarcket Books, 2017 (trad. it. Shock Politics. L’incubo Trump e il futuro della democrazia, Milano, Feltrinelli, 2017), David Frum, Trumpocracy: The Corruption of the America Republic, New York, Harper, 2018, e lo studio condotto dai professori di Harvard Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, How Democracies Die, New York, Crown, 2018.
[2] Si vedano, ad esempio, Helena Legarda e Michael Fuchs, “As Trump withdraws America from the world, Xi’s China takes advantage”, Center for American Progress (Foreign Policy and Security), 29 novembre 2017, e il reportage di Evan Osnon “Making China Great Again: As Donald Trump surrenders America’s global commitments, Xi Jinping is learning to pick up the pieces” apparso l’8 gennaio 2018 in The New Yorker (anche in Internazionale, 1240, 26 gennaio -1 febbraio 2018, pp. 40-48, con il titolo “Il migliore amico della Cina. Gli Stati Uniti di Donald Trump riducono il loro impegno internazionale. Lasciando spazio alla leadership cinese”.
[3] Xi Jinping, 决胜全面建成小康社会夺取新时代中国特色社会主义伟大胜利, discorso inaugurale del 18 ottobre 2017 al 19° Congresso Nazionale del Pcc, Renimin chubanshe, ottobre 2017 (ed. ingl. Secure a Decisive Victory in Building a Moderately Prosperous Society in All Respects and Strive for the Great Success of Socialism with Chinese Characteristics for e New Era, Xinhuanet, 3 novembre 2017).
[4] Luke Harding, Collusion: Secret Meetings, Dirty Money, and How Russia Helped Trump Win, New York, Vintage, 2017 (trad. it. Collusion. Come la Russia ha aiutato Trump a conquistare la Casa Bianca, Milano, Mondadori, 2017).
[5] Secondo l’indagine condotta dal Pew Research Center di Washington in 37 nazioni nel maggio 2017, Trump è percepito sì come un leader forte (55% degli intervistati) ma soprattutto come arrogante (75%), intollerante (65%) e pericoloso (62%); solo il 39% pensa che abbia carisma, il 26% che sia preparato e il 23% che abbia a cuore il benessere collettivo. Richard Wike et al., U.S. Image Suffers as Publics Around World Question Trump’s Leadership, Washington DC, Pew Research Center, 26 giugno 2017.
[6] Lance Dodes et al., “Mental health professionals warn about Trump”, The New York Times, 13 febbraio 2017. Si veda anche l’editoriale della Nbc a firma di Richard Painter e Leanne Watt, “The 25th amendment proves why Trump’s mental health matter”, NbcNews, 18 ottobre 2017. Gli interventi sull’argomento sono numerosi; tra i più significativi si vedano Keith Olbermann, Trump is F*ucking Crazy (This is not a joke), New York, Blue Rider, 2017, Brandy X. Lee et al., The Dangerous Case of Donald Trump. 27 Psychiatrics and Mental Health Experts Assess a President, New York, Thomas Dunne Books, 2017, e l’editoriale del The New York Times del 10 gennaio 2018 “Is Mr. Trump Nuts?”.
[7] Massimo Teodori, Ossessioni americane. Storia del lato oscuro degli Stati Uniti, Venezia, Marsilio, 2017. Si vedano anche Mattia Ferraresi, La febbre di Trump. Un fenomeno americano, Venezia, Marsilio, 2017, David Neiwert, Alt-America: The Rise of the Radical Right in the Age of Trump, London-New York, Verso, 2017, Gennaro Sangiuliano, Trump: vita di un presidente contro tutti, Milano, Mondadori, 2017, e Sergio Romano, Trump e la fine dell’American Dream, Milano, Longanesi, 2017.
[8] Unica eccezione è rappresentata dal regista del documentario Trumpland, Micheal Moore, che definì Trump un “disgraziato, ignorante e pericoloso pagliaccio part time e sociopatico a tempo pieno” prevedendone la nomina in tempi non sospetti. Moore si è dichiarato convinto che Trump verrà rieletto al secondo mandato (Christian Champagne, “Micheal Moore says Trump is on track to win again in 2020”, Fast Company, 28 agosto 2017).
[9] In particolare Bob Corker, presidente della Commissione senatoriale degli affari esteri, ha denunciato apertamente il rischio di essere trascinati in una terza guerra mondiale a causa delle intemperanze e delle continue minacce rivolte alle altre nazioni da Trump, che tratterebbe “la sua carica come un reality tv, come se stesse interpretando una puntata di The Apprentice”, lo show televisivo condotto (e coprodotto) da Trump prima di scendere in campo per le presidenziali. “Mi spaventa e deve spaventare chiunque abbia a cuore la nostra nazione” ha dichiarato Corker, che ha anche accusato Trump di aver trasformato la Casa Bianca in “un asilo nido per adulti” (Jonathan Martin e Mark Landler, “Bob Corker says Trump’s recklessness threatens ‘World War III’”, The New York Times, 8 ottobre 2017).
