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Costanzo Preve e il medio-marxismo (1914-1956)
Enrico Galavotti
Quei due periodi di storia che Costanzo Preve, nella sua Storia critica del marxismo (ed. La Città del Sole, Napoli 2007), chiama "medio-marxismo" (1914-56) e "tardo-marxismo" (1956-91), per lui non hanno "alcun rapporto con la teoria originale di Marx", per cui il discorso, col marxismo classico, è praticamente già chiuso. Preve rifiuta persino la rivoluzione d'Ottobre, e pensa di poterlo fare a buon diritto, visto ch'essa è fallita.
In sostanza l'ultimo Preve riteneva d'essere l'unico interprete adeguato di Marx, l'unico a non averlo né frainteso né censurato né strumentalizzato. D'altra parte lui stesso se ne vantava: "la mia riesposizione critica è talmente diversa e talmente 'dirompente' in rapporto a tutte le principali correnti del marxismo... da apparire non tanto 'folle' quanto strana ed eccentrica" (pp. 166-7).
Tuttavia, a fronte dei 150 anni di storia del marxismo, un minimo di umiltà o di circospezione sarebbe quanto meno desiderabile. Il fatto che il cosiddetto "socialismo scientifico" sia andato incontro a cocenti sconfitte storiche, non ci autorizza a sottovalutare le capacità intellettuali di chi ci ha preceduto o a valorizzare soltanto le idee che più somigliano alle nostre.
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Qual è il valore del lavoro?
di Moishe Postone
I profondi cambiamenti storici del recente passato - il declino dello Stato-provvidenza nell'Occidente capitalista, il crollo del comunismo e dei partiti-Stato burocratici ad Est, e l'emergere apparentemente trionfante di un nuovo ordine capitalista mondiale e neoliberista - hanno restituito tutta la loro attualità ai problemi della dinamica storica e delle trasformazione mondiale nelle analisi e nei discorsi politici della sinistra.
Ma, allo stesso tempo, questi sviluppo rappresentano per la sinistra delle sfide difficili, in quanto mettono in causa tutta una serie di posizioni critiche che sono diventate predominanti negli anni settanta ed ottanta, così come le posizioni precedenti apparse dopo il 1917.
Da un lato, visto che il crollo drammatico e la dissoluzione definitiva dell'Unione Sovietica e del comunismo europeo fanno parte di tali cambiamenti, questi sono stati interpretati come la dimostrazione della fine storica del marxismo e, più in generale, della pertinenza della teoria sociale di Marx.
Ma, dall'altro lato, gli ultimi decenni hanno mostrato che la dinamica che sottende il capitalismo (dinamica intesa sia in maniera sociale e culturale che in maniera economica) continua ad esistere ad Est come ad Ovest ed hanno ugualmente mostrato come l'idea secondo la quale lo Stato potrebbe controllare tale dinamica non era valida se non, nella migliore delle ipotesi, in maniera provvisoria. Questa evoluzione mette profondamente in discussione le interpretazioni post-strutturaliste della storia e mostra inoltre che il nostro modo di comprendere le condizioni dell'autodeterminazione democratica dev'essere ripensata.
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Il Marx di Diego Fusaro
Enrico Galavotti
Indubbiamente Diego Fusaro, astro nascente dell'attuale filosofia marxista italiana, ha avuto e tuttora ha il merito di aver aiutato a riscoprire la portata eversiva delle teorie anti-capitalistiche di quel grande economista chiamato Karl Marx.
Vogliamo sottolineare la qualifica di "economista" perché è in questo ruolo che Marx ha dato il meglio di sé, checché ne pensi Fusaro, che invece lo preferisce di più nei panni del "filosofo" o in quelli del "filosofo dell'economia", rischiando così pericolosamente di darne un'interpretazione influenzata dall'hegelismo, come d'altra parte fece uno dei suoi principali maestri, Costanzo Preve.
La vera grandezza di Marx sta invece proprio in questo, nell'aver distrutto il primato della filosofia, facendo dell'economia politica una vera scienza, e non una semplice ideologia al servizio della borghesia, com'era, in particolar modo, quella elaborata in Inghilterra, in cui dominava l'idea di considerare il capitalismo un fenomeno di tipo "naturale" e non "storico", ovvero come un evento destinato a durare in eterno e non a essere superato da una società di tipo comunista. Per l'ultimo Marx, quello interessato all'antropologia, il comunismo altro non sarebbe stato che un ritorno al comunismo primitivo in forme e modi infinitamente più evoluti, in quanto scienza e tecnica avrebbero giocato un ruolo di rilievo, assolutamente più democratico di quello che svolgono in un contesto dominato dall'antagonismo tra capitale e lavoro.
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La forma-partito nella società liquida
Ricostruire il partito comunista: elitismo intellettuale o proposta strategica di lungo respiro?
Claudio Valerio Vettraino
Dal 3 al 5 Luglio si svolgerà a Via Monte testaccio a Roma la Festa Comunista, organizzata dal Partito Comunista di Marco Rizzo e compagni, che cerca – nella palude teorica e politica italiana, di ridare voce e prospettiva ad un’analisi marxista della società capitalistica e finanziaria contemporanea.
