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Grecia: la lotta continua se c'è il piano B

di Marco Palazzotto

3602362Il recente articolo di Tommaso Baris sulla crisi europea (lo trovate qui), ed in particolare sui fatti della Grecia, rappresenta una buona occasione per analizzare alcune problematiche che investono il nostro paese, e il nostro continente, a partire ormai dal biennio 2007/2008. In altre occasioni nel nostro sito abbiamo affrontato il tema della crisi greca (qui l’articolo di Roberto Salerno e qui quello di Giovanni Di Benedetto), ma ci siamo limitati a pubblicare pochi contributi in attesa della conclusione di alcuni passaggi decisivi. Oggi, con la capitolazione di Tsipras dopo l’ultimo accordo di “salvataggio” della Grecia - e grazie allo stimolo del contributo di Tommaso della scorsa settimana - ritengo sia importante redigere un primo bilancio dell’esperienza di Syriza e, con l’occasione, evidenziare alcuni punti sulla situazione politica ed economica attuale, tentando di elaborare alcune soluzioni politiche.

Parto subito con i due problemi principali che trovo nell’articolo appena citato e che pare rappresentino elementi comuni alle diverse anime di quel che rimane della sinistra nostrana. I due problemi principali riguardano: 1. la dimensione geografica e sociale dell’organizzazione di una forza politica di sinistra in grado di contrastare l’attuale potere europeo; 2. le conseguenti politiche economiche da attuare per cercare di rendere più decente la vita di milioni di uomini e donne in Europa, oggi povere o al limite della povertà a causa anche dell’austerity. 

 

Sgombero subito il campo di analisi relativamente al secondo problema, considerato che l’argomento è stato già affrontato in questo sito con una critica alle nuove proposte legislative di SEL e M5S e, per chi vive a Palermo, con un prezioso contributo dell’economista Giovanna Vertova durante il seminario dello scorso 30 giugno (qui una breve descrizione del seminario). Sui presupposti teorici che hanno portato un certo numero di intellettuali ad elaborare queste proposte rimandiamo invece a questo articolo sulla teoria del valore-lavoro, scritto in occasione di due seminari organizzati quest’anno sul testo di Giorgio Gattei , Storia del valore lavoro, Giappichelli 2011. In queste occasioni abbiamo già evidenziato l’inutilità di una proposta di forme di sostegno al reddito. Abbiamo sottolineato addirittura la pericolosità delle misure nell’accelerare un processo di spaccatura nel mondo del lavoro, rischiando di realizzare una riforma Hartz “all’italiana”. Più che il reddito andrebbe affrontato un tema più importante che è quello della disoccupazione, quindi del lavoro, il quale può essere risolto solo da un intervento statale, un soggetto pubblico che si proponga quale “datore di lavoro di prima istanza”, magari facendo lavorare meno e tutti. Un sussidio semmai andrebbe erogato ai disoccupati in attesa, nella fase di realizzazione della piena occupazione. Tra l’altro questo nodo dovrebbe essere cruciale nella discussione a sinistra, dal momento che rappresenta l’elemento principale del ricatto politico nel conflitto capitale-lavoro. Ma il problema dell’occupazione è un tema difficile, e se non si mette in discussione il contesto europeo si rischia di vedere il dito e non la luna.

Riguardo alla questione della dimensione geografica delle risposte alle politiche di austerità e “neoliberiste”, farò un passo indietro per sostenere le mie argomentazioni, cercando di fornire un quadro molto sintetico del capitalismo moderno per spiegare le motivazioni che portano a percepire come erronea l’estensione europea del conflitto.

Un certo filone di pensiero a sinistra negli ultimi decenni ha offerto una lettura del capitalismo moderno basata su diversi assunti a parere nostro poco realistici. Assistiamo, secondo queste vulgate “post-anni ’70”, al dispiegarsi di un nuovo capitalismo “apolide” non legato alla dimensione nazionale ma ad una dimensione geografica transnazionale, o globale. Gli stati-nazione smettono di rappresentare i dispositivi di potere capitalistico per lasciare il posto ad istituzioni che operano a livello mondiale fuori appunto da logiche di tipo nazionale, come invece succedeva nella fase “fordista” ed imperialistica del novecento.

