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sinistra

Trump 2.0: una svolta epocale?

di Raffaele Sciortino

trump ue.jpg“Il capitalismo cadrà come il muro di Berlino”

José Francesco Bergoglio

Un confronto sulla percezione che sulle due sponde dell'Atlantico si ha della crisi in corso è importante, ma deve scontare uno choc cognitivo dovuto alla difficoltà di mettere a fuoco una svolta forse epocale. In effetti, è in corso a Washington un vero e proprio regime change, contrappasso della politica da decenni perseguita dalla Foreign Policy Community statunitense a tutte le latitudini. Se a prima vista sembra regnarvi il caos, la sfida è individuare una logica di fondo in questo caos. Detto altrimenti, Trump è sintomo e prodotto di profonde spinte materiali interne ed esterne oltreché l'attore di un tentativo di svolta nella postura strategica degli Stati Uniti nel mondo, dal corso incerto e con esiti difficilmente prevedibili.

Come fattori immediati, Trump 2.0 è il prodotto dei tre fallimenti principali e tangibili dell'amministrazione Biden: 1) non essere riuscita a infliggere una ”sconfitta strategica” alla Russia nel conflitto ucraino, avendo anzi favorito l'ulteriore riavvicinamento tra Mosca e Pechino e con gran parte del Sud Globale; 2) aver mancato l'obiettivo del decoupling selettivo con la Cina, ovvero il blocco della sua modernizzazione tecnologica e della risalita nelle catene globali del valore; 3) non aver arrestato il deterioramento del quadro sociale interno (nonostante gli impegni per una middle class foreign policy e gli abbozzi di reshoring, che in realtà si sono fermati sulla soglia del friendshoring con paesi come Messico e Vietnam). Anche solo alla luce di questi fattori, non era difficile ipotizzare che non Trump era la parentesi, ma Biden (le cui misure, non a caso, si sono collocate sul solco protezionistico di Trump 1.0, sanzioni comprese). Ma c'è di più. I fallimenti dell'amministrazione Democratica si configurano non come errori contingenti, bensì come la coda di un lungo ciclo della politica Usa e mondiale, quello della globalizzazione ascendente, già duramente scosso dalla crisi del 2008.

Un ciclo che oggi è alla fine perché ha reso gli Stati Uniti più dipendenti dal mondo che pure dominano, ma con costi economici sempre più gravi (deindustrializzazione relativa e deficit commerciale inarrestabile), con una polarizzazione e disgregazione sociale crescente, e con il rischio non più solo ipotetico che la Cina sfugga con qualche possibilità di successo al meccanismo ancora imperante del prelievo imperialista del dollaro (https://www.haymarketbooks.org/books/2577-the-us-china-rift-and-its-impact-on-globalisation). Sono queste le cause profonde della sempre più evidente ”crisi ordinativa” del sistema internazionale (della Pax Americana), rovesciamento dialettico del dominio dell'unico imperialismo in senso proprio rimasto sulla scena in quanto capace di combinare investimenti esteri all’estero, signoraggio monetario mondiale, controllo globale dei mari e dello spazio attraverso la potenza militare full-spectre, un apparato statale proiettato ampiamente all’estero.

La reazione a questa situazione si colloca negli Stati Uniti all'incrocio tra spinte provenienti dal profondo della società e spinte provenienti da frazioni importanti del capitalismo yankee. Si tratta delle frazioni fin qui meno favorite dalla proiezione globale (settori industriali di “vecchia” tecnologia) o che necessitano di un rafforzato rapporto con lo Stato (parte della Silicon Valley, Musk, ecc.) e in dissidio con alcuni grandi operatori finanziari. Sarebbe però frutto di illusione ottica considerare solo questo lato. La spinta dal basso - ben al di là del movimento Maga- è un fattore determinante della svolta in atto: una spinta sicuramente interclassista (in particolare, classi medie impoverite), ma che esprime anche istanze sociali di settori importanti di proletariato (non solo “bianco”) sempre più insofferenti verso le ricadute negative della globalizzazione (https://projectpppr.org/populisms/blog-post-title-one-jzade). Questo assemblaggio trumpista non è ancora un blocco sociale omogeneo, e potrebbe non diventarlo mai; ma al momento incanala anche aspettative proletarie di nazionalismo economico difensivo - piaccia o non piaccia - che coprono il vuoto lasciato dal vecchio riformismo newdealistico.