[10] Sono inoltre state create delle commissioni e dei forum di indirizzo, composti da decine di esperti reclutati dal mondo dell’imprenditoria, della finanza, delle arti, delle religioni, i quali si sono defilati man mano che si trovavano in disaccordo con alcune prese di posizione del presidente, decretando così l’affossamento, avvenuto per mano stessa di Trump, delle commissioni e dei forum.
[11] Greg Weiner, “The president’s self-destructive disruption”, The New York Times, 11 ottobre 2017, Áine Cain, “Management experts break down Trump’s leadership style during his first 100 days as president”, Business Insider, 19 maggio 2017, e Peter Baker, “For Trump, a year of reinventing the presidency”, The New York Times, 31 dicembre 2017.
[12] Glenn Kessler, Meg Kelly e Nicole Lewis, “President Trump has made 1,950 false or misleading claims over 347 days”, The Washington Post, 2 gennaio 2018.
[13] È stato stimato che il presidente risparmierà tra 11 e 15 milioni di dollari all’anno e che la revisione delle tasse di successione potrebbe consentire ai suoi eredi un risparmio di 4,5 milioni di dollari. Per Jared Kushner, genero e consigliere del presidente, i risparmi stimati sono compresi tra 5 e 12 milioni di dollari (“Usa: approvata la riforma fiscale. Trump: «L’America torna grande». Meno tasse (a chi lavora per sé)”, Corriere della sera, 21 dicembre 2017.
[14] Paul Krugman, “Lies, Lies, Lies, Lies, Lies, Lies, Lies, Lies, Lies, Lies”, The New York Times (Paul Krugman New York Times Blog), 14 ottobre 2017. Sarebbero in particolare i gruppi finanziari e bancari a trarne i maggiori benefici, e alcuni gruppi industriali che hanno prontamente elargito bonus una tantum fino a 2000 dollari per dipendente e annunciato investimenti in favore dei lavoratori delle proprie aziende come forma di ringraziamento al presidente e sostegno alla riforma, in molti casi una sorta di captatio benevolentiae nei confronti delle istituzioni (è il caso di AT&T impegnata nell’acquisizione della Time Warner per 84,5 milioni di dollari che necessita di essere sbloccata dal Dipartimento di Giustizia) o di gratitudine per i contratti milionari siglati al seguito dei viaggi presidenziali in giro per il mondo (è il caso, ad esempio, della Boeing). Va da sé che una cosa è se i benefici fiscali avvengono all’interno del rapporto tra lo stato e i cittadini-lavoratori, altra se i benefici vengono elargiti dal datore di lavoro sotto forma di bonus o di benfits di qualsivoglia tipo, magari per sbloccare una trattativa sindacale complessa e/o per annunciare, come è avvenuto nel caso della Walmart, la contestuale chiusura di alcuni stabilimenti e/o punti vendita.
[15] Vale la pena soffermarsi brevemente su Stephen (Steve) Bannon, uno dei collaboratori più stretti e influenti di Trump durante l’ultima fase della campagna elettorale e i primi mesi del mandato presidenziale. Cineasta e giornalista, direttore di Breitbart News, il portale di estrema destra da lui fondato che è considerato la piattaforma internet del movimento razzista con simpatie neonaziste che promuove il suprematismo bianco, il maschilismo, l’islamofobia, l’antisemitismo, il protezionismo, l’isolazionismo e altri valori della destra più radicale sostenuti dal movimento Alternative Right (Alt-right). In qualità di coordinatore della sua campagna elettorale 2016 Bannon è stato tra gli artefici del successo politico di Trump e per questo è stato nominato consigliere anziano e capo stratega del presidente (carica inventata ad hoc per lui), posizione che ha ricoperto dal 20 gennaio al 18 agosto 2017. È stato anche membro del Consiglio per la sicurezza nazionale dal 29 gennaio al 5 aprile 2017. La diffidenza mostrata verso il duo Ivanka Trump – Jared Kushner e le posizioni anti-interventiste sulla crisi nordcoreana lo ha reso inviso alla lobby militare-industriale, e non è forse casuale che il suo allontanamento sia avvenuto proprio per mano del generale John Kelly poco dopo la sua nomina a capo di gabinetto. Con queste parole Bannon ha commentato il suo allontanamento dalla Casa Bianca: “La presidenza Trump, per la quale abbiamo combattuto e vinto, è finita.” Ha destato curiosità e in alcuni persino sconcerto la presenza di Bannon a Hong Kong (dove è intervenuto a un convegno a porte chiuse organizzato da una società d’investimenti di proprietà dello stato cinese) dopo il suo allontanamento dalla Casa Bianca, avvenuto poche settimane prima dell’arrivo di Trump in Cina e, soprattutto, nel quartiere generale del Pcc e del governo a due passi dalla Città proibita a Pechino, dove Bannon avrebbe incontrato, segretamente, Wang Qishan, all’epoca capo della potente (e temutissima) Commissione centrale di vigilanza, oggi Vicepresidente della Repubblica Popolare (Tom Mitchell e Demetri Sevastopulo, “Steve Bannon held secret meeting in China”, The Financial Times, 21 settembre 2017). Il rapporto fra Trump e Bannon è rimasto nell’ambiguità fino alla pubblicazione del libro di Michael Wolff Fire and Fury: Inside the Trump White House, New York, Henry Holt & Co., 2018 (trad. it. Fuoco e furia. Dentro la Casa Bianca di Trump, Milano, Rizzoli, 2018), che ha sancito la rottura definitiva tra i due e l’uscita definitiva di Bannon da Trumpland.