Un tentativo ambizioso e forse titanico ma per molti ritenuto necessario, per aprire una seria e profonda riflessione sul “caos” odierno e per tentare di ridefinire un’alternativa di sistema all’attuale ordine mondiale, ridando la parola ai popoli e ai lavoratori, costruendo (assieme per esempio alla coalizione sociale di Landini e di parte della Fiom) quel fronte rappresentativo del mondo del lavoro, oggi indispensabile per ridefinire qualsivoglia azione di rivendicazione e di lotta sociale, in Italia, in Europa e nel Mondo.
Impossibile su questo, non essere d’accordo; chi scrive è del tutto convinto che questa è la strada maestra da intraprendere. Dare voce e rappresentanza ad un mondo del lavoro quanto mai diviso e frammentato, precarizzato e disperso, atomizzato ed alienato; assuefatto alla barbarie e allo sfruttamento come dati “naturali” del sistema e della vita quotidiana.
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L'origine del linguaggio e il socialismo scientifico
Enrico Galavotti
Spesso non ci si rende ben conto che, per quanto riguarda l'essere umano, non è di alcuna importanza sapere quando si è passati, sul piano del linguaggio, dai primi suoni, emessi in maniera simile alle scimmie, alle frasi di senso compiuto. Nessuno di noi si ricorda quando, da neonato, emetteva i primi vagiti. Non ci ricordiamo neppure quando balbettavamo frasi inarticolate.
Per gli esseri umani il linguaggio comincia a diventare davvero significativo quando le parole vengono memorizzate per il loro significato. In questa maniera infatti ci diventa possibile procedere alla loro rielaborazione. Il linguaggio non è che un uso intelligente delle parole. È uno strumento in più. Non si diventa più capaci di parlare quanto più ci si ricorda di tutta l'evoluzione del nostro dire.
Più ancestrale del linguaggio è la sensibilità. Vi è umanità semplicemente là dove esiste sensibilità. Un cerebroleso resta comunque una persona "sensibile" e non ci sogneremmo neanche lontanamente di eliminarlo, come facevano i nazisti coi loro disabili.
Il linguaggio può dare un significato razionale alla nostra sensibilità, può cioè renderla consapevole di sé, ma non ne aumenta la fisicità, la realtà corporea. La sensibilità può essere aumentata, cioè approfondita ed estesa, soltanto da se stessa.
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Spigolature economico-filosofiche
Sebastiano Isaia
1. Il “comunismo” di Porro e il vino di Marx
Per il liberale-liberista Nicola Porro «il comunismo» si ha quando lo Stato diventa «l’unico imprenditore» presente sulla scena economica: lo Stato “comunista” organizza il lavoro, stabilisce i salari, adegua la produzione al consumo e all’occupazione e via di seguito. Questo, osserva Porro, lo aveva già capito Alexis de Tocqueville, il quale tra l’altro intuì l’intimo nesso esistente fra «il diritto al lavoro per tutti i cittadini garantito da parte dello Stato» e, appunto, «il comunismo», o quantomeno «una forma di socialismo i cui metodi trasformano, riducono, intralciano la proprietà individuale» (1). Di qui, il discorso di chiaro impianto liberale pronunciato da Tocqueville all’Assemblea francese il 12 settembre 1848, poi pubblicato in un opuscolo il cui titolo entusiasma molto il liberale-liberista dei nostri tempi: Discorso contro il diritto al lavoro. «Avete letto bene: contro il diritto al lavoro», precisa maliziosamente Porro, convinto, a ragione, di irritare soprattutto i feticisti della Costituzione Italiana. Una frecciata che non può certo colpire neanche di striscio chi ha sempre considerato il lavoro salariato (perché di questo ovviamente si tratta) non un «diritto umano», come proclamano i progressisti tipo Camusso e Landini, ma una condanna per chi è costretto a vendersi al Capitale in qualità di merce viva. Una condanna per i salariati («La sua attività appare a lui come tormento, la sua propria creazione come potenza estranea, la sua ricchezza come miseria») e il fondamento della società capitalistica, come insegna lo Spettro di Treviri.
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Marx e il colonialismo
Enrico Galavotti
Che Marx ed Engels avessero un atteggiamento ambivalente nei confronti del capitalismo (lo giudicavano negativamente in rapporto al socialismo, ma positivamente in rapporto a qualunque formazione pre-capitalistica), è testimoniato anche dal fatto che la loro analisi del colonialismo non è sempre stata coerente.
Da un lato infatti era esplicita la condanna del colonialismo come strumento di oppressione e sfruttamento; dall'altro però essi tendevano a considerarlo come occasione di sviluppo per popoli arretrati e "senza storia". In questo loro giudizio pesava ovviamente il retaggio della filosofia occidentale, specie quella hegeliana.
Nel Capitale non è affatto chiaro l'apporto determinante del colonialismo alla realizzazione dell'accumulazione originaria. È singolare come nel Capitale non venga mai ipotizzata l'inevitabilità di una serie infinita di guerre civili cui in Europa avrebbe portato l'accumulazione originaria, se nel contempo non fossero state conquistate America, Africa e Asia. La popolazione si sarebbe dimezzata e lo sviluppo capitalistico, se ancora ci fosse stato, avrebbe subìto un rallentamento considerevole.