Trump è la risposta a tutto ciò - in una situazione che per certi versi ricorda la prima presidenza Nixon - con una strategia di ribaltamento del Volcker shock dei primi anni Ottanta (effettivo innesco della cosiddetta globalizzazione finanziaria trainata dal dollaro e dal doppio deficit statunitense pagato con l'emissione di montagne di Treasuries). Il nucleo del team trumpiano - più coeso di otto anni fa - ha a questo punto ben chiari: il rischio di declino degli Stati Uniti, la necessità di una prospettiva di medio-lungo periodo che mette in conto anche sacrifici e ritorni non immediati, e la posta in palio esistenziale per il mantenimento della supremazia degli Stati Uniti nel mondo. In più, in alcuni esponenti di punta del movimento Maga si intravvede la percezione di una ”crisi di civiltà” (ovvero dell'Occidente) ad ampio spettro, ben oltre una lettura meramente economica o geopolitica della crisi americana.

Al momento, tra gli alti e bassi di annunci e misure, è evidente una forzatura dall'alto corrispondente alla radicalità della svolta prospettata. La strategia che si sta delineando (almeno provvisoriamente e con la cautela del caso) è quella di “un passo indietro e due avanti”. Un passo indietro sul piano diplomatico-militare (https://www.newstatesman.com/ns-interview/2024/07/elbridge-colby-i-am-signalling-to-china-that-my-policy-is-status-quo) atto a evitare la precipitazione di uno scontro militare diretto con Russia e Cina (di qui la ricerca di una exit strategy dall'Ucraina, meglio se con un quasi rapprochement con Mosca, e il tentativo di raffreddare le tensioni con Teheran) - compensato da ”diversivi sensati” (Panama, Groenlandia, ecc.). Per Washington si tratta di tirare il fiato prendendo atto della incapacità al momento di fare guerra ai due nemici, come ampiamente dimostrato sul terreno di scontro ucraino (di qui l'appoggio a Trump anche di settori importanti del Pentagono). Due passi avanti sul piano della diplomazia economica coercitiva attraverso negoziazioni a somma zero supportate dalle misure tariffarie agitate come un grosso bastone, dalla svalutazione del dollaro e dalla ristrutturazione del debito estero imposto agli alleati in cambio della “protezione” militare - come nel piano del consigliere economico di Trump Stephen Miran (https://www.hudsonbaycapital.com/documents/FG/hudsonbay/research/638199_A_Users_Guide_to_Restructuring_the_Global_Trading_System.pdf). Tutto ciò finalizzato al rilancio della produzione industriale interna nei settori strategici in vista di future major wars, e presentato altresì come difesa ”produttivista” (non welfarista) del lavoro. In prospettiva si intravvede l’obiettivo strategico di un completo decoupling dalla Cina, da compensare con alleati e amici sul piano finanziario (Treasuries consolidati a cento anni, uso della stablecoin), energetico (acquisto di gas liquefatto ad alto prezzo) e militare (acquisto di armi statunitensi da incrementare). Il decoupling dalla Cina è visto dall’entourage di Trump come l’unico strumento efficace per bloccarne o farne deragliare la crescita economica e la stabilità socio-politica. Le tariffe esorbitanti varate ad aprile e in parte sospese sono dunque il primo passo di un percorso negoziale differenziato verso Pechino da un lato, la Ue e i paesi amici dell'Asia orientale dall'altro. Ma anche per questi ultimi lo smantellamento di parte della loro industria è condizione necessaria (anche se non sufficiente) della ricostruzione dell'apparato industriale statunitense: uno smantellamento pur parzialmente compensato da un friendshoring selettivo per alcune filiere, che diventerebbero comunque più dipendenti dal capofila statunitense e con condizioni “cinesi” per i lavoratori coinvolti. In generale si sta dunque facendo strada una ridefinizione della Grand Strategy statunitense per un ordine internazionale post-globalizzazione (https://americanaffairsjournal.org/2024/11/america-china-and-the-death-of-the-international-monetary-non-system/), che lascerà sul campo morti e feriti.