[16] Michael Wolff, cit. Il libro era programmato per uscire in libreria il 9 gennaio 2018, ma già il 3 gennaio 2018 sono apparse le prime anticipazioni su The Guardian (David Smith, “Trump Tower meeting with Russians ‘treasonous’, Bannon says in explosive book”) e sul New York Magazine che ha pubblicato un estratto dal titolo “Donald Trump didn’t want to be president. One year ago: the plan to lose, and the administration’s shocked first days”. La tesi del “candidato che non voleva vincere” che si era lanciato nell’agone politico per interessi personali legati alle sue attività extrapolitiche era già stata avanzata da Micheal Moore nell’agosto del 2016, in piena campagna elettorale (“Trump is self-sabotaging his campaign because he never really wanted the job in the first place”, Huffpost, 16 agosto 2016). Come prima reazione al clamore mediatico suscitato dalle anticipazioni, Trump ha accusato Bannon di “aver perso la testa” e ha etichettato il libro come “fraudolento” e “infondato”. Ha poi preso immediatamente le distanze da quello che un tempo era stato il suo principale consigliere, ridimensionandone il ruolo e diffidandolo, attraverso i suoi avvocati, dall’insistere nelle accuse. Per evitare che il volume potesse venir bloccato da un tribunale, l’editore ne ha anticipato l’uscita al 5 gennaio. Lo scandalo ha colpito non solo la famiglia presidenziale e il presidente in persona, ma anche Bannon che è stato rimosso dal posto di direttore della rivista Breitbart News e che, dopo gli ultimi insuccessi, sembra ormai caduto in disgrazia, salvo riciclarsi come consulente politico in diversi paesi europei (Jeremy W. Peters, “Steve Bannon steps down from Breitbart News”, The New York Times, 9 gennaio 2018). Sulla sua storia e sul ruolo da lui avuto nel determinare le scelte politiche di Donald Trump si veda Kurt Bardella, “Inside Steve Bannon’s ‘Fight Club’”, The New York Times, 10 gennaio 2018. In seguito ad alcune dichiarazioni rilasciate a Wolff, Bannon ha dovuto presentarsi alla Commissione presieduta dal direttore Robert Mueller III sul Russiagate, e pare che abbia deciso di collaborare.
[17] Sempre pronto ad attribuirsi meriti non suoi, o almeno non solo suoi, Trump è passato dal predire un crollo della borsa al primo rialzo dei tassi d’interesse da parte della Fed a considerare i risultati borsistici positivi come il metro di valutazione del suo successo, incurante del fatto che gli indici borsistici americani sono in salita costante dal 2009 nonostante i tassi d’interesse siano aumentati nel 2017 ben tre volte. Stesso discorso vale per l’economia nel suo complesso. Si veda a tal proposito il giudizio caustico rilasciato da Paul Krugman a Josh Barro nel corso di un’intervista pubblicata da Business Insider il 15 dicembre 2017 e ripresa da Business Insider Italia il 27 dicembre 2017: “Il merito che va a Trump è essenzialmente pari a zero” (Graham Rapier e Josh Barro, “Il premio Nobel Paul Krugman: ‘Trump non ha alcun merito sull’economia e i Bitcoin sono un’enorme bolla’”).
[18] La nozione di “nazione indispensabile” è un concetto ben radicato nell’animo degli americani e largamente diffuso tra i politici, sia repubblicani che democratici. Madeleine Albright, Segretario di Stato durante il secondo mandato di Bill Clinton, lo ha così sintetizzato: “Se dobbiamo usare la forza è perché siamo l’America: siamo la nazione indispensabile, siamo in alto e vediamo più lontano nel futuro degli altri paesi.” Intervista a Madeleine Albright per Nbc-Tv, Usis Washington File, 19 febbraio 1998.
[19] Peter Navarro e Greg Autry, Death of China: Confronting the Dragon: A Global Call to Action, Upper Saddle River NJ, Pearson FT Press, 2011. Dal libro ha tratto ispirazione il lungometraggio Death by China di Martin Sheen del 2012. In precedenza Navarro aveva pubblicato un altro libro fortemente anticinese, The Coming China Wars: Where They Will Be Fought, How Can They Be Won, Upper Saddle River NJ, FT Press, 2006 (revised and enlarged edition, Upper Saddle River NJ, Pearson Education Press, 2008).
[20] Mark Landler, “Trump heaps praise on Xi Jinping and blames predecessors for trade gaps”, The New York Times, 9 novembre 2017, Jane Perlez e Mark Landler, “Wooing Trump, Xi Jinping seeks great power status for China”, The New York Times, 6 novembre 2017.
[21] Stando alle dichiarazioni ufficiali si sarebbero presi accordi per 9 miliardi di dollari con prospettive, tutte da concretizzare, di arrivare a 250 nei prossimi anni. Un’operazione che è parsa più di facciata che di sostanza, che corre il rischio di venire vanificata alla luce della recente stretta agli investimenti cinesi in terra americana.
