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Su Benicomunismo di Piero Bernocchi

di Michele Nobile

In Benicomunismo di Piero Bernocchi possiamo vedere tre grandi campi aperti alla discussione: la riflessione teorica sulle ragioni interne del fallimento del comunismo novecentesco; la discussione intorno al capitalismo contemporaneo; l’emergere di una nuova prospettiva politica e ideale di democrazia radicale, indicata nel titolo.

Il mio accordo con le tesi del libro è molto ampio, specialmente su quelle che meno sono digeribili per la sinistra italiana. Si vedrà che esistono alcune divergenze d’analisi, anche importanti; ma molto più del computo delle concordanze e delle divergenze quel che conta, ai miei occhi, è la prospettiva d’insieme, la tensione ideale, la direzione verso cui si muove questo lavoro. Nel modo più sintetico, in Benicomunismo è viva e forte  l’aspirazione a liberare l’anticapitalismo dal professionismo politico e dallo statalismo, in uno spirito che può dirsi libertario. L’asse unificante le diverse tematiche del libro ritengo sia quello del rapporto tra etica e politica. Che è poi la condensazione di tutti i problemi e il nodo cruciale veramente fondamentale per il futuro dell’umanità.


La coerenza tra mezzi e fine e la politica come professione

Il primo e fondamentale accordo con Bernocchi è di natura etico-politica: in nessun caso il fine può giustificare l’uso di mezzi non coerenti con esso perché «cattivi mezzi producono cattivi fini, e viceversa» (p. 268).

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"La pensée-marchandise"

A proposito del libro di Alfred Sohn-Rethel

Palim Psao

rethel252520marx l2525c3252581zaro saavedra25255b425255d«Non è solo il contenuto, ma sono le forme stesse del pensiero, a trarre origine dall'organizzazione sociale della produzione materiale. Gli inizi della logica, nel mondo dell'antica Grecia, sono legati alla comparsa delle prime monete. L'apriori di cui parlava Kant era la forma-merce. Sono queste le teorie innovative che Sohn-Rethel propone negli anni 1930, in controcorrente non solo a tutta la tradizione filosofica, ma anche al marxismo tradizionale. Queste teorie hanno influenzato profondamente gli inizi della Scuola di Francoforte, al prezzo però di un'emarginazione dell'autore, durata per molto tempo. Questa prima traduzione francese di tre dei suoi saggi, non solo riempie una grave lacuna nella conoscenza d el pensiero critico tedesco nella sua età d'oro, ma offre anche gli strumenti per elaborare al giorno d'oggi un'epistemologia fondata sulla teoria di Marx, vista nel quadro di una critica radicale dell'astrazione sociale, del mercato e della merce, che ci governano.»


Così, la quarta di copertina del libro di Alfred Sohn-Rethel, "La pensée-marchandise", il quale comprende tre saggi scritti negli anni 1930 dal filosofo della Scuola di Francoforte ("Forme marchandise et forme de pensée? Essai sur l'origine sociale de l'entendement pur"; "Eléments d'une théorie historico-matérialiste de la connaissance"; "Travail intellectuel et travail manuel. Essai d'une théorie matérialiste"), preceduti da una prefazione scritta da Anselm Jappe che lega il dibattito, che ebbe corso nell'ambito della nuova sinistra tedesca degli anni 1970, intorno all'opera di Sohn-Rethel, al dibattito attuale in seno al movimento della Wertkritik (critica del valore).

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Uscire dall'economia?

di Steeve

Di seguito, la trascrizione di una comunicazione di uno dei membri del collettivo "Alcuni nemici del migliore dei mondi", nel corso di un incontro avvenuto a Burges nel gennaio di quest'anno, per presentare il libro "Uscire dall'economia". All'incrocio della Critica del Valore, della Critica anti-industriale e dei recenti contributi dell'antropologia non-evoluzionista (al di là del mito del comunismo primitivo), il collettivo "Alcuni nemici del migliore dei mondi" ha cominciato a pubblicare, a partire dal 2007, una rivista dallo stesso nome, di cui sono usciti finora quattro numeri, disponibile on-line a questo indirizzo.
Andiamo direttamente al punto, per i redattori del bollettino "Uscire dall'economia" non ci sono differenze fra economia e capitalismo. Così, lo slogan "uscire dall'economia" è da intendersi come "uscire dal capitalismo". Ma voi direte: "Perché avete scelto questo slogan se, in definitiva, è la forma di vita capitalista quella di cui ci occupiamo?" L'identificazione di queste due categorie non è speciosa?