Sarebbe ingenuo pensare a una facile realizzabilità di questi obiettivi, intermedi e finali, grazie alla leva del dollaro - tuttora insostituibile sui mercati internazionali - e all'ampiezza del mercato interno statunitense. Ma anche escludere a priori la fattibilità di tale strategia appellandosi a un declino degli Stati Uniti naturalisticamente inteso (e già disatteso negli anni Settanta). Certo, gli ostacoli che Trump deve affrontare sono notevoli. Sul fronte interno: gli apparati statali e la Foreign Policy Community ostili (ancora in grado di mettergli i bastoni tra le ruote, per esempio in Ucraina); il compact Federal Reserve-Wall Street (che già si è fatto sentire condizionando l'altalena dei rendimenti dei Treasuries); le ricadute negative anche per la base sociale trompista di una possibile recessione, che riderebbe fiato ai settori sociali che più hanno beneficiato della globalizzazione, i professionals urbani e il ceto medio dei servizi digitali e finanziari, del mondo dei media e della formazione universitaria. Sul fronte internazionale: una Cina niente affatto arrendevole che già da tempo sta ristrutturando il proprio modello di sviluppo via dalla dipendenza dall'export; il riavvicinamento Mosca-Pechino, oramai difficile da rompere; il multiallineamento dei paesi Brics; l'incertezza sul riposizionamento della Germania in un Europa che la Nato oramai ha il compito di controllare più che proteggere. In più, la situazione in Medio Oriente potrebbe sfuggire di mano a fronte delle velleità israeliane, né il negoziato per la fine del conflitto ucraino si prospetta facile. In una parola, il risentimento anti-americano non farà che crescere, anche nei paesi amici rispetto alla inaffidabilità della potenza statunitense.

Ma a monte di tutto ciò, il nodo di fondo è la difficoltà obiettiva di innestare una logica neo-mercantilistica (incentrata sull’esportazione di merci) all'interno di una struttura economico-sociale imperialista incentrata sugli investimenti diretti all'estero e sul dollaro quasi moneta mondiale che permette il controllo sui flussi internazionali di capitale pur a costo di un crescente deficit commerciale. Questa struttura - emersa all'indomani della fine del sistema monetario internazionale di Bretton Woods nel 1971 - ha avuto un incredibile successo per Washington nel disintegrare le barriere statuali e finanziarie degli altri stati nazionali (in particolare quelle degli alleati, meno verso la Cina la Russia). Ma rischia oggi di disintegrare la stessa struttura industriale e sociale statunitense che si ritrova come concorrente principale… la propria moneta (la propria finanza)!

Il boomerang dell'imperialismo ritorna così verso il suo centro a una scala inedita per la parabola storica dell'imperialismo capitalistico. Il che spiega il sorprendente ritorno di una inedita “questione nazionale” in Occidente sotto forma di populismi e sovranismi che si fanno strada tra settori popolari in cerca di una difesa che il vecchio movimento operaio sindacale non è più in grado di dare. Di qui la compresenza all'interno dei settori proletari di sciovinismo (soprattutto anticinese) e rivendicazioni “neoriformiste” (in particolare anti-finanza), ambivalenza che il futuro dovrà sciogliere.