[22] Julie Hirschfeld Davis, “Trump suggests teachers get a ‘bit of a bonus’ to carry guns”, The New York Times, 22 febbraio 2018, Julie Bosman e Stephanie Saul, “‘Teachers are educators, not security guards’: Educators respond to Trump proposal”, The New York Times, 22 febbraio 2018.
[23] Maurizio Ricci, “Commercio, Trump non sa quello che fa: ecco perché è una pallina impazzita”, la Repubblica.it, 17 marzo 2018.
[24] Lance Dodes et al., cit.
[25] Gideon Rachman, “America is now a dangerous nation. The president may exploit an overseas conflict to distract from problems at home”, The Financial Times, 14 agosto 2017.
[26] “Military solutions are now full in place, looked and loaded” ha twittato Trump dal suo campo da golf di Bedminster nel New Jersey dove era impegnato a “lavorare sodo”, parafrasando l’espressione “look and load” (“armi cariche e pronte”) usata da John Wayne in Sands of Iwo Jima del 1949 (David Usborne, “President Trump needs to cut the John Wayne act and stop the heated rhetoric with North Korea”, Independent, 12 agosto 2017, e anche Darren Samelson, Matthew Nussbaum, “Trump’s ‘John Wayne’ presidency struggles with tragedy”, Politico, 14 agosto 2017). La figlia di Wayne, Aissa Wayne, è una sostenitrice della prima ora di Trump (Tessa Berenson, “John Wayne daughter endorses Donald Trump”, Time, 19 gennaio 2016). La citazione ha fatto seguito a un’altra, “fuoco e fiamme” (“fire and fury like the world have never seen”), usata da Trump come minaccia contro la Corea del Nord, tratta questa volta dalla famosa serie di videogiochi di guerra Fire and Fury, espressione da cui si è ispirato il libro-scandalo di Michael Wolff Fire and Fury: Inside the Trump White House.
[27] Mark Landler e Julie Hirschfeld Davis, “Trump tells Japan it can protect itself by buying U.S. arms”, The New York Times, 6 novembre 2017, Julie Hirschfeld Davis, Mark Landler e Choe Sang-un, “No war threats from Trump, who tells Koreans ‘It will all work out’”, The New York Times, 7 novembre 2017, Keith Bradsher e Ana Swanson, “Trump’s visit to China: More business deals than trade pacts”, The New York Times, 7 novembre 2017.
[28] Significativa è parsa la posizione assunta dal pluridecorato generale John Hyten, comandante del United States Strategic Command e, quindi, responsabile dell’intero arsenale nucleare statunitense, che ha pubblicamente dichiarato che in caso dovesse ricevere dal Presidente-Comandante-in-capo l’ordine di lanciare un attacco atomico verso un paese ostile agli Stati Uniti o ai suoi alleati, si sarebbe rifiutato di eseguirlo se avesse valutato che l’ordine fosse “illegale”. Naturalmente sull’interpretazione e definizione di “illegale” si è aperto un dibattito mai concluso (Kathryn Watson, “Top general says he would resist ‘illegal’ nuke order from Trump”, Cbs News, 18 novembre 2018).
[29] Il tema è brillantemente affrontato da Joseph Joffe, The Myth of America’s Decline. Politics, Economics, and a Half Century of False Prophecies, New York-London, Liveright Publishing Corporation, 2014 (trad. it. Perché l’America non fallirà. Politica, economia e mezzo secolo di false profezie, Novara, Utet-De Agostini, 2014).
[30] Il valore strategico dell’Eurasia è sempre stato ben chiaro agli esperti statunitensi, come si evince, ad esempio, dal rapporto del Council on Foreign Relations redatto da Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale sotto l’amministrazione Carter (The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives, New York, Basic Books, 1997, trad. it. La grande scacchiera, Milano, Longanesi, 1998), o dal controverso rapporto del PNAC (Project for the New American Century), l’Istituto di ricerca con sede a Washington che ha tra i suoi fondatori Dick Cheney, vicepresidente degli Stati Uniti durante l’amministrazione Bush (figlio), e Donald Rumsfeld, Segretario di Stato durante le amministrazioni di Ford e Bush (figlio): Rebuilding America’s Defences: Strategies, Forces and Resources for the New Century, settembre 2000. Entrambi i fronti, democratico e repubblicano, avevano chiaro il ruolo chiave dell’Eurasia per il controllo globale da parte degli Stati Uniti. Come ebbe a scrivere Brzezinski: “Alla lunga, la politica globale diventerà sempre meno congeniale alla concentrazione del potere egemonico nelle mani di un singolo Stato. E quindi l’America non solo è la prima, oltre che la sola, vera superpotenza globale; ma probabilmente è anche destinata a essere l’ultima” (p. 209). Ecco perché “Il compito più immediato è quello di assicurare che nessuno Stato o unione di Stati conquisti la capacità di espellere gli Stati Uniti dall’Eurasia, o anche di sminuirne in modo significativo il decisivo arbitrato.” (pp. 197-198).