Nel cap. XXV (libro I del Capitale) dedicato al colonialismo, Marx afferma che la proprietà basata sul proprio lavoro era presente nei territori extra-europei successivamente colonizzati dalle nazioni capitalistiche più industrializzate. Anche questo però è un modo astratto di vedere le cose, poiché al tempo di Marx la proprietà libera in Asia non esisteva più, mentre in America latina era già in forte disuso nel XV sec. Solo in Africa si poteva ancora ampiamente costatare.
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Ancora su destra e sinistra
Marino Badiale
Mi sembra che il tema della dicotomia destra/sinistra, con le tesi contrapposte della sua perdurante validità oppure del suo superamento, sia sottinteso in alcune delle discussioni a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi (per esempio quella relativa a Diego Fusaro, partita daqui e proseguita per esempio qui). Si tratta però di una tematica che resta spesso sottintesa, o magari accennata e liquidata con poche battute. Il risultato è che sul tema del superamento di destra e sinistra vi è un certo grado di confusione. Penso sia bene provare almeno a dissipare un po' di questa confusione. Un'occasione per farlo può essere questo articolo, di qualche tempo fa, di Moreno Pasquinelli, che ha il merito di affrontare esplicitamente la questione. In realtà lo scopo ultimo dell'articolo mi sembra sia quello di portare un attacco al tentativo, attribuito a Fusaro, di creare di una forza politica sovranista ma non caratterizzata in termini di destra e sinistra. Non è però di questo che intendo trattare adesso: mi interessa invece discutere la ricostruzione della genesi della tesi sul superamento di destra e sinistra (d'ora in poi, per brevità , la chiamerò ”tesi del superamento”), ricostruzione proposta da Pasquinelli all'inizio dell'articolo. Mi trovo infatti a dissentire su alcuni aspetti di tale ricostruzione, e penso che esplicitare questo dissenso possa essere un contributo a fare chiarezza su questi temi.
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Io sono il mio denaro
Karl Marx
Il denaro, poiché possiede la proprietà di comprar tutto, la proprietà di appropriarsi tutti gli oggetti, è così l'oggetto in senso eminente. L'universalità della sua proprietà è l'onnipotenza del suo essere, esso vale quindi come ente onnipotente... Il denaro è il lenone fra il bisogno e l'oggetto, fra la vita e il mezzo di vita dell'uomo. Ma ciò che mi media la mia vita mi media anche l'esistenza degli altri uomini. Questo è l’altro uomo per me. –
Goethe, Faust (Mefistofele):
Che diamine! Certamente mani e piedi e testa e di dietro, questi, sono tuoi! E pure tutto quel di cui frescamente godo è perciò meno mio? Se io posso comprarmi sei stalloni, le loro forze non sono mie? Io ci corro sopra e sono un uomo più in gamba, come se avessi ventiquattro piedi.
Shakespeare, in Timone d’Atene:
Oro? Prezioso, scintillante, rosso oro? No, dei, non è frivola la mia supplica. Tanto di questo fa il nero bianco, il brutto bello, il cattivo buono, il vecchio giovane, il vile valoroso, l’ignobile nobile.
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Marx: Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner
di Enrico Galavotti
Dai brevi appunti1 di Marx, che evidentemente quando si accingeva a leggere un testo di economia politica la prima cosa che andava a vedere erano le considerazioni sulla legge del valore, si evince immediatamente come A. Wagner, nel suo Manuale di economia politica, non avesse capito il nocciolo fondamentale del I libro del Capitale, ch'era lo sfruttamento del lavoro altrui intrinseco a tutte le leggi del capitalismo. Stesso giudizio negativo Marx lo esprime anche nei confronti di J. K. Rodbertus e di A. E. F. Schäffle, tedeschi come Wagner.
Ciò che differenziava gli economisti inglesi da Marx era la loro superficialità, ma ciò che differenziava gli economisti tedeschi da lui era la loro astrattezza. E infatti Marx più volte lo dice nelle Glosse: il valore, il valore di scambio, il valore d'uso non sono "soggetti"; l'unico vero soggetto è la "merce". Marx non voleva fare il "filosofo dell'economia in generale" ma il "fenomenologo critico dell'economia politica borghese e del capitalismo in particolare". Ecco perché, scrivendo il Capitale, era partito con la descrizione della merce.
Se si parta dalla merce si arriva a capire che, nel capitalismo, tutto è anzitutto "merce", non anzitutto "denaro", anche se ovviamente non può esserci merce senza denaro (senza denaro c'è solo "valore d'uso", "autoconsumo").
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La filosofia del fantasma in Marx
di Luca Cangianti
L’opera più famosa, diffusa e tradotta di Marx, il Manifesto del partito comunista, si apre con l’apparizione di uno spettro, quello del comunismo “che si aggira per l’Europa”. Tuttavia anche i suoi scritti più teorici sono pieni di vampiri, lupi mannari, creature frankensteiniane e altre suggestioni gotiche. Ciò non deve stupire, visto che il filosofo adorava Shakespeare ed era un lettore accanito di letteratura fantahorror. Meno risaputo è che queste figure, lungi dall’essere un mero dispositivo retorico, svolgono una specifica funzione epistemologica (cfr. Carmilla del 28.6.2014 e del 29.7.2014).
