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Complessità del mondo nuovo

Recensione di “Nessuno controlla il mondo” di C. A. Kupchan, il Saggiatore

Pierluigi Fagan

complessita4Charles A. Kupchan insegna Affari Internazionali alla Georgetown University ed  è membro del Council of Foreign Relation. Già membro dello staff di Clinton per le questioni europee ed assistente a Princeton, pubblicò anzitempo (2002) “La fine dell’era americana”, (Vita e pensiero, Milano, 2003). Scrive ovviamente per le principali riviste di affari internazionali. Il suo libro è di immediata lettura, non lungo come la materia tende a richiedere, necessariamente schematico in alcuni passaggi, poggiato su più di una dozzina di pagine di scelta bibliografia. La sua impostazione è realista (K. Waltz). Il tema è come da titolo, non ci sarà un secolo ordinato da un singolo perno geopolitico il che porta ad un potenziale disordine. Il mondo allora dovrà autogovernarsi in concerto. All’Occidente si prescrive di: a) rendersi cosciente della fine irreversibile della sua egemonia; b) rivedere i propri assetti interni e tenersi unito; c) a gli USA, nello specifico, si raccomanda di inaugurare un populismo progressista razionale in politica interna ed in quella internazionale un selettivo disimpegno militare, un maggior governo dei mercati sregolati (globalizzazione, finanza), un riconoscimento delle altrui sovranità a prescindere dal tipo di modello politico-economico autonomamente sviluppato, purché tali varie forme di governo siano in favore della relativa popolazione. Il pubblico del libro, ovviamente, è primariamente l’élite colta ed informata americana.

L’autore spende due capitoli per ricostruire il dominio occidentale degli ultimi tre secoli. La nascita della nuova forza occidentale viene spiegata con la debolezza delle istituzioni politiche continentali ancora al trapasso dal feudalesimo. La borghesia, le città, gli scambi commerciali ed i servizi bancari annessi, l’inversione di peso tra Europa meridionale stretta a lungo nella morsa del cattolicesimo alleato all’aristocrazia e l’Europa settentrionale più vocata alla libertà, diedero forma alla svolta. Poi, la Riforma ovviamente, le guerre di religione che se da un parte in quanto necessità di spesa militare portarono ai regimi di tassazione ma anche di condivisione di potere con la rampante borghesia delle città ed in definitiva al rafforzamento dello stato, dall’altra, una volta verificato che né i cattolici, né i protestanti potevano recedere dalle loro convinzioni o eliminare quelle degli altri, favorirono l’accettazione di prime forme di tolleranza e pluralismo che poi si riflessero anche nella successiva fase politica. Nuova classe sociale (la borghesia), il nuovo ambiente cittadino, le gilde, le unioni nord-europee tra città (le varie leghe), la competizione che sviluppò le tecniche tra cui quelle d’armi e di navigazione, saldarono i premi pezzi della modernità. Dopodiché, il nuovo ordine westfaliano (1648) che dà il via alla seconda fase: la competizione tra nazioni.

In pratica, una crisi dei poteri verticali favorì l’espansione orizzontale e con essa la crescita di varietà ed interrelazioni (cooperative e competitive) che aumentarono la complessità creativa che giunse a sintetizzare il modello di econocrazia altrimenti noto con il doppio nome di capitalismo e democrazia rappresentativa (o liberale).

Simmetricamente, al contrario, si spiega la perdita di potenza dell’Impero ottomano, dell’India e della Cina che per lungo tempo, come Pomeranz ha dimostrato, è stata superiore all’Europa salvo poi involvere parallelamente all’evoluzione degli occidentali. Il Giappone invece, subisce una evoluzione simile all’Europa. Dal dominio della casta militare dei samurai (e dello shogun, periodo Tokugawa) alla restaurazione Meiji del 1868 che porterà industrializzazione e nazionalismo ma anche fruttuosi contatti cooperativi con l’Occidente.   Gli ottomani mantennero una forte connessione tra fatto politico e fatto religioso mantenendo alta l’influenza degli ulema e non arrivando mai a distinguere lo spirituale dal temporale (differenza semantica non presente nell’arabo). La forte centralizzazione, la verticalità, portò a ristagno e stagnazione. La stessa che per motivi diversi rallentò la Cina che ebbe poi un traumatico impatto nel contatto militare e coloniale con l’Occidente. La stessa verticalità si ebbe in India con la dinastia Moghul.