[31] Va notato che l’unico impiego di armi nucleari è avvenuto per mano degli americani nel 1945, quando nessun’altra nazione possedeva la bomba atomica. Il ricorso alle armi nucleari tra nazioni nuclearizzate oggi è da ritenersi altamente improbabile, a meno che non si accetti l’eventualità di venir rasi al suolo un secondo dopo aver lanciato un proprio missile. Altra questione è invece l’uso politico che si fa della minaccia nucleare.
[32] Daniella Diaz, “Trump says he spoke to US Vergin Islands’ ‘president’ – which is him”, Cnn Politics, 14 ottobre 2017.
[33] Julian Borger, Saeed Kamali Dehghan e Peter Beaumont, “Trump threatens to rip up Iran nuclear deal unless US and allies fix ‘serious flaws’”, The Guardian, 13 ottobre 2017.
[34] Commenti salaci e preoccupati non si sono fatti attendere, ovviamente. Si veda, ad esempio, Peter Baker e Michael Tackett, “Trump says his ‘nuclear button’ is ‘much bigger’ than North Korea’s”, The New York Times, 2 gennaio 2017.
[35] Richard Wike et al., cit. Si tratta di percentuali paragonabili solo a quelle disastrose raggiunte da George W. Bush alla fine del suo mandato. Come leader mondiale Trump ispira meno fiducia nell’opinione pubblica di Angela Merkel, ma anche di Xi Jinping e di Vladimir Putin. Non sorprende dunque che dopo la fallimentare visita in Europa di Trump lo scorso maggio la cancelliera tedesca abbia dichiarato che era giunto il momento “di prendere in mano il nostro destino”, evidenziando la distanza che si è venuta a creare tra Stati Uniti ed Europa non solo su temi rilevanti per il pianeta come la lotta all’inquinamento e al riscaldamento globale, ma anche sui sempre più delicati equilibri politici all’interno del mondo occidentale e dell’Alleanza Atlantica (Gideon Rachman, “Merkel’s blunder, Trump and the end of the West”, The Financial Times, 29 maggio 2017). D’altro canto Trump aveva apprezzato la scelta del Regno Unito di uscire dalla Comunità Europea e manifestato la speranza che altri paesi avrebbero presto seguito le sue orme (Ewen MacAskill, “Donald Trump arrives in UK and hails Brexit vote as ‘great victory’”, The Guardian, 24 giugno 2016).
[36] Declining Confidence in Trump, Lower Job Ratings for Congressional Leaders, Washington DC, Pew Research Center, 2 novembre 2017.
[37] Michael Wolff, cit.
[38] Sul tentativo del presidente di negare l’accaduto e far ricadere la colpa della mancata soluzione del problema dei Dreamers ai democratici, secondo il principio che “non c’è miglior difesa dell’attacco, anche a costo di negare ogni evidenza”, si rinvia a Thomas Kaplan, Noah Weiland e Michael D. Shear, “Hopes dim for DECA deal as lawmakers battle over Trump’s immigration remarks”, The New York Times, 14 gennaio 2018, e a Jonathan Martin, Michael D. Shear e Sherley Gay Stolberg, “As shutdown talk rises, Trump’s immigration words pose risks for both parties”, The New York Times, 15 gennaio 2018.
[39] Come spiega Vivian Yee, “In Trump’s immigration remarks, echoes of a century-old racial ranking”, The New York Times, 13 gennaio 2018. È in questo contesto che Trump, costretto a far fronte a un altro scandalo relativo all’ex pornostar Stephanie Clifford, in arte Stormy Daniels, (il cui silenzio è costato, all’avvocato di Trump Micheal Cohen, 130.000 dollari, pagati a suo dire di tasca propria) e alle assurde dichiarazioni rilasciate da Trump stesso a The Wall Street Journal circa la sua presunta amicizia con Kim Jong-un, ha innescato un’ulteriore polemica con la Gran Bretagna: prendendo a pretesto il suo personale disappunto per lo spostamento dell’ambasciata americana a Londra da un quartiere all’altro della città che avrebbe comportato uno spreco di denaro e di prestigio a suo dire ingiustificabile (spostamento voluto secondo Trump da Obama, ma in realtà deciso da Bush), il presidente si è rifiutato di recarsi nella capitale inglese come preannunciato. La visita avrebbe dovuto avvenire alla fine del 2017, ma le tensioni createsi tra Washington e Londra l’avrebbero fatta slittare all’inizio del 2018, retrocedendola a normale “visita di lavoro”, per evitare il coinvolgimento, previsto dal protocollo se la visita fosse stata “di stato”, della famiglia reale. Le ragioni della rinuncia sarebbero invece altre: hanno pesato i forti timori per le contestazioni che la presenza di Trump avrebbe sicuramente scatenato, l’imbarazzo nel ricevere un presidente sempre più ingombrante e imprevedibile, il gelo creatosi per l’infelice retweet di Trump a sostegno del movimento ultranazionalista e islamofobico di estrema destra “Britain First” e la presa di posizione assunta dal governo inglese all’Onu a favore della risoluzione di condanna contro la decisione, assunta unilateralmente dall’amministrazione Trump, di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e di trasferire nella Città Santa l’ambasciata statunitense. Sullo sfondo c’è anche l’invito a Barack e Michelle Obama alle nozze del principe Harry con Meghan Markle che avrebbe escluso un’eventuale partecipazione di Donald e Melania Trump, peraltro non invitati. A poco sono serviti questi diversivi, alla fine la questione con Stormy Daniels si è ingigantita al punto da indurre Trump a chiederle un risarcimento di 20 milioni di dollari.