Nel Manifesto Marx illustra il processo di rimozione psicosociale del comunismo e della crisi economica del capitalismo attraverso la metafora del fantasma. In questo caso egli s’inspira a Shakespeare che spesso fa comparire lo spettro quale indizio di un crimine occultato – ad esempio con l’apparizione del fantasma di Banquo nel Macbeth o di quello del re ucciso nell’Amleto. Il riemergere del crimine rimosso è accompagnato inoltre dall’annuncio di una crisi imminente: “penso che tutto questo presagisca una qualche inusitata catastrofe nel nostro stato”, dice Orazio a Marcello nell’Amleto.
Gli ectoplasmi agitano le loro catene anche nel Capitale. Marx afferma che i feticismi e le apparenze fallaci descritte nella VII sezione del III libro sono una mistificazione del modo di produzione capitalistico, un “mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e Madame la Terre, come caratteri sociali e insieme direttamente come pure e semplici cose” (Editori Riuniti, 1981, 943).
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Claudio Napoleoni e il Capitale monopolistico di Baran e Sweezy
di Riccardo Bellofiore*
1.Introduzione
Lo scritto che viene pubblicato di seguito[vedi qui] (Napoleoni, 2015) è la trascrizione di una lezione del 12 marzo 1973 tenuta da Claudio Napoleoni nel corso di Politica economica e finanziaria1. Oggetto della lezione è il commento del libro di Paul Baran e Paul Sweezy, Il capitale monopolistico, da poco pubblicato negli Stati Uniti (1966) e subito tradotto in italiano da Einaudi (1968)2.
L’interpretazione fornita da Napoleoni ha più di un motivo di originalità e potrà risultare per molti versi sorprendente. L’economista italiano era impegnato allora in un’originale ripresa critica di Marx che faceva asse proprio sui suoi aspetti più controversi, la teoria del valore-lavoro e la teoria della crisi, temi su cui il contributo di Sweezy era stato fondamentale. Ciò non di meno egli si distacca dalla usuale critica marxista al libro di Baran e Sweezy, secondo cui i due autori si sarebbero collocati fuori e contro la teoria del valore-lavoro3.
Sorprendente era peraltro la stessa struttura del corso di Politica economica e finanziaria in cui quella lezione fu pronunciata. I corsi del 1971-1972 e del 1972-1973 avevano come titolo “La realizzazione del plusvalore e la politica economica nelle economie capitalistiche moderne”. In quel che segue faremo soprattutto riferimento alla lezione del 12 maggio 1973 che si può leggere alle pagine 41-51 di questo fascicolo. Un corso dove l’esposizione della macroeconomia neoclassica e keynesiana (lungo linee non molto distanti da una avvertita sintesi neoclassica, come la si leggeva nella prima edizione del bel manuale di Gardner Ackley (1971) adottato da Napoleoni, e come peraltro si poteva già ricavare dalle voci del Dizionario di economia politica che aveva curato4, come da qualsiasi altro scritto dell’economista abruzzese sul tema) veniva proseguita dalla discussione approfondita del dibattito sulla teoria della crisi nel marxismo (da Marx a Lenin, da Tugan Baranowskij a Rosa Luxemburg). Si adottavano inoltre come letture chiave testi così distanti nel marxismo come il Capitale monopolistico di Baran e Sweezy e il Marx e Keynes di Paul Mattick (1972).
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Marx contro Dracula
di Marco Zerbino
In “Sangue e plusvalore”, romanzo fantahorror di Luca Cangianti, un Karl Marx sull'orlo della depressione fa la conoscenza del giovane Daniel Pieper, che diventerà il suo assistente personale. Insieme, i due si mettono sulle tracce di un industriale-vampiro, Emil Constantin, addentrandosi in un'avventura che sarà anche un'esplorazione dell'arcano della produzione capitalistica...
“Caro Frederick, il gran freddo che è sopravvenuto qui e l'assoluta mancanza di carbone nel nostro alloggio mi costringono – sebbene questa sia per me tra tutte le cose del mondo la più penosa – a chiederti di nuovo del denaro. Mi ci sono deciso soltanto in seguito alla forte pressione esterna. Preferirei stare cento tese sottoterra piuttosto che seguitare a vegetare così. Tornare sempre importuno agli altri e per di più personalmente esser tormentato di continuo dalle più meschine miserie, alla lunga è cosa insopportabile”.
A scrivere queste amare righe indirizzate all'amico Engels è un Karl Marx in preda alla depressione e allo sconforto. Siamo nel gennaio del 1858 e il filosofo, esiliato a Londra da quasi un decennio in seguito al fallimento della rivoluzione tedesca del 1848, assediato da creditori che poche settimane prima aveva descritto in un'altra lettera come “lupi famelici”, assillato dall'indigenza e da vari problemi di salute, attraversa nei primi mesi di quell'anno un periodo particolarmente duro sul piano personale, tanto da mostrare i segni di una rassegnazione che suona un po' come un disarmante contraltare simbolico all'iconografia “diamat” del quadruplice profilo trionfante.