Ci sarebbe un'economia neutra, naturale, che sarebbe sempre esistita e poi c'è una forma perversa che sarebbe apparsa relativamente tardi, diciamo verso il XVI secolo, vale a dire il capitalismo. L'uscita dal capitalismo servirebbe allora, secondo tale prospettiva, a ritrovare un'economia sana, durevole (un'economia verde, oggi detta circolare), più giusta (con una migliore distribuzione dei frutti della crescita), ecc. Sarebbe così sufficiente, per esempio, liberare "l'economia reale" dall'influenza degli odiosi speculatori finanziari, oppure, ancora, sopprimere la proprietà privata dei mezzi di produzione, affinché possiamo salvarci dal crollo multidimensionale in corso.

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gabriella giudici

L’individuo è l’essere sociale. Marx e Vygotskij

di Felice Cimatti

Questo bel saggio di Felice Cimatti – incluso nel testo collettaneo Il transindividuale, appena uscito per Mimesis (pp. 253-271) – è dedicato a una teoria della mente che si avvale degli strumenti messi a punto da Marx e Vygotskij per mettere a fuoco i limiti e le aporie dell’individualismo cognitivo e del biologicismo delle neuroscienze

1. «La coscienza è un rapporto sociale»

L’animale non umano, per Marx,

«è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. È quella stessa [attività vitale]» Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844.

Prendiamo un esempio determinato, un castoro. Per esplicare la sua ‘attività vitale’, ad esempio il costruire dighe sul corso dei fiumi, un castoro si basa essenzialmente su abilità innate, abilità appunto che non deve imparare, che non sono fuori di lui. Essere un castoro significa appunto nascere con un insieme di aspettative e abilità innate. In questo senso se il costruire dighe è una attività che distingue il castoro dalle altre specie animali, se questa è la sua essenza animale, allora questa stessa essenza è presente in modo implicito dentro di lui già alla nascita: l’essenza del castoro è dentro il castoro, come un chilo di rigatoni sta dentro la scatola di cartone che lo contiene. Questo non signifi ca che non sia importante anche l’esperienza né che tutto il comportamento animale sia innato; il punto è che ciò che l’animale può imparare è vincolato in modo più o meno rigido dalla sua costituzione biologica innata.

Per l’animale non umano, allora, non vale la frase di Marx dei Manoscritti economico filosofici del 1844 che abbiamo scelto come titolo, al contrario, qui l’individuo coincide con l’essere individuale, cioè l’essenza è dentro ogni singolo animale non umano. Espresso in altro modo, ogni castoro è ogni altro castoro, nel senso che dovunque ci sia un castoro troveremo più o meno le stesse attività, la stessa forma di vita, le stesse esperienze.

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Piccola storia della WertKritik

Franco Senia

Sono ormai passati quasi trent'anni, da quando la Scuola della Wertkritik (critica del valore) ha cominciato a sviluppare il suo progetto di terza teoria critica, pertinente alla terza rivoluzione industriale, a partire dalla relazione fra teoria e crisi. Quando la crescita del capitale - o, più precisamente la socializzazione del valore (Wertvergesellschaftung) - inizia a fermarsi, anche se lo fa solamente per un breve periodo, questo non equivale solo ad una crisi "economica", ma anche ad un'incipiente decomposizione di tutta la "pseudo-natura" che si è storicamente costituita intorno alla forma-valore ed all'espansione di tale forma immanente. Le crisi pertanto coinvolgono il lavoro, la politica, le nazioni, l'arte, la ragione e tutte le categorie della metafisica realizzata. Se poi la crescita raggiunge quello che è il suo limite assoluto, allora questo significa che tutte le categorie summenzionate sono condannate e si trovano, a lungo termine, al di là di ogni possibilità di salvezza. E, cosa più importante di tutte, non sono in grado di fornire alcun tipo di orientamento che possa contribuire alla ricerca di una via d'uscita.