[40] Chris Stevenson, “Donald Trump’s unprecedented first year in the White House in numbers”, Independent, 18 gennaio 2018, Randy Yeip, “Trump takes to twitter like clockwork”, The Wall Street Journal, 19 gennaio, 2018, e Peter Oborne e Tom Roberts, How Trump Thinks: His Tweets and the Birth of a New Political Language, London, Head of Zeus, 2017.
[41] Jon Meacham, “Donald Trump and the limits of the reality TV presidency”, The New York Times, 29 dicembre 2017.
[42] Richard Wike et al., cit. Questi dati negativi non sembrano comunque inficiare l’appeal del popolo americano, che resta positivo per il 58% degli intervistati (solo il 26% ha un atteggiamento negativo), così come positiva rimane l’influenza nel mondo della cultura popolare a stelle e strisce, uno dei punti di forza del soft power statunitense, anche se l’analisi fa emergere dati discordanti: se il 65% apprezza la musica, il cinema e la televisione prodotti negli Stati Uniti e il 54% ritiene che il governo rispetti le libertà personali, la maggioranza degli intervistati non è per niente favorevole alla concezione americana di democrazia (46%, a fronte del 43% favorevole), e non ritiene che le idee e lo stile di vita americani siano diffusi nel loro paese (54%, a fronte di un 38% che invece è convinto del contrario).
[43] Hal Brands, “If you thought 2017 was bad, just wait for 2018”, Foreign Policy, 8 gennaio 2018, Id., American Grand Strategy in the Age of Trump, Washington DC, Brookings Institution Press, 2018.
[44] Willy Wo-Lap Lam, Chinese Politics in the Era of Xi Jinping: Renaissance, Reform, or Regression?, New York, Routledge, 2015, Kerry Brown, Ceo, China: The Rise of Xi Jinping, London, I.B. Tauris & Co., 2016, Reprint Edition, 2017.
[45] Beatrice Gallelli, “Metafore di una metafora: la retorica del ‘sogno cinese’”, Annali di Ca’ Foscari, Serie Orientale, 52, 2016, pp. 207-242.
[46] Jonathan Woetzel, Jeongmin Seong et al., China Digital Economy: A Leading Global Force, New York, McKinsey Global Institute, agosto 2017, Jonathan Woetzel, Diaan-Yi Lin et al., China’s Role in the Next Phase of Globalization, New York, McKinsey Global Institute, aprile 2017, e Dominic Barton, Jonathan Woetzel et. al., Artificial Intelligence: Implications for China, New York, McKinsey Global Institute, aprile 2017. Secondo una recente indagine condotta tra i maggiori produttori di tecnologia del mondo, Stati Uniti e Cina sono i paesi con le più elevate aspettative di crescita, con uno scarto minimo di potenzialità tra i due paesi. Inoltre, si prevede che nel giro di quattro anni Shanghai e Pechino entreranno nella rosa dei dieci principali poli dell’innovazione al mondo: Shanghai al primo posto, davanti a New York, e Pechino al terzo a pari merito con Tokyo (Kpmg, The Changing Landscape of Disruptive Technologies 2017, I, 22 marzo 2017, II, 31 luglio 2017).
[47] Jane Perlez, Paul Mozur e Jonathan Ansfield, “China’s technology ambitions could upset the global trade order”, The New York Times, 7 novembre 2017.
[48] Scott Cendrowski, “Inside China’s global spending spree. ‘One Belt One Road,’ China’s $3 trillion infrastructure-building campaign, could be a windfall for Western companies and investors”, Fortune 2017 Investor Guide, 12 dicembre 2016. I costi stimati per il completamento del progetto variano da fonte a fonte. Solo da parte cinese sono previsti investimenti per oltre 1000 miliardi di dollari per il primo decennio e di almeno altri 2000 per il periodo successivo. Secondo uno studio compilato dal China Power Team del Center for Strategic & International Studies i costi complessivi per realizzare le infrastrutture necessarie ammonterebbe a 26.000 miliardi di dollari (How Will The Belt and Road Initiative Advance China’s Interests?, 8 maggio 2017, aggiornato l’11 settembre 2017, accesso online dal 9 ottobre 2017).
[49] Lunyu 论语 13.24.
[50] Lüshi chunqiu 吕氏春秋 1.4.2. Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 137-141.
[51] Stephen Broadberry, Hanhui Guan e David Daokui Li, China, Europe and The Great Divergence: A Study in Historical National Accounting, 980-1850, Oxford, University of Oxford, Discussion Papers in Economic and Social History, n. 155, 17 aprile 2017.
[52] Sul recupero della tradizione e, in particolare, del confucianesimo si vedano Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio, cit., e Id., “Tradizione e confucianesimo nella Cina del XXI secolo”, in Emanuela Magno e Marcello Ghilardi (a cura di), La filosofia e l’altrove. Festschrift per Giangiorgio Pasqualotto, Milano-Udine, Mimesis, 2016, pp. 253-274.