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Comunismo Ermeneutico. Da Heidegger a Marx : note critiche
di Roberto Finelli
La coppia concettuale “comunismo ermeneutico” rivela, a mio avviso, una contraddizione in termini, perché mette insieme due tradizioni interpretative della modernità profondamente diverse, anzi pressoché opposte tra loro: come sono il marxismo di Marx da un lato, profondamente ispirato al dialettismo di Hegel, e l’analitica esistenziale, profondamente antidialettica, di Martin Heidegger.
La dialettica si può dire, assai schematicamente, studia la costruzione della realtà attraverso nessi di opposizione e di distinzione: a partire dalla definizione platonica per cui la dialettica è l’arte di dividere secondo generi e specie e di conoscere quali idee si connettano tra di loro e quali invece si distinguano e si escludano. In Hegel la dialettica rimanda alla tessitura di una realtà che si costruisce solo mediante opposizione, e questa è, di fondo, la medesima concezione di Marx, anche se con un profondo cambiamento di categorie oppositive rispetto a quelle teorizzate da Hegel. In Heidegger il motivo teorico fondamentale è invece, anziché quello dell’opposizione-contraddizione, quello della differenza: cioè della differenza radicale, quanto a statuto e qualità di realtà, che si dà tra Essere, Esserci ed Ente, e che concerne appunto l’abisso di distanza ed eterogeneità di piani che si dà il Sein, il Dasein e il Seiendes.
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Le passioni sediziose dell’operaviva
Federico Chicchi
È cosa nota che Marcel Duchamp decise di lasciare quella che diverrà poi la sua opera più importante, Le grand verre, incompiuta. Durante la lavorazione americana dell’opera, nel 1923, infatti, si ruppe il sottile vetro che doveva, sostituendo la tradizionale tela, contenere la sua sibillina rappresentazione. Ma come spesso accade nell’arte, l’incompiuto della forma ci dice molto sul suo contenuto espressivo rendendolo ancor più prezioso.
Per tentare di decifrare la complessa e controversa opera di Duchamp si deve partire dal suo famoso sottotitolo: La Mariée mise à nu par ses célibalaires, meme. È, in tal senso, il grande vetro, una straordinaria figurazione del rapporto tra capitalismo e desiderio, la storia di un amore impossibile tra una sposa semicompiacente e uno scapolo ansioso (Arturo Schwarz). È la storia di una interpellanza, di una chiamata, che (fortunatamente) non potrà mai realizzarsi fino in fondo, perché il rapporto sessuale non esiste. Il n'y a pas de rapport sexuel, riproporrà Lacan qualche decennio dopo. E neanche l’astuta macchina capitalistica è in grado di trasfigurare una volta per tutte, ricoprendo il buco di merci, il “mondo in giallo”. Il punto di partenza: l'Eros, motore del tutto. Chi sono i soggetti che mettono in scena l’opera di Duchamp? la Vergine nella sezione superiore del vetro a citare l'Assunzione come nei dipinti medievali e rinascimentali e i suoi Scapoli o Celibi sottostanti, in trepida, macchinica attesa di consumare e macinare gioia e dolore.
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Il capitale è ormai un simulacro
Mario Pezzella
«Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel» di Roberto Finelli, per Jaca Book. Il fenomeno originante dell'economia capitalistica è l’astrazione: svuota ogni essere umano asservito come forza-lavoro e lo colloca in una povertà assoluta, di totale desolazione
Come rileggere Marx dopo la crisi economica del nostro presente e la rivoluzione passiva, che ha distorto in forma neoliberista le istanze di emancipazione degli anni Sessanta del Novecento?
Questa è la domanda di partenza di Roberto Finelli nel libro Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel (Jaca Book, pp.404. euro 35). Di contro ai più tradizionali marxismi della contraddizione e dell’alienazione, l’autore pone al centro dell’opera del filosofo di Treviri un crescente affermarsi dell’astrazione in ogni piega del reale. Il marxismo della contraddizione si muoveva secondo la dialettica del rovesciamento: esso sottolineava il contrasto tra forze produttive e rapporti di produzione, che conduce al crollo dell’ordine capitalistico. È la stessa forza lavoro ad essere il motore del rovesciamento. Nello sviluppo del capitale, perde i suoi caratteri qualitativi, differenzianti; ma proprio per questo – superando ogni limite individualistico — diviene soggetto collettivo all’altezza dei mezzi di produzione creati dal capitale.
Dal «marxismo della contraddizione» Finelli prende congedo. Il fenomeno originante del capitale è l’astrazione, che svuota ogni essere umano asservito come forza-lavoro; essa non crea una virtualità rivoluzionaria ma tende a collocarlo in una povertà assoluta, di totale desolazione: «soggettività povera, fino alla vuotezza di sé». L’enfasi del capitalismo attuale sull’individuo «imprenditore di se stesso», il passaggio dal lavoro corporeo al lavoro immateriale, non mutano la desolazione del lavoratore dominato: le nuove ideologie del capitale esaltano un’apparenza sociale di liberazione, che appartiene alla rivoluzione passiva, del capitalismo di fine ’900. Finelli la definisce un simulacro, compiendo un sottile détournement su un termine amato dalla filosofia postmoderna: il simulacro non è alleggerimento dell’essere, ma sintomo sociale del capitale.