Difficile prevedere come la situazione evolverà. Di massima, si può pensare a due scenari opposti. Nel primo, il tentativo trumpiano - per il concorrere degli ostacoli visti - finisce nel caos con conseguenze a oggi non determinabili, ma sicuramente di grande momento per la stabilità già precaria dell'ordine internazionale. Nel secondo scenario, il successo della nuova strategia statunitense porterebbe alla formazione di due blocchi contrapposti: il primo a guida statunitense con un'Europa piegata e ridotta a una sorta di cortile di casa in stile già latino-americano; il secondo intorno a una Cina più integrata all'economia asiatico-orientale e alleata di Mosca. Anche in questo caso le incognite sono importanti per la tenuta della dollarizzazione pur in tono minore: cosa faranno Germania, Giappone, Corea del Sud, India, Turchia? In entrambi gli scenari, per vie differenti, si tratterebbe della fine della globalizzazione per come l'abbiamo conosciuta, di un ritorno al controllo dei capitali e delle valute (da parte dei soggetti statali forti), della riconfigurazione multidomestica delle imprese multinazionali. Non si tratterebbe dell'inizio di un ordine internazionale multipolare relativamente stabile bensì altamente conflittuale in vista della preparazione, più o meno accelerata, della guerra degli Stati Uniti contro la Cina, con un giro di vite su alleati e amici di Washington - che peraltro già vediamo ben avviato.

In tutto ciò l'elemento più interessante è il ritorno di una crisi sociale profonda nel cuore dell'imperialismo occidentale, ritorno che prelude alla possibile riattivizzazione di un proletariato passivo, disperso e frantumato. È dunque la difficoltà crescente - economica e geopolitica, comprese possibili sconfitte militari - dell'anello forte del sistema imperialistico ad apparire come condizione necessaria perché si riaprano i giochi anche sul piano dei rapporti di classe con una possibile ripresa dei conflitti di classe su scala mondiale. Con una crisi sistemica della riproduzione sociale all'orizzonte, riuscirà nuovamente l'imperialismo incentrato sugli Stati Uniti a “unire il separato”?

Anche se c'è poco che i comunisti possano fare politicamente e organizzativamente all’immediato, c'è già molto materiale su cui esercitare uno sforzo teorico e analitico che rimetta al centro i nodi strutturali del modo di produzione capitalistico, dopo decenni di autoinflitta limitazione alla dimensione culturale della critica marxista. Un po' meno di Gramsci, insomma, e un po' più di Lenin e Bordiga. La “fine della storia” è finita.


Questo testo è la versione italiana dell’articolo scritto per il collettivo statunitense Heatwave (https://heatwavemag.info/) di prossima pubblicazione.

[Questo contributo ha beneficiato delle discussioni all’interno del seminario torinese sull’imperialismo e con Steve Wright]
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Comments

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Modena
Tuesday, 13 May 2025 13:54
Questa sezione commenti è la fiera del disagio.
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Franco Trondoli
Tuesday, 13 May 2025 17:45
Se non risulta chiaro lo ripeto..Io penso che gli Europei facciano di tutto per farsi dare una bella mazzata in testa dai Russi ..che alla fine saranno alleati degli Usa. La fine dei topi la faremo noi e le nostri figlie/i e nipoti. Spero di sbagliarmi..ma ora la penso così..!!.
Buona Fortuna
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Franco Trondoli
Monday, 12 May 2025 21:11
la vittoria della Russia in Ucraina è già un fatto certificato.
Gli avventuristi Europei rischiano fortemente di fare in modo che a qualcuno l'appetito venga mangiando. Dei buoni osservatori , dovrebbero sempre valutare anche le cose che a prima vista appaiono improbabili. D'altronde se c'è un "vuoto", e l'Europa sarà sempre di più un vuoto Etico, Economico, Culturale e Politico; qualcuno lo riempirà. Le Forze e le Potenze si devono esprimere nel Mondo. Non c'è scampo.
Per l'Europa e le sue popolazioni, mi sembra troppo tardi ormai. Spero di sbagliare.
I consigli non si danno se non sono richiesti. Ma per un'ultima volta, mi permetto di consigliare la lettura de
" I Sonnambuli" di Hermann Broch,
per me , il più grande Romanzo del Novecento.
Buona Fortuna
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Giuseppe pappalardo
Monday, 12 May 2025 15:35
Ti ricordo che storicamente Il ritorno di una crisi sociale nel cuore dell'imperalismo nel 1929 preparò il terreno alla seconda guerra mondiale e non alla ripresa delle lotte del movimento operaio che conobbe i suoi maggiori successi durante i famosi 30 gloriosi cioè durante gli anni in cui il capitalismo era forte e in espansione grazie al cosiddetto compromesso socialdemocratico ovvero alla implementazione di politiche di stampo keynesiano
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Lorenzo
Monday, 12 May 2025 18:14
Bravo Giuseppe, finalmente una parola di lucidità.