[53] Almeno una media di dieci miliardi di dollari l’anno negli ultimi quindici anni secondo David Shambaugh, China’s Soft-Power Push. The Search for Respect, New York, Council of Foreign Relations, luglio-agosto 2015. Si vedano anche Osamu Sayama, China’s Approach to Soft Power. Seeking a Balance between Nationalism, Legitimacy and International Influence, London, Royal United Service for Defence and Security Studies, marzo 2016, e Eleanor Albert, China’s Big Bet on Soft Power, New York, Council of Foreign Relations, 11 maggio 2017.
[54] Marshall Sahlins, Confucius Institutes: Academic Malware, Chicago, Prickly Paradigm Press, 2015, Maurizio Scarpari, “Soft power in salsa agrodolce. Confucianesimo, Istituti Confucio e libertà accademica”, Inchiesta online, 29 settembre 2014, Perry Link, Is Academic Freedom Threatened by China’s Influence on American Universities?, Testimony Presented to the U.S. House Committee on Foreign Affairs, 4 dicembre 2014, Falk Hartig, “Communicating China to the world: Confucius Institutes and China’s strategic narratives”, Politics, 35 (3-4), 2015, pp. 245-258, e Jeffrey Gil, Soft Power and the Worldwide Promotion of Chinese Language Learning. The Confucius Institute Project, Bristol-Blue Ridge Summit PA, Multilingual Matters, 2017.
[55] Nel 2013 i netizen cinesi hanno ironizzato a lungo sulla presunta somiglianza tra Winnie e Xi: ha spopolato sui social di mezzo mondo la foto del presidente Xi a passeggio con il presidente Obama nel corso del vertice in California accostata a un disegno di Winnie a passeggio con Tigro, suo compagno di avventure. L’anno successivo era toccato al primo ministro giapponese Shinzo Abe, ripreso con Xi nel corso di una conferenza stampa in cui, dopo anni di tensione tra Pechino e Tokyo, i due leader si lasciavano mestamente con una poco convinta stretta di mano: in questo caso l’immagine ha ricordato Winnie mentre tendeva la zampa a l’asinello Ih-Oh, altro personaggio del cartone animato. Triste sorte è toccata anche all’immagine che metteva a confronto una macchinetta giocattolo che ritraeva Winnie in piedi al suo interno e Xi in piedi nella sua automobile durante una parata: in meno di un’ora la foto pubblicata su Weibo ha ricevuto oltre 65.000 condivisioni, prima di venire censurata (Tom Batchelor, “China bans Winnie The Pooh on social media after comparison with President Xi Jinping”, Independent, 17 luglio 2017).
[56] Ian Johnson, “Cambridge University Press removes academic articles on Chinese site”, The New York Times, 18 agosto 2017, Javier C. Hernández, “Leading Western publisher bows to Chinese censorship”, The New York Times, 1 novembre 2017, Jacqueline Williams, “Australian furor over Chinese influence follows book’s delay”, The New York Times, 20 novembre 2017, e Ellie Bothwell, “Chinese power ‘may lead to global academic censorship crisis’”, Times Higher Education, 7 dicembre 2017.
[57] Come, ad esempio, la manipolazione del consenso ottenuto attraverso l’uso fraudolento dei social media operato dai membri del cosiddetto wumaodang 五毛党 “partito dei 50 centesimi”, per il quale si rinvia a Gary King, Jennifer Pan e Margaret E. Roberts, “How the Chinese government fabricates social media posts for strategic distraction, not engaged argument”, American Political Review, 111, 3, 2017, pp. 484-501.
[58] Justina Crabtree e Cheang Ming, “Why soft power could be the real value of China’s massive Belt and Road project?”, Cnbc, 22 maggio 2017.
[59] Todd Hall, “An unclear attraction: A critical examination of soft power as an analytical category”, The Chinese Journal of International Politics, 3 (2), 2010, pp. 189-211, Abhinav Dutta, “The concept of soft power: A critical analysis”, International Affairs Forum, Washington DC, Center for International Relation, 27 agosto 2017.
[60] Sulle diverse definizioni di soft power in Cina si veda Tanina Zappone, “Soft power in cinese. Ideologia del potere e adattamento culturale”, in Clara Bulfoni e Silvia Pozzi (a cura di), Atti del XIII convegno dell’Associazione Italiana di Studi Cinesi, Milano, Franco Angeli, 2014, pp. 414-425. Per un’analisi del soft power culturale si veda Guozuo Zhang, Research Outline for China’s Cultural Soft Power, Singapore, Social Science Academic Press e Springer Nature Singapore Pte Ltd, 2017, Sabrina Rastelli, “Il ‘soffice potere’ dell’arte: la diplomazia pubblica e le esposizioni di arte antica”, Mondo cinese, 143, 2010, pp. 128-144, Paola Voci e Luo Hui (eds.), Screening China’s Soft Power, New York, Routledge, 2018, e Natalia Riva, “La cultura come risorsa di soft power e industria pilastro dell’economia cinese”, Mondo cinese, 161, 2017, pp. 23-38. Sulla definizione di negative soft power si rinvia a William A. Callahan, “Identity and security in China: The negative soft power of the China dream”, Politics, 35 (3-4), 2015, pp. 216-229.