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L’anti-marxismo congenito del pensiero post-strutturalista
Militant
Ci accorgiamo con colpevole ritardo di una pubblicazione illuminante, sebbene dai tratti filosofici marcati e quasi per addetti ai lavori, sul ruolo che il pensiero post-strutturalista francese ha avuto riguardo alla costruzione di un paradigma politico anti-marxista, raccolto da una parte dei movimenti sociali dal ’68 in avanti. Un problema affatto attuale, visto che un certo modus pensandi, per così dire, è ancora alla base dell’azione politica di parte dei movimenti sociali.
Pur non avendo noi particolari competenze filosofiche, il testo di Rehmann, con l’importante prefazione di Stefano Azzarà, chiarisce in che termini il pensiero di Nietzsche, o per meglio dire della triade Spinoza-Nietzsche-Heiddegger, sia stato utilizzato in funzione antagonista e superatrice del pensiero marxista o, anche qui per meglio specificare, della linea di sviluppo che da Hegel porta a Lenin tramite la necessaria evoluzione operata da Marx ed Engels della dialettica hegeliana. Tale ribaltamento ideologico avviene tramite il lavoro in particolare di due autori ancora oggi presi a modello di un certo “pensiero rivoluzionario”, Deleuze e Foucault, massimi esponenti di quel gauchismo parigino travolto dalle sommosse del maggio francese e per via di queste costretto a convertire parti importanti della propria impostazione filosofica in funzione di un discorso “di sinistra” legittimante quei moti di ribellione. E’ infatti opportuno ricordare, con Rehmann, che Foucault, “impressionato dal movimento del Sessantotto, compie uno spostamento a sinistra che spiazza completamente molti suoi contemporanei. Bisogna tener presente che la sua pubblicazione sino a quel momento di maggior successo, Le parole e le cose, del 1966, a causa del suo aspro regolamento di conti con Marx era stata interpretata da molti come un libro “di destra”.
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Invito all'esodo
Marino Badiale, Massimo Bontempelli, Federico Dinucci
In alcuni siti che seguo sono state pubblicate recentemente dure critiche a Diego Fusaro (qui e qui). Mi sembra che il punto critico cruciale dietro a queste discussioni sia quello del superamento dell'opposizione di destra e sinistra. Mi riservo di intervenire su questo in futuro. Per il momento, penso che possa essere interessante offrire ai lettori qualche documento sull'origine di alcune delle tesi attualmente in discussione. Uno dei luoghi intellettuali nei quali si sono elaborate queste tesi, negli anni Novanta, è stata la rivista "Koinè", stampata a Pistoia dalla casa editrice CRT. Attorno ad essa si radunarono persone diverse per età e percorsi culturali pregressi, ma tutte accomunate dal fatto di aver attraversato, in un modo o nell'altro, il marxismo e la sua crisi, e dal fatto di cercare nuovi modi di impostare la critica intellettuale dell'esistente. Fra queste persone, le più note erano senz'altro Massimo Bontempelli, Gianfranco LaGrassa, Costanzo Preve. Assieme alla rivista, la casa editrice CRT pubblicò in quegli anni molti testi, scritti dalle persone appena nominate e da vari altri collaboratori della rivista. L'insieme di questi testi costituisce, credo, un robusto fondamento per le tesi sul superamento di destra e sinistra.
I due articoli che vi propongo, in varie puntate, non sono stati pubblicati su "Koinè", ma su "Diorama letterario", la rivista di Marco Tarchi, e volevano essere una presentazione a interlocutori esterni delle tesi fondamentali che gli autori andavano elaborando. Il primo articolo, "Invito all'esodo", è stato pubblicato nel numero 150, Febbraio-Marzo 2002, di "Diorama Letterario". Gli autori sono Marino Badiale, Massimo Bontempelli, Federico Dinucci. (M.B.)
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Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy e la teoria marxiana del valore*
Claudio Napoleoni
[Affronterò ora la questione dei caratteri generali del volume di Baran e Sweezy, Il capitale monopolistico.] Il volume affronta il problema del realizzo del plusvalore, in riferimento alla forma che il capitalismo assume nella sua fase attuale caratterizzata dalla sempre maggiore diffusione del monopolio. In questa fase i problemi del realizzo assumono una particolare rilevanza. Il plusvalore in questa fase è più grande che nelle fasi precedenti. A seguito dell’acuirsi dei problemi di realizzo il capitale è costretto a cercare sempre nuove vie per raggiungere i suoi scopi. Vengono qui esaminate le vie che il capitale segue per superare queste sue contraddizioni, per la verità assai rilevanti e tali da generare comunque problemi sociali rilevantissimi. Questa fase di sviluppo del capitalismo in definitiva viene ad essere caratterizzata da una crisi immanente, continua, causata da una serie di diseconomie che sono implicite nel sistema economico.
Per economia monopolistica si intende una economia in cui le singole imprese sono in grado di influenzare direttamente i prezzi di vendita. In questa fase le imprese, pur non rinunciando a farsi concorrenza, tuttavia in genere non scelgono la via di farsi concorrenza giocando al ribasso dei prezzi, in quanto ciò da un lato non consentirebbe una vittoria sicura, dall’altro lato causerebbe rilevanti perdite. La tesi che viene respinta in blocco da B. e S. è la tesi che individuerebbe l’esistenza nella moderna industria monopolistica di una figura particolare, il ‘manager’, avente scopi diversi da quelli perseguiti dai padroni delle aziende, che sarebbero quelli della massimizzazione dei profitti. Secondo questa tesi i manager si proporrebbero più che altro di espandere al massimo le dimensioni dell’azienda ricorrendo ad autofinanziamenti cospicui, non distribuendo cioè una gran parte degli utili realizzati dall’azienda. Ruolo simile a quello dei manager avrebbero gli azionisti non direttamente impegnati nella direzione dell’azienda.