Verticalità sclerotiche contro orizzontalità dinamica, questa la spiegazione analitica di Kupchan per spiegare il dilagare occidentale coloniale ed imperiale. Si realizza così la prima vera forma di sistema mondiale integrato, prima con i britannici e gli europei come centro propulsore, poi con gli Stati Uniti. Lo studioso americano sottolinea come l’entità occidentale avesse una piena collimanza tra potenza (economica e militare) e forza ideologica, presentandosi come “un sistema”, modello per tutto il mondo. Gli occidentali, non solo formarono la prima forma-mondo ma gli diedero il riflesso della loro identità nelle istituzioni commerciali, produttive, giuridiche, diplomatiche.

Poi? Il brusco tornante storico è introdotto nel 4° capitolo non senza un malcelato piacere a sottolineare lo svarione di Fukuyama, un vero “luogo comune del godimento critico” per tutti coloro che subirono l’irrazionale trionfo di uno di quei momenti di euforia che toccano  i immagine 11meno avveduti tra gli intellettuali e soprattutto la festante corte di chi ne celebra il presunto ingegno. La “fine della storia” durò giusto il tempo di rendersi conto quale altro capitolo la Storia s’era messa a scrivere. La fotografia di Kupchan è semplice, il primato economico occidentale è in via di decrescita, quella dell’”altro mondo” in crescita sostenuta, che sia il 2030 o il 2050, c’è prima il sorpasso poi il distanziamento del “Rest” vs “the West”. Esemplificative, per quanto note a chi si occupa dell’argomento, le semplici tabelle dello studioso americano. Il primato militare invece è ancora ed ancora per un bel po’ rimarrà, saldamente in mani USA. Ma i dati di prospettiva, ad esempio quelli sulla produzione di acciaio o della cantieristica navale sia per la Cina, sia per l’India (di cui comunque si ritiene, al momento, imprevedibile l’allineamento geopolitico), dicono che potrebbe non esser così a lungo. Del resto, questo sfasamento tra economico e militare, si registrò già nel passaggio precedente dalla leadership britannica a quella americana. Il militare costa e se la fabbrica della ricchezza stenta è questione di tempo prima che stenti anche il militare.

Ogni studioso, scrive certo per il suo pubblico generale ma spesso, anche ed a volte soprattutto, rivolgendosi al pubblico specifico della sua disciplina, inclusi gli altri studiosi. Nel 5° capitolo, Kupchan, disillude quindi coloro i quali, da McNeill in poi, hanno posto fede nell’idea che la via occidentale alla modernità fosse l’unica possibile,  anche se interpretata da altri nuovi leader non occidentali. “Il mondo futuro esprimerà molteplici versioni della modernità, è non sarà politicamente omogeneo” sentenzia l’americano. Le condizioni iniziali dello sviluppo del sistema occidentale, i contesti culturali, le condizioni sistemiche di un mondo precedentemente non interdipendente e quello attuale tracciato da un immagine2gomitolo di interdipendenze, dicono che ciò che è stato non ha ragione esser inquadrato  come nulla di più che un modello vincolato spazio-temporalmente, cioè non esprimente alcuna legge generale. Gli stati centralizzati come la Cina, non solo mostrano la stessa preoccupazione di far star meglio o bene i propri cittadini come nelle “democrazie” occidentali ma a differenza di queste, hanno il vantaggio di poter intervenire facilmente e velocemente a sciogliere i nodi di complessità che sempre più si formano e si verranno a formare. Anche le democrazie quali il Brasile o l’India o la Turchia (?) non seguiranno il resto del modello occidentale solo perché ne condividono (in parte) l’impianto della decisionalità politica, poiché saranno vincolate al loro specifico interesse geo-politico. Si presenta quindi un panorama politico assai plurale, fatto di regimi autoritari ed autocratici (Cina, Russia, sceiccati del Golfo), teocratici (alcuni casi  del Medio Oriente), personalisti (Africa) e populisti (Sud America).