[61] William A. Callahan, cit.
[62] Sheng Ding, “Engaging diaspora via charm offensive and indigenised communication: An analysis of China’s diaspora engagement politics in the Xi era”, Politics, 35 (3-4), 2015, pp. 230-244, Kingsley Edney, The Globalization of Chinese Propaganda: International Power and Domestic Political Cohesion, New York, Palgrave Macmillan, 2014, e Id., “Building national cohesion and domestic legitimacy: A regime security approach to soft power in China, Politics, 35 (3-4), 2015, pp. 259-272.
[63] Osamu Sayama, cit.
[64] David Shambaugh, “China’s soft-power push”, cit., e l’editoriale del 23 marzo 2017 in The Economist: “China is spending billions to make the world love it. Can money buy that sort of thing?”.
[65] Mengzi 孟子 7A.14.
[66] Maurizio Scarpari, “Soft power. Un glorioso passato che non convince il resto del mondo”, In Asia (il manifesto), 25 maggio 2017, pp. 4-5. Un caso emblematico che meriterebbe un’attenta riflessione da parte delle autorità cinesi riguarda l’elezione del nuovo Direttore generale dell’Unesco, avvenuta nell’ottobre 2017 e ratificata dall’Assemblea generale il mese successivo. La nuova direttrice, l’ex ministro della cultura francese Andrey Azoulay, è stata eletta alla sesta votazione. Nelle prime votazioni uno dei quattro candidati era il cinese Qian Tang, funzionario dell’Unesco dal 1993 e assistente del Direttore generale aggiunto per l’Educazione dal 2010. La Cina ambiva a ricoprire questa posizione di prestigio, ma per tre votazioni consecutive la candidatura di Qian Tang ha ottenuto solo 5 voti su 58, prima di essere ritirata. Una brutta figura che certo Qian Tang, dal 2001 alto dirigente del settore educazione dell’ente, non meritava, ma che dovrebbe far riflettere sul peso effettivo della Cina nelle istituzioni culturali non cinesi.
[67] Secondo l’ultimo rapporto sulla diseguaglianza nel mondo rilasciato dall’organizzazione non profit Oxfam di Oxford, l’1% della popolazione mondiale (ca. 75 milioni di individui) ha beneficato, da sola, dell’82% della ricchezza netta prodotta globalmente tra marzo 2016 e marzo 2017, mentre alla fascia più povera, che costituisce il 50% della popolazione del pianeta (3,7 miliardi di individui), non è andato praticamente nulla. Secondo il rapporto, l’1% della popolazione mondiale possiede da sola quanto il restante 99%, una forbice che invece di assottigliarsi continua ad aumentare.
[68] Fao et al., The State of Food Security in the World, Building Resilience for Peace and Food Security, Rome, Fao, 2017.
[69] L’indice Soft Power 30. A Global Ranking of Soft Power 2017 compilato nella primavera 2017 dal centro di ricerca Portland di Londra e dalla University of Southern California Centre on Public Diplomacy di Los Angeles registra un ulteriore avanzamento della Cina rispetto l’anno precedente, essendo passata dalla ventottesima posizione del 2016 alla venticinquesima (era trentesima nel 2015), e una regressione degli Stati Uniti dalla tradizionale posizione al vertice della classifica sia nel 2015 sia nel 2016 alla terza posizione nel 2017. Questi dati vanno presi con cautela, per due motivi: innanzi tutto perché il soft power è una categoria più concettuale che materiale, difficilmente valutabile in modo oggettivo, che muta considerevolmente in base al paniere di parametri utilizzati, alle aree considerate, alle fasce di genere e di età, ecc., e in secondo luogo perché gli indici per il 2017 al momento disponibili tengono conto, nella migliore delle ipotesi, solo dei primi mesi del governo Trump. E infatti gli altri due centri di valutazione di solito presi in considerazione, basandosi su criteri di analisi differenti, danno risultati contrastanti. L’indice compilato dal Real Instituto Alcano di Madrid, Alcano Global Presence Report 2017, datato al 1 giugno 2017, conferma ai vertici della classifica gli Stati Uniti e al secondo posto la Cina, che aveva raggiunto questa posizione già nel 2016. Il Soft Power Survey 2016/2017 realizzato da Monocle in collaborazione con l’Institue for Government di Londra non è qui significativo, essendo stato compilato prima che Trump diventasse presidente (è datato a novembre 2016). Per Monocle gli Stati Uniti sono al primo posto e la Cina al ventesimo.
[70] Nicolas Berggruen e Nathan Gardels, Intelligent Governance for the 21st Century: A Middle Way Between West and East, Cambridge-Malden, Polity Press, 2012, Graham Allison, China Vs. America. Managing the Next Clash of Civilizations, New York, Council on Foreign Relations, settembre-ottobre 2017, e Richard Haas, A World in Disarray: American Foreign Policy and the Crisis of the Old Order, New York, Penguin Random House, 2018.
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