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L’individuazione del parricida
Daniele Balicco
Un parricidio compiuto è un libro che risponde, attraverso un’analisi puntuale dei testi marxiani della maturità, ad alcune domande generali: qual è il soggetto che muove realmente il capitalismo? A cosa serve davvero lo sviluppo tecnologico? L’emancipazione dei soggetti può essere pensata come individuazione? Questioni capitali che Roberto Finelli discute in un volume che andrebbe letto come la seconda puntata di un’opera filosofica in due atti: sul conflitto fra un padre particolarmente ingombrante (Hegel) e un figlio particolarmente impetuoso (Marx).
Nel primo atto di questo dittico – Un parricidio mancato (Bollati Boringhieri 2004) – Finelli aveva seguito la ribellione teorica del giovane Marx, pensatore ancora impronto, politicamente esuberante, che poco sopporta l’astrazione hegeliana, anche perché sedotto dal materialismo «ingannevole» di Ludwig Feuerbach. Con il secondo atto, la scena si sposta a Londra. Marx è ora alla British Library dove studia economia politica, storia tecnologica e storia sociale. Ha progressivamente abbandonato i suoi interessi filosofico-politici, per provare a costruire una scienza nuova: lo studio del capitale come astrazione reale.
Se è questa la posta in gioco, il confronto con Hegel – vale a dire con il più originale pensatore dell’astratto in età moderna – non può più essere eluso. Finelli mostra molto bene come, a partire da una breve sezione dei Grundrisse, Marx inizi a pensare il modo di produzione capitalistico come una sorta di Geist hegeliano. Vale a dire come un soggetto che «tende a pervadere e a ridurre a sé l’intera realtà e la cui attività consiste nel togliere tutto ciò che di esterno possa condizionarlo e limitarlo».
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La rivoluzione teorica incompiuta
Introduzione al libro "Denaro senza Valore"
di Robert Kurz
Le teorie grandi ed influenti sfociano sempre in scuole di interpretazione e percorrono una storia che va ben al di là delle loro origini, mediando con la storia della società. La teoria di Marx è ormai sedimentata in termini storici; più di 125 anni dopo la morte del suo creatore, ha provato da molto tempo di essere una delle più poderose di tutta la storia del pensiero - seppure non sia disponibile come un "insieme artistico", come Marx avrebbe voluto richiedere alla sua esposizione, ma più come un immenso tronco, costituito da masse di testo a volte eterogenee. Per la sua forma, questa teoria non può essere integrata nelle schematizzazioni del mondo accademico; essa affronta, in termini espitemici, anche la comprensione del cosiddetto metodo scientifico. Marx ha operato una cesura paradigmatica che dev'essere definita come una "rivoluzione teorica", e a ragione. Ma è proprio questo carattere delle riflessioni di Marx che ha dato e continua a dar luogo a dubbi e a conflitti, a causa del fatto che mai nessun "assalto" paradigmatico è stato consumato in una sola volta. Allo stesso modo, la rivoluzione teorica di Marx è, necessariamente, una rivoluzione incompiuta e, in questa misura, non è solo incompleta ma anche passibile, e carente, di interpretazione.
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Il disagio della "totalità" e i marxismi italiani degli anni '70*
Roberto Finelli
La «rivoluzione passiva» dell’ultimo quarantennio e il mancato incontro tra comunismo del Novecento e cultura del riconoscimento del Sé. I «marxismi senza Capitale» di Gramsci e Della Volpe. Dalla «dialettica» tedesca alla «differenza» francese. L’operaismo italiano tra Gentile e Heidegger
Alla fine degli anni ’70 del secolo scorso gli intellettuali italiani hanno abbandonato, in massa e in modo definitivo, il marxismo. Il fenomeno non è stato solo italiano, ma in Italia, per il radicamento e la lunga storia che il marxismo, nelle sue varie accezioni, aveva avuto, quel congedo significava la conclusione e la disgregazione di un mondo, di una comunanza di idee, di linguaggio, di confronti e di scontri. «Nell’arco di quattro o cinque anni, fra il 1976 e il 1981, sprofondarono in una rapida obsolescenza modelli di pensiero, criteri di valutazione morale e psicologica, forme della sensibilità. E con le “cose” cambiarono le “parole”. A sottolineare il carattere radicale di questo fenomeno di trasformazione dei modi di pensare di tutto un ceto sociale e delle sue propaggini immediate qualcuno impiegherà più tardi la metafora della mutazione antropologica e genetica»1.
Rivoluzione passiva
Da tale passaggio socio-culturale, che ha segnato profondamente l’intellettualità e l’ideologia italiana, è derivata insieme ad altri fattori, quella «rivoluzione passiva» che i ceti popolari e i gruppi sociali più radicali hanno vissuto e subìto durante l’ultimo quarantennio, e continuano tuttora dolorosamente e drammaticamente a subire.