Una sponda critica a questo modo di vedere ce la offre proprio Yanis Varoufakis che nel suo saggio “Il Minotauro Globale” (tratto da un lavoro più complessivo intitolato Modern Political Economics scritto insieme a Joseph Halevi e Nicholas Theocarakis: una recensione di Vincenzo Marineo la trovate qui), spiega che dopo la rottura degli accordi di Bretton Woods abbiamo assistito ad un aumento di afflusso di capitali dall’estero verso Wall Street, evidenziando (si badi bene: stiamo analizzando gli ultimi 40 anni) una sempre maggiore concentrazione di capitali verso gli USA. Varoufakis usa direttamente le parole di Paul Volcker, presidente della Federal Reserve ai tempi di Carter e Reagan, per spiegare tale fenomeno:

Quello che tiene insieme [la storia di successo dell’economia USA] è un massiccio e crescente flusso di capitale dall’estero, che assomma a oltre 2 miliardi di dollari ogni giorno lavorativo e che continua ad aumentare […] L’aspetto più arduo di tutto ciò è che questo quadro apparentemente rassicurante non può andare avanti all’infinito. Non so di alcun paese che sia mai riuscito a consumare e a investire a lungo il 6 per cento in più di quanto produce. Gli Stati Uniti stanno assorbendo circa l’80 per cento del flusso netto di capitale internazionale”.

Sappiamo cosa ha comportato questa politica, ovvero lo scoppio delle bolle come quella della dot-com e poi quella dei sub-prime.

Questo fenomeno che spesso viene definito come “eccesso di finanziarizzazione” del capitalismo non ha di fatto modificato i rapporti classisti e geopolitici di sfruttamento, anzi dinamiche novecentesche sono state maggiormente accentuate come lo spostamento della produzione (altro che “morte dell’operaio di massa”) dagli Stati Uniti verso l’oriente per l’utilizzo di quell’enorme “esercito di riserva”. Semmai la finanziarizzazione ha comportato una modificazione del ruolo del sistema finanziario e bancario nel circuito monetario della produzione sociale (per approfondire il tema si consiglia la lettura di questo articolo di Marco Veronese Passarella).

Tali eventi sono stati quindi influenzati, come afferma lo stesso Varoufakis, da una certa volontà della politica statunitense, tesa a plasmare il capitalismo globale cercando di mantenere un ruolo egemonico del paese americano attraverso il riciclo delle eccedenze mondiali dei capitali.

In Europa questo andamento si è tradotto in una sempre maggiore centralizzazione dei capitali verso il centro-nord europeo, in un capitalismo ancorato a vecchie dinamiche: mercantilismo e conseguente “colonizzazione economica”. Sia nell’interpretazione post-keynesiana della crisi europea (principalmente squilibri delle bilance dei pagamenti di parte corrente e assenza di meccanismi di riequilibrio delle eccedenze; si veda ad esempio Cesaratto in Oltre l’Austerità, 2012); sia in quella marxista (crisi da sovrapproduzione per eccesso di indebitamento, centralizzazione dei capitali verso il centro-nord Europa, scoppio del debito estero e del debito pubblico per sostenere l’accumulazione e la produzione di extra profitti, come Rosa Luxemburg e Michał Kalecki insegnano), si nota una tendenza che non è affatto molto diversa rispetto al secolo scorso: tendenza che ha prodotto il risultato di “risuscitare un polo anche imperialistico imperniato sulla Mitteleuropa”, come hanno evidenziato Bellofiore e Halevi in questo scritto del 2006.

Il ruolo del governo tedesco in Europa, e quindi del suo capitalismo, è quello di incentivare e mantenere condizioni di instabilità e di crisi a vantaggio del proprio settore manifatturiero, come ci illustra quest’ultimo rapporto del Centro Europa Ricerche.

Pertanto i concetti di “globalizzazione” - come i suoi apologeti la interpretano - e “apolidia” del capitale, perdono di significato.

Come rispondere allora da sinistra a questo capitalismo ancora legato ai dispositivi statuali? Sicuramente una strada percorribile non è la costruzione immediata di un soggetto europeo, che richiederebbe tempi lunghi e difficoltà enormi visti i rapporti di forza oggi in campo. Un modo più efficace potrebbe essere quello dell’organizzazione in una dimensione nazionale, meglio se coordinata a livello prima mediterraneo (per contrastare lo strapotere in Europa delle potenze del capitalismo europeo e d’oltre oceano) e poi europeo, e infine (magari!!!) internazionale. Già Marx ed Engels nel “Manifesto” suggerivano questa strada e successivamente Marx, nella sua Critica al Programma di Ghota, nel 1875 scriveva:

In opposizione al Manifesto comunista e a tutto il socialismo precedente, Lassalle aveva concepito il movimento operaio dal più angusto punto di vista nazionale. S’intende da sé, che per potere avere, in genere, la possibilità di combattere, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma per la forma. Ma l’ambito dell’odierno Stato nazionale, per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente nell’ambito del sistema degli Stati. Anche il primo commerciante che capiti sa che il commercio tedesco è al tempo stesso commercio estero, e la grandezza del signor Bismark consiste appunto in una specie di politica internazionale.

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