Il micidiale intreccio marxista di economicismo e moralità - due opposti viventi - porta questa gente a perdersi in alienazioni paragonabili a quelle degli scrittori medievali che giudicavano la situazione politica del loro tempo alla luce delle profezie bibliche.
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Franco Trondoli
Monday, 12 May 2025 15:16
Secondo me l'analisi complessiva cambia radicalmente se Usa e Russia diventeranno alleati.
Nessuno prende in considerazione questo fatto..neanche come ipotesi..!!
Che dire: Amen
Buona Fortuna
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alessio galluppi
Monday, 12 May 2025 11:44
Caro Raffaele,
da ex a ex che abbiamo condiviso una comune e complice militanza di lunghi anni.
Il movimento no global non c'è più e tu sei stato il più coerente tra di noi a intuire subito che nessuno sforzo soggettivista poteva resuscitare un movimento che era rifluito. In quei frangenti avevi ragione tu e torto noi.
Dopo di che una cosa avrebbe dovuto insegnarci quel movimento che rivendicava "noi siamo 8 miliardi e voi solo 8" a Genova nel 2001. Sono passati 24 anni da allora e chi nelle nazioni dell'Occidente si mobilita contro il genocidio in mondovisione manco era nato nel 2001.
E se non aveva senso allora domandarsi su cosa sarebbe accaduto in Germania e in linea generale circa le possibilità della classe operaia dell'Occidente atomizzata, non ha senso ancor più oggi ragionare in questi termini.
Ritenere nel secolo scorso e fino al 1945/1950 circa al ruolo della classe operaia in Occidente come “centrale” e di “avanguardia” per la rivoluzione sociale mondiale e senza la quale nulla sarebbe stato possibile, ebbene poteva avere un senso. Perchè la sola Europa rappresentava 1/4 della popolazione mondiale con gli USA suo capofila e questi concentravano la massima capacità produttiva, finanziaria, militare e di saccheggio imperialista di svariati secoli. Nonostante ciò quella tesi però è stata confutata ancora una volta dai fatti della storia. Certo l'Occidente e gli USA in particola modo sono equipaggiati di 500 anni di dominio coloniale e di saccheggio, che è stato tanto più intensivo e brutale proprio negli ultimi 80 anni. Basta pensare infatti che più dei 2/3 dell'oro che abbonda delle banche centrali dei vari Stati è stato estratto dal 1950 ai giorni nostri. Un dato statistico che indica la ferocia dell'imperialismo nella sua fase del postocolonialismo storico degli ultimi 70 anni. Ma quell'Europa ora è appena il 5% della popolazione mondiale e nella sua composizione in molti paesi davvero poco europea. Guardiamo il mondo con gli occhi di un mondo minoritario, in decomposizione e in declino, certamente dotato di enormi capacita di esercitare ferocia e violenza, ma che è restio ad accettare il proprio canto del cigno e la propria marginalità. Quindi ancor più pericoloso proprio per questo.
Il mini conflitto India Pakistan se non rimanesse confinato alla scaramuccia di confine potrebbe riguardare 1 miliardo e 700 milioni di persone. Ovvero più di 4 volte superiore alla popolazione della EU. Dovrebbe fare pensare anche il fatto che gli stessi USA e la UE stanno guardando ai fatti indo pakistani come uno spettatore politicamente passivo e in balia degli eventi. Mentre Gran Bretagna, Francia e paesi nordici del vecchio continente sono sempre meno nazioni di europei e sempre più di popolazioni africane, arabe, indiane, pakistane e musulmane. Allora quando scrivi che Quote:
c'è poco che i comunisti possono fare politicamente
è corretto se l'ottica dei comunisti è quella che un soggetto di classe, la classe operaia dell'Occidente e dell'Europa debba svolgere in quanto avanguardia. Il mito della classe operaia, non solo è un mito, è per di più un mito dell'opera civilizzatrice del colonialismo degli europei, dunque un mito della bianchezza e di un modo di produzione che si è sviluppato unitariamente espandendosi a cerchi concentrici. Persistendo in questa ottica non solo i comunisti non hanno nulla da fare nell'immediato, ma non lo hanno in linea storica generale.