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Syriza e dintorni
di Franco Senia
Il capitalismo senza nemmeno un capitalista
Ci sono due saggi fondamentali per poter capire perché Syriza, in Grecia, con ogni probabilità sta andando verso il fallimento: il primo testo è "Dominio senza soggetto", di Robert Kurz, il secondo è "Che cosa fa andare avanti il capitalismo" di Michael A. Lebowitz.
Kurz spiega perché quello che noi chiamiamo marxismo sia in fondo solo una critica riduttiva del concetto di dominio, critica di per sé incapace di spiegare quello che è il capitalismo "maturo":
«Uno dei termini più amati dalla critica sociale di sinistra - che viene utilizzato con la spensieratezza dell'ovvietà - è il concetto di "dominio". I "dominanti" sono stati e sono considerati, in numerosi trattati ed opuscoli, come dei grandi ed universali cattivi al fine di poter spiegare le sofferenze della socializzazione capitalista. Questa cornice viene applicata retrospettivamente a tutta la storia. Nel gergo specificamente marxista, questo concetto di dominio viene ampliato nel concetto di "classe dominante". In questo modo, la comprensione del dominio ottiene una "base economica": la classe dominante è la consumatrice del plusvalore, del quale essa si appropria con l'astuzia e con la perfidia e, chiaramente, con la violenza.
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Con Marx, contro il lavoro
di Anselm Jappe
A proposito di Moishe Postone, "Tempo, lavoro e dominio sociale. Una reinterpretazione della teoria critica di Marx"; e di Isaak Rubin, "Saggi sulla teoria del valore di Marx". -
Nell'assumere come parola d'ordine la liberazione del lavoro, l'uscita dallo sfruttamento, i marxisti tradizionali hanno trascurato il fatto che Marx ha svolto una critica, non solo dello sfruttamento capitalistico, ma del lavoro stesso, così come esiste nella società capitalista. Pertanto, si tratta non di rimettere al centro ma, al contrario, di criticare il posto centrale occupato dal lavoro in questo sistema, dove esso regola tutti i rapporti sociali. E' questo l'oggetto della rilettura di Marx svolta in "Tempo, lavoro e dominio sociale" di Moishe Postone.
Nell'editoria, a volte ci sono delle felici coincidenze. Così, questa primavera, "Mille et une nuits" (Fayard) ha pubblicato la traduzione francese del libro di Postone, pubblicato negli Stati Uniti nel 1993, mentre le edizioni Syllepse hanno ripubblicato i "Saggi sulla teoria del valore di Marx" di Isaak Rubin, la cui edizione russa risale al 1924 e la precedente edizione francese (di Maspero, ed esaurita da tempo) al 1978. In questo modo, il pubblico francofono ha in un sol colpo, a disposizione, due delle pietre miliari - si potrebbe perfino dire, il punto di partenza ed il punto di arrivo provvisorio - di una rilettura di Marx basata sulla critica del lavoro astratto e del feticismo della merce.
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Appunti di critica marxista alle “Confessioni” di Varoufakis
Aristide Bellacicco*
Confesso – ammetto, è meglio dire – di non aver letto integralmente, fino ad oggi, le “Confessioni” del ministro Varoufakis. Oggi ho avuto tempo e l’ho fatto. In effetti, queste pagine in cui Varoufakis pone se stesso al centro di una vicenda storico-esistenziale con risonanze epocali mi hanno fatto sorgere più di una perplessità. Le sintetizzo – parzialmente e per punti – qui di seguito.
– 1 Scrive Varoufakis: “Marx aveva fatto una ‘scoperta’ che deve restare al centro di ogni analisi utile del capitalismo. Era, ovviamente, la scoperta di un’…opposizione binaria profonda nel lavoro umano. Tra due ‘nature’ molto diverse del lavoro: (i) lavoro come attività di creazione di un valore che non può mai essere specificato o quantificato in anticipo (e perciò è impossibile da mercificare) e (ii) lavoro come una quantità (ad esempio il numero di ore lavorate) che è in vendita e si ottiene a un certo prezzo. E’ questo che distingue il lavoro da altri fattori della produzione, come l’elettricità: la sua natura doppia, contraddittoria.” Ora, per quanto mi è noto, la doppia natura del lavoro in Marx oppone il lavoro in quanto produttore di “ricchezza” (valori d’uso) al lavoro in quanto produttore di “valore” (rintracciabile nel valore di scambio). E’ chiaro che il “lavoro come attività di creazione di un valore” non può mai essere quantificato in anticipo, perché è solo nella realizzazione del plusvalore (e non nella sua produzione) che viene in chiaro quanto profitto il capitale sia riuscito o meno a realizzare. D’altra parte, è proprio nella riduzione del “lavoro” (ma sarebbe meglio dire della “forza- lavoro”) ad una entità quantificabile che trova la sua ragion d’essere la produzione di valore (e di plusvalore). E ciò, in Marx, è vero sia sotto il profilo logico che sotto il profilo storico. Risparmio a tutti, e al buon Varoufakis soprattutto, le citazioni arcinote in cui questa affermazione trova riscontro.
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