Kupchan procede nell’analisi delle varie formule, dettagliandone i sottogeneri, i punti di forza e debolezza secondo un’ottica realista. Nessuno di questi sistemi mostra particolari segnali di crisi, ciascuno di essi risponde non tanto ad una astratta logica della comparativistica politica ma a ragioni più dense e radicate fatte di religione, storia passata, geografia, interesse geo-politico. Tale interesse, come dice il nome, accoppia ragioni politiche e ragioni geo-storiche e tende a formare un “general dissensus” ovvero una divergenza pronunciata di pluralità eterogenee, ognuna con le proprie ragioni e tradizioni, ognuna col proprio interesse specifico ad unirsi con il nemico del suo nemico, quello dall’altra parte dello stato immediatamente confinante, quello più complementare, quello con il quale non si corre il rischio di esser fagocitati. Insomma quello con cui è possibile un sano rapporto di condivisione di interessi basati sulla piena reciprocità. Sta di fatto che, tutti insieme, questa massa critica di mondo che non è Occidente, è concorde nel ritenere finita l’era delle grandi egemonie ed aperta quella della multipolarità permanente.

A fronte di questa nuova partita, secondo Kupchan, l’Occidente dovrebbe innanzitutto rinserrare le sue fila per presentarsi come soggetto se non unico almeno altamente coordinato. L’asse giapponese-americo-europeo, per quanto vada incontro alla contrazione di potenza prevista, è in grado di pesare ancora decisivamente e di almeno gestire i tempi ed i modi del passaggio al nuovo assetto mondiale. Kupchan, però, individua dinamiche che vanno in senso opposto a questo “rinserrare le fila”. Si comincia con la presidenza Bush che ha sostituito il immagine3tradizionale multilateralismo con un muscolare ed inutile unilateralismo. Obama ha ritessuto i legami ed ha inaugurato una politica assai meno accomodante con la Cina (al tempo della scrittura del libro non era scoppiato il problema ucraino e l’offensiva anti-russa). In Europa, il processo di unificazione ritenuto essenziale per costituire poi una unità di secondo livello , è entrato in crisi (questo Kupchan legge nel 2012, oggi a maggiore ragione). Rigettato il tentativo di darsi una carta costituzionale (2005), l’Europa si sta ri-nazionalizzando. Svezia, Olanda, Finlandia, Ungheria hanno prodotto nuovo euro-scetticismo e partiti nazionalisti anti-immigrazione. Il Belgio, il Regno Unito la Spagna  sono attraversati da fremiti secessionisti (valloni vs fiamminghi, Scozia, Catalogna). L’euroscetticismo avanza in Germania, così come  in Italia e Francia. Alla crisi che è economica, finanziaria, demografica, migratoria, gli europei danno sempre più ipotetica soluzione in ordine sparso, scaricandosi i problemi l’un l’altro. Impensabile l’assunzione unitaria di rischi e decisioni concernenti una forte politica estera comune attiva (tra cui eventuali impegni bellici del tutto fuori portata degli europei, sia perché non c’è il necessario supporto finanziario, sia perché non c’è la mentalità, sia per totali divergenze strategiche). Una Europa ripiegata su se stessa, impotente politicamente, economicamente e militarmente, frazionata di nuovo nel rissoso nanismo stato-nazionale, non è utile a gli USA e questi, anche loro alle prese con una più attenta gestione dei costi-ricavi, potrebbero anche rivedere la loro politica NATO.

Se gli stati europei sembrano tendere alla non unione, gli americani tendono alla divisione. Il sistema binario ovvero quello per il quale due corpi (repubblicani, democratici) ruotavano reciprocamente ed intorno ad un immaginario centro, ha ormai da tempo lasciato il posto a quello bipolare con tendenze centrifughe. Al di là delle paralisi del Congresso nella politica interna, al di là del non prendere alcuna decisione su i temi più caldi, indecisione frutto di una radicalmente opposta visione, tra l’altro amplificata dal circuito mediatico sempre interessato al format “sangue&arena”, è la politica estera quella che sconta più gravemente la paralisi politica.  La sommatoria dei problemi (globalizzazione, paura di perdere il mondo, di non capirlo, di non poterlo maneggiare, le diseguaglianze sempre più pronunciate, il divario tra mezzi e costi dell’integrazione delle varie etnie componenti, il sistema di finanziamento della politica ormai interamente a carico delle lobbies, un pronunciato elitismo di contro ad una disaffezione generalizzata verso la politica) spesa militare mondiale sipriporta, nella massa elettorale, alla crescita dell’effetto “tana”. Rinchiudersi nelle vaste terre interne, semplificare, ignorare, rifiutare la complessità minacciosa dei nuovi tempi.