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A proposito di qualche divergenza fra Moishe Postone e la "Wertkritik"

di Clément Homs

Anche se Moishe Postone non appartiene propriamente al movimento della "Wertkritik (Critica del Valore) - ci si può perfino domandare se egli si riconosca in tale definizione - da cui dev'essere chiaramente distinto (NdT: Come il marxista tedesco Michael Heinrich, che riprende il termine di "critica del valore" ma che, come tutta la teoria borghese, continua a fare del lavoro astratto una categoria della circolazione), bisogna precisare che ciò che caratterizza tale movimento è una rottura in seno alla teoria marxiana del capitale (ovvero, una rottura più a monte di quella in seno alla teoria della rivoluzione, così come la si ritrova nel movimento della "comunizzazione"), rottura operata a partire dalla fine degli anni 1980 dai gruppi tedeschi, prima "Krisis", poi "Exit!", e dal movimento militante rivoluzionario che intorno a questi gruppi gravita, in Europa e nell'America del sud. La "Wertkritik" è dunque una denominazione specificamente tedesca, cui Postone è del tutto estraneo. Tuttavia, quest'autore ha proposto, nella sua opera principale, "Tempo, lavoro e dominazione sociale" prime, e poi in una sua raccolta di articoli, recentemente pubblicata, "Critica del feticcio-Capitale", una reinterpretazione della teoria di Marx (citati da Jappe nel suo "Con Marx, contro il lavoro") in parte parallela, su numerosi punti, a quella di quegli autori tedeschi ed austriaci i quali costituiscono più un movimento - con le sue scissioni e le sue polemiche interne - che una corrente omogenea: Robert Kurz, Roswitha Scholz, Norbert Trenkle, Ernst Lohoff, Peter Klein, Anselm Jappe, Claus Peter Ortlieb, Karl-Heinz Lewed, Franz Schandl, Justin Monday, Gérard Briche, Christian Höner, Peter Samol, ecc. Bisogna perciò subito premettere che le divergenze di sequito discusse non sono distribuite sempre equamente fra tutti questi autori.

Malgrado ciò, queste due rifondazioni teorico/analitiche della critica marxiana dell'economia politica, da una parte e dall'altra dell'Atlantico, sono rimaste parallele, nel senso che le influenze reciproche sono state minime.

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Buon compleanno al Manifesto di Marx e Engels

David Harvey

Il 21 febbraio 1848 a Londra viene pubblicata la prima edizione del "Manifesto del partito comunista" di Marx e Engels. Nel fare gli auguri di buon compleanno vi proponiamo l'introduzione di David Harvey all'edizione americana del 2008

Il Manifesto del Partito Comunista del 1848 è un documento straordinario, ricco di intuizioni, di significati e di opportunità politiche. Milioni di persone in tutto il mondo – contadini, lavoratori, soldati, intellettuali e professionisti di ogni sorta – vi sono negli anni state toccate ed ispirate. Non solo ha reso il dinamico mondo politico-economico del capitalismo più facilmente comprensibile, ma ha spinto milioni di tutti i ceti sociali a partecipare attivamente nella lunga, difficile e apparentemente interminabile lotta politica per alterare il cammino della storia, per fare del mondo un posto migliore attraverso il loro sforzo collettivo. Ma perché ripubblicare oggi il Manifesto? Può la sua retorica creare ancora l’antica magia che creava un tempo? In quali modi può parlarci oggi questa voce del passato? Hanno i suoi appelli alla lotta di classe ancora senso?

Mentre possiamo non avere il diritto, come Marx ed Engels scrissero nella loro Prefazione all’edizione del 1872, di alterare ciò che già da allora era diventato un documento storico chiave, abbiamo entrambi il diritto e l’obbligo politico di riflettervi sopra e se necessario reinterpretare i suoi significati, di interrogare le sue proposte, e soprattutto di agire sugli spunti che vi traiamo.

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“Fuga dalla storia?” di Domenico Losurdo*

Ovvero: divergenze tra il compagno Losurdo e noi

Militant

Sebbene uscito nel 1999, scopriamo oggi un testo di Domenico Losurdo nella nuova edizione datata 2012, rivista e ampliata dall’autore. Colpevolmente in ritardo, decidiamo comunque di recensirlo soprattutto per la stima che proviamo verso uno dei rari studiosi, appartenenti al sistema universitario ufficiale, non piegati alle retoriche dominanti e alle mode accademiche del momento. Con una coerenza che gli fa onore, Losurdo ha col tempo mantenuto dritta la barra dell’antimperialismo, con la sua produzione teorica e la sua attività politica. Nonostante questo, non nascondiamo lo stupore per certe tesi avanzate nel presente testo, e nel recensirlo non possiamo che catalogare tale libro fra gli “sconsigli” per gli acquisti.