Dal 7 ottobre e dal Sahel ondate discontinue di un moto rivoluzionario determinato dalla crisi di un modo di produzione sta scuotendo il mondo e prova a presentare il conto della storia all’Occidente. Trova il suo riverbero anche qui e proprio tra quelle generazioni che fino a poco tempo venivano derise e insultate anche da settori di compagneria con il termine "gretine" e ritenute al guinzaglio del padrone. Oggi l’estblishment liberale non accarezza più la piccola Greta che nel frattempo è cresciuta e si è dimostrata non essere una "bamboccina". Proprio tra i "gretini" trovi in Nord Europa le componenti più radicali di una contestazione che contro il genocidio di un popolo per conto del colonialismo occidentale occupa porti e le spedizioni del Maersk. Certo inconcludenti, raffazonati, confusi, episodici, tutto quel che si vuole. Ma si muovono deterministicamente lungo il solco tracciato da una crisi generale di un modo di produzione che sta generando i suoi momentum rivoluzionari che poi non possono che trovare dopo anche il loro riverbero qui in Occidente.

D'altronde, per quanto riguarda gli USA e il trumpismo, ha perfettamente ragione Ebrahim Rasools Ambasciatore del Sud Africa negli Stati Uniti invitato poche settimane fa a lasciare il paese perchè "persona non grata" dall'Amministrazione USA. Cito il brillante sudafricano che coglie nel segno uno dei sensi delle cose: "...La seconda discontinuità è che, a mio avviso, quello che Donald Trump sta lanciando è un assalto all'incombenza, a coloro che sono al potere, mobilitando un suprematismo contro l'incombenza in patria e credo di averlo illustrato anche all'estero. Quindi, in termini di assalto suprematista all’incombenza, lo vediamo nella politica interna degli Stati Uniti, il movimento MAGA, come risposta non semplicemente a un istinto suprematista, ma a dati molto chiari che mostrano grandi spostamenti demografici negli Stati Uniti, in cui si prevede che l'elettorato votante diventerà bianco al 48% e che all'orizzonte si profila la possibilità di una maggioranza di minoranze..".
E con questo un ulteriore elemento strutturale verso la linea segnata di possibili scenari di una nuova guerra civile americana . Ora secondo me il perseverare in una tesi storica errata, di centralità del soggetto di classe rivoluzionario nella metropoli e l'aspettare che esso si materializzi, non potrà che risultare impotente a quel razzismo come risposta delle classi occidentali accomunate dalla produzione di valore e della rapina coloniale ora però alle prese con la propria comune rovina che traspare anche dal commento di "Lorenzo".
La storia, che non si ripete mai, ha già avuto il suo Gaio Sempronio Gracco espressione del punto di vista conflittuale della pleble contro la classe dei patrizi. Fu trucidato proprio per mano di una rivolta plebea che nel difendere il proprio punto di vista di classe conflittuale, non poteva che difendere il proprio privilegio di cittadinanza nei confronti delle regioni nord africane dell'Impero.

Allora se i comunisti cosa possono fare qualche cosa, perchè le circostanze della storia lo consentono, è proprio smettere di considerare USA/Europa e l'Occidente se non per il suo residuale di violenza coloniale accumulata ponendoci al servizio per la sua più spietata critica decolonizzando gli schemi ideologici che appartengono alla comune tradizione fondata nel 1848.
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Lorenzo
Monday, 12 May 2025 09:23
Articolo interessante e in ampia parte condivisibile. Vorrei solo accennare un paio di punti in cui mi trovo in disaccordo coll'autore e colla sua impostazione marxista.