A questo punto, Kupchan buttà lì il suo “dover essere”, cosa dovrebbe fare l’Occidente per transitare con meno danni possibili (considerando realisticamente che non saranno nulli) , al nuovo stato di mondo. Le idee sono principalmente rivolte al contesto americano e sono dettate da un sano realismo che, nel paese culla dell’idealismo pragmatista, è merce poco compresa.

In pratica, l’Europa dovrebbe adottare un populismo progressista ideale che vanti i pregi dell’Unione e tenda a creare consenso verso una maggior proiezione verso l’esterno. Gli USA dovrebbero adottare un populismo progressista razionale che cambi l’atteggiamento sconsiderato del “laissez faire”, irreggimenti la finanza, riveda l’atteggiamento acritico verso la globalizzazione, gestisca la necessaria e vitale immigrazione, riveda il sistema di finanziamento della politica e l’intera macchina elettorale per riportare i cittadini alla politica, punti a ritirarsi strategicamente da molti e costosi impegni internazionali soprattutto militari, si dimentichi delle strategie di “nation building” e “regime change (inconcludenti le prime, pericolose le seconde perché il nuovo può essere peggio del vecchio, vedi Libia). Inoltre, si consiglia di allargare i processi di delega: che il Mediterraneo sia un problema degli europei, il Mastates with the highest military expenditure in 2012r della Cina dei giapponesi (da cui gli attuali sforzi del governo Abe di rivedere il famoso articolo 9 della Costituzione), il Medio oriente dei medio-orientali (da cui lo sdoganamento dell’Iran).  Lo wishful thinkig book dello studioso americano, dice che l’Europa dovrebbe essere e fare di più, gli USA, di meno.

Una considerazione interessante vien fatta sulla Cina o meglio sul nostro atteggiamento verso la Cina. Equalizzare le posizioni è il drive ad esempio dell’IMF che consiglia di portare ad una minor distanza i mercati del lavoro occidentale e cinese o asiatico in genere. Bene. Però Kupchan segnala che equalizzazione significa anche prendere ciò che di buono c’è nell’essere Cina: pianificazione strategica di lungo periodo, regolazione dei mercati, sostegno statale alla competitività, investimenti statali potenti in infrastrutture, nell’educazione di massa, potenziamento del sentimento comunitario particolarmente scarso nell’Impero dell’individuo1. Insomma, un po’ più stato ed un po’ meno mercato, meno individuo e più comunità. Capirete allora perché s’è detto che il realismo è merce poco richiesta nella terra in cui Obama è un socialista e ci si spara in chiesa.

Un’altra considerazione interessante è a proposito di fatti che non conoscevo (quindi da verificare). Pare che Francia e Gran Bretagna (su iniziativa britannica mossa da “spendiamo meno nel militare”) abbiano discusso di usare le proprie portaerei in multiproprietà, sviluppare una brigata assieme, aprire laboratori comuni sul nucleare ed addirittura unire i due arsenali. Ora, l’interesse per l’idea è che quando si dice che uno dei primi moventi del progetto unionista europeo fosse il mettersi nelle condizioni di non potersi più far guerra reciprocamente, la world military expenditure by region in 2012soluzione poteva e potrebbe ancora essere questa: uniamo gli eserciti. Se uno stato nazione non ha il controllo del suo esercito, certo non può fare guerra all’altro. Non c’è alcun motivo che porti, per risolvere il problema della guerra, al dover mettere assieme la moneta, si dovevano mettere insieme gli eserciti e non la moneta. L’idea poi di risparmiare tutti un po’ di soldi e dotarsi di una forza esclusivamente difensiva, magari indipendente dalla NATO, non è male in sé.

Si arriva così alle conclusioni. Kupchan avverte ancora una volta che: a) l’Occidente perde e sempre più perderà sia il primato materiale che ideale nel mondo; b) il mondo avrà una pronunciata pluralità ed eterogeneità di soggetti; c) mai, nella storia planetaria, si è avuta una rete così estesa di interdipendenze. Ne deduce che se nella prima fase della storia globalizzata, si è avuto prima l’ordine bipolare, poi brevemente quello unipolare, sarà la prima volta che avremo un globo unico ed interconnesso con player eterogenei e plurali in un “disordine” complesso. In realtà, il concetto di disordine è qui in veste di giudizio. Non è affatto detto che quello complesso sia un ordine meno ordinato di quello fissamente gerarchico, anzi, in genere è il contrario (vedi il mondo fisico, chimico, biologico sebbene questi mondi non siano in analogia con quello umano). L’interesse Occidentale dovrebbe allora esser quello di favorire una transizione pacifica al nuovo scenario, impostando le regole assieme ad altri, così come si fece a Westfalia, a Vienna, a Versailles, a Bretton Woods. Né i modelli di politica interna (il consenso tra “democrazie”), né quelli economici (l’interesse alla comune rete dei commerci2) possono fungere da ordinatori, l’unico ordinatore possibile è la logica sistemica delle relazioni internazionali, dell’equilibrio di potenza, la logica geo-politica.