Il testo, in realtà composto da un insieme di saggi e articoli scritti in momenti diversi, dal 1999 al 2011, ha l’ambizione di tracciare una sintesi storica delle rivoluzioni russa e cinese, di comprendere l’attualità di quelle esperienze nonostante i molti anni passati dal crollo del socialismo a est e dalla profonda riforma del “socialismo” cinese. Nel farlo, l’autore si concentra soprattutto sulla via intrapresa dalla Cina post-Mao. E’ proprio il discorso sullo sviluppo cinese ad essere per noi irricevibile.

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kainos

Gianluca Solla, Memoria dei senzanome

di Eleonora de Conciliis

atget notre dame

Gianluca Solla
Memoria dei senzanome.
Breve storia dell’infimo e dell’infame
Ombre corte, Verona 2013,pp. 172
euro 16,00 ISBN 9788897522577

Aprendo con una splendida analisi della fotografia di uno straccivendolo scattata da Atget agli inizi del Novecento, e utilizzando il metodo benjaminiano del montaggio – montaggio di istantanee, di affondi teorici e critici, di paesaggi urbani e spirituali – Gianluca Solla costruisce un testo di filosofia politica, ma anche, e soprattutto, un percorso di filosofia morale che ha come oggetto gli scarti umani dell’economia capitalistica: coloro che, in una triste specularità mimetica, vivono dei rifiuti di questa economia (cfr. pp. 11-16), ma anche i vinti, gli abietti, i rivoltosi che sono apparsi per un istante sulla scena della “storia dei vincitori” (Benjamin) per poi ripiombare nell’anonimo inferno della loro quotidiana umiliazione, e ai quali nessuna visione dialettico-progressiva degli eventi sembra in grado di rendere giustizia, o almeno donare l’onore del ricordo.

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ozioproduttivo

L’innocenza perduta della produttività

Claus Peter Ortlieb

“Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, in quanto tende a ridurre al minimo il tempo di lavoro, mentre d’altro canto pone il tempo di lavoro come l’unica misura e fonte di ricchezza.”
Marx,
Grundrisse.

Il cosiddetto progresso tecnico e l’aumento costante della produttività sono frequentemente presentati come  il cammino potenziale per una vita agiata e come soluzione di tutti i problemi dell’umanità. Guardando a come la produttività sia raddoppiata negli ultimi 30/40 anni, ciò che significa che con la stessa quantità di tempo speso a lavorare oggi è prodotta una quantità di merci doppia di quella degli anni ‘70, se ne dovrebbe concludere che camminiamo a grandi passi verso una vita di abbondanza. Evidentemente, chiunque oggi affermasse ciò, di fronte alle attuali crisi simultanee e crescenti dell’ambiente, delle risorse, dell’economia e della finanza, sarebbe giustamente considerato un sognatore. C’è qualcosa dunque di sbagliato nel suo calcolo e nella sua promessa.

Dove sta l’errore? Un primo indicatore per una risposta a questa questione ci è dato da uno slogan  spesso ripetuto in questo contesto: competitività. Il significato di produttività si basa, innanzitutto, sul confronto: l’impresa più produttiva realizza più prodotti e li può quindi vendere a un prezzo più basso, spingendo in questo modo i suoi concorrenti fuori dal mercato.

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Jean-Claude Michéa e i "misteri" della sinistra

Mario Cecere

Professore di filosofia nei licei e autore di numerose opere dedicate all'analisi del pensiero liberale e agli esiti politici e culturali totalitari delle sue premesse individualistiche, Jean-Claude Michéa è  tra i piu'  interessanti esponenti di una tendenza controcorrente che,  in Francia e in Italia, (pensiamo a Diego Fusaro e al filosofo Costanzo Preve recentemente venuto a mancare), si sta segnalando  per lo sforzo generoso  di riuscire nell'opera titanica di dissodamento della crosta ideologica che rende attualmente  impensabile l'uscita dall' asfissiante impasse "post-moderna" della fine della storia capitalistica, indicando coraggiosi percorsi alternativi di ricerca, di emancipazione e  di affrancamento, posti sotto il segno di un rinnovato modello politico etico ed economico di esistenza in comune.

Nel testo di cui ci apprestiamo a esporre e a commentare alcune preziose linee guida, Les mystères de la gauche: de l'idéal des Lumières au triomphe du capitalisme absolu, apparso in Francia nel marzo del 2013 e  ancora non tradotto in italiano, Michéa riassume il lavoro di  anni di riflessione storica e filosofica che lo hanno condotto ad affermare, tra l'altro, l'assoluta organicità della "sinistra" al progetto di dominazione capitalista, spiegando che è l'equivocità del termine "sinistra", di cui l'autore ricompone la genesi storica contraddittoria, a generare i numerosi fraintendimenti e la paralisi attuale di molti sinceri anticapitalisti.

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sinistra aniticap

Quel gran “pasticcione” di Marx?

di Diego Giachetti

In difficoltà a trovare la “classe perduta” hanno provato a interrogare Marx ma si sono presto ritratti. Marx sembrerebbe non aiutare, invece di semplificare complica le cose e quando, dopo più di mille pagine de Il Capitale, si chiede finalmente cosa sono le classi, non va oltre le due paginette, poi s’interrompe. In altre opere invece “pasticcia”, scrive e ragiona rispettivamente di due classi antagoniste oppure individua cinque, sei, sette e anche otto classi. Marx sarebbe quindi la dimostrazione che le classi sono un oggetto indefinibile, contraddittorio, possibile di varie interpretazioni, tutte insufficienti: il mistero di cosa esse siano resta così insoluto.

Lenin in uno scritto del 1919 provò a fare un po’ di chiarezza definendo le classi come «quei grandi gruppi di persone che si differenziano per il posto che occupano nel sistema storicamente determinato della produzione sociale, per i loro rapporti (per lo più fissati e sanzionati da leggi) con i mezzi di produzione, per la loro funzione nell’organizzazione sociale del lavoro e, quindi, per il modo e la misura in cui godono della ricchezza sociale di cui dispongono» ( Opere, vol. 29, Roma, Editori Riuniti). Avendo letto un po’ di Marx e di Engels, questa sua sintesi era il frutto di quelle letture e ad essa si ispirava: ma si ispirava ad un “pasticcio” appunto. Invece di semplificare la strada ai ricercatori delle classi perdute la complicò. Chiamava in causa troppe variabili, parlava di produzione sociale e non industriale o manifatturiera e di organizzazione sociale del lavoro e non di fabbrica. Non contento, vi aggiungeva i rapporti, in gran parte giuridici, con i mezzi di produzione e la natura e l’ammontare del reddito.

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il rasoio di occam

Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno

Che fare con la sesta tesi di Marx su Feuerbach?

di Etienne Balibar

È in uscita per Mimesis “Il Transindividuale. Soggetti, relazioni, mutazioni”, una raccolta di studi sulla questione del transindividuale curata da Etienne Balibar e Vittorio Morfino. Qui, per gentile concessione dei curatori, anticipiamo lo stesso saggio di Balibar, in cui il filosofo francese conduce un’analisi particolareggiata del significato filosofico della Sesta Tesi di Marx su Feuerbach

Le Tesi su Feuerbach[1], un insieme di 11 aforismi a quanto pare non destinati alla pubblicazione in questa forma, sono state scritte da Marx nel corso del 1845 mentre stava lavorando al manoscritto dell’Ideologia tedesca, anch’esso non pubblicato. Sono state scoperte più tardi da Engels e da lui pubblicate con alcune correzioni (non tutte prive di significato), come appendice al suo pamphlet Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca (1886)[2]. Sono considerate largamente una delle formulazioni emblematiche della filosofia Occidentale, talvolta comparate con altri testi estremamente brevi ed enigmatici che combinano una ricchezza apparentemente inesauribile con uno stile enunciativo da manifesto, che annuncia un modo di pensare radicalmente nuovo come il Poema di Parmenide o il Trattato di Wittgenstein. Alcuni dei suoi celebri aforismi hanno guadagnato a posteriori lo stesso valore di un punto di svolta in filosofia (o, forse, nella nostra relazione con la filosofia) come, per esempio dei già citati Parmenide e Wittgenstein rispettivamente: «tauton gar esti noein te kai einai »[3], «Worüber man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen»[4], ma anche lo spinoziano «ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum»[5] il kantiano «Gedanken ohne Inhalt sind leer, Anschauungen ohne Begriffe sind blind»[6] etc.

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Il lavoro dell’astrazione

Sette tesi provvisorie su marxismo e accelerazionismo

di Matteo Pasquinelli

1. Il capitalismo è un oggetto di elevata astrazione, il comune è una forza di ancor più grande astrazione. 

La