Primo, la crisi statunitense non trova le sue radici nelle leggi impersonali del movimento del capitale ma nell'avidità della finanza apolide che ha impostato la parabola globalizzatrice allo scopo di moltiplicare i suoi profitti, e che in regime plutocratico (e nel contesto d'una razza e d'una società mediatizzate e decadenti) è riuscita ad imporre i propri interessi -- per quanto scopertamente contrari a quelli dello stato e della società.

Secondo, la prospettiva di gran lunga più promettente da un punto di vista rivoluzionario non consiste nella spontanea risurrezione di fantasmagorici nuclei d'aggregazione sociale (che voi stessi avete devastato promuovendo l'invasione extracomunitaria), ma nella guerra, la guerra e poi ancora la guerra. Senza le catastrofi delle guerre afromediorientali e filogiudaiche lanciate dall'impero a stelle e strisce, oggi il mondo non sarebbe multipolare. Una vittoria della Russia in Ucraina sarebbe un colpo mortale per la NATO e l'eurodittatura.

Sono solo i prodromi della guerra mondiale in preparazione. E' questo l'elemento forte che congiunge epoca ed opera dei Lenin e degli Hitler al presente, che può infrangere la macrostabilità del sistema e contemporaneamente restituire al gregge svirilizzato la ferinità di cui è stato orbato da 80 anni di benessere e d'ideologie emancipative.
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Michele castaldo
Monday, 12 May 2025 08:22
Bordiga e IL PARTITO STORICO DELLA CLASSE OPERAIA, metafica allo stato puro caro Raffaele.
Michele Castaldo
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Michele castaldo
Monday, 12 May 2025 08:19
Caro Raffaele Sciortino,
il passato non ha futuro e l'attuale crisi generale del modo di produzione capitalistico non ha niente in comune con gli scenari del '900.
Sicché ipotizzare comportamenti politici come quelli determinati da un Lenin o da un Bordiga, vuol dire portare a spasso il cane.
Tra l' altro un comunista, quale ancora ti richiami, dovrebbe sapere che sono i fatti a produrre dirigenti e teorie, non l'inverso.
Che c'entrerebbe oggi un Lenin che di fronte alla lotta dei contadini obbliga il Partito a cambiare posizione? Oppure il Lenin che scioglie l'Assemblea costituente, o il Lenin che fu costretto a sparare sui marinai figli di contadini che a Cronstadt rivendicavano il diritto di commercializzare i prodotti agricoli per arricchirsi? E che c'entra - in una fase di caos storico del mdpc - il tirare in ballo il Bordiga del proprio quando stiamo avendo la dimostrazione che tale classe non può in alcun modo essere autonoma, indipendente e similarita'?
A che pro - domando - portare a spasso il cane?
Michele Castaldo
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Michele castaldo
Monday, 12 May 2025 08:19
Caro Raffaele Sciortino,
il passato non ha futuro e l'attuale crisi generale del modo di produzione capitalistico non ha niente in comune con gli scenari del '900.
Sicché ipotizzare comportamenti politici come quelli determinati da un Lenin o da un Bordiga, vuol dire portare a spasso il cane.
Tra l' altro un comunista, quale ancora ti richiami, dovrebbe sapere che sono i fatti a produrre dirigenti e teorie, non l'inverso.
Che c'entrerebbe oggi un Lenin che di fronte alla lotta dei contadini obbliga il Partito a cambiare posizione? Oppure il Lenin che scioglie l'Assemblea costituente, o il Lenin che fu costretto a sparare sui marinai figli di contadini che a Cronstadt rivendicavano il diritto di commercializzare i prodotti agricoli per arricchirsi? E che c'entra - in una fase di caos storico del mdpc - il tirare in ballo il Bordiga del proprio quando stiamo avendo la dimostrazione che tale classe non può in alcun modo essere autonoma, indipendente e similarita'?
A che pro - domando - portare a spasso il cane?
Michele Castaldo
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