immaginedSecondo quale parametro definire i membri della comunità internazionale che debbono contrattare il nuovo ordine mondiale? Kupchan, realista difensivo3, propone il concetto di “governance responsabile”. Sono soggetti a governance responsabile, quegli stati che, non importa in che modo (autocratico, personalista, populista e financo teocratico), “s’impegnano a promuovere il benessere e la dignità dei propri cittadini e non violino regolarmente il diritto internazionale compiendo atti d’aggressione verso altri paesi”. Insomma, abbandonare la retorica della superiorità della democrazia liberale, dei diritti liberali e l’adeguamento forzoso ai propri canoni di riferimento. Non si esportano le civiltà, le costituzioni, le storie; ognuno ha l’inalienabile ed insindacabile diritto a sviluppare internamente la propria civiltà, la propria costituzione materiale e formale, la propria storia. Quello che attiene all’interesse planetario è solo riconoscersi tra interlocutori che hanno legittimità e la legittimità è data dal rappresentare in qualche modo i reali interessi di questo o quel popolo e non andare in giro a molestare il prossimo. Compromesso, tolleranza, pluralismo, i tre ingredienti che risolsero il difficile passaggio alla modernità in Occidente, secondo Kupchan, dovrebbero essere anche quelli che accompagnano la nuova transizione di fase.

Lo studioso americano chiude rimarcando, come altri hanno fatto ormai da tempo, che la temuta scomparsa dello stato-nazione non sembra d’attualità (forse si proietta la crisi dello stato-nazione europeo sull’universale com’è tradizione di questa parte di mondo che si ritiene “il mondo”), in realtà sta accadendo l’esatto contrario. La presenza della pluralità eterogenea dovrà riflettersi, nel suo peso proporzionale, nelle organizzazioni multilateriali di governance settoriale (Consiglio di sicurezza ONU, IMF, WB), potenziando il G20 e prevedendo una sua versione ristretta (un nuovo G7: USA, EU, Jap, Bra, Chin, Ind, Rus) per le questioni più gravi ed urgenti. Altresì si dovranno potenziare, come già sta accadendo, le organizzazioni regionali (Asean/Asia, Gcc/Golfo, Ecowas/Africa, Unasur/Sud America), rivedere i  principi della globalizzazione e regolamentare quelli finanziari. A gli USA rimarrebbe il compito di ristrutturare anche la propria filosofia d’azione sul mondo e prima ancora rivedere il proprio disordine interno, evitando di rinvigorire gli istinti libertariani (tra cui i Tea Party) che puntano all’isolazionismo. Molto della transizione pacifica o bellica ai tempi nuovi, dipenderà dagli Stati Uniti, dall’accettazione o meno, di una transizione alla contrazione di potenza.

Terminiamo qui senza aggiungere giudizi o critiche se non che il libro è ben fondato ed argomentato. Seguirà la lettura dell’ultimo Kissinger (Ordine mondiale) che ha ancora una suo peso nell’ambiente dei decision maker americani ed alla fine torneremo su tutta la faccenda con un nostro articolo che tenterà analisi e previsioni sulla nuova complessità del mondo.

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Note
1 Servizio civile obbligatorio, comunità virtuali, democrazia diretta potenziata, attivismo ambientale.
2 Che l’autore, giustamente, rileva esser uno dei motori dei possibili conflitti.
3 Kupchan, nell’ambito delle teorie di politica internazionale,  dovrebbe appartenere alla scuola moderna realista difensivista (per qualche strana ragione non ha una specifica voce Wikipedia) : https://en.wikipedia.org/wiki/Defensive_realism#cite_ref-20. E’ membro dell’Advisory board della fondazione Italianieuropei
> La recensione che ne diede il manifesto, l’anno scorso (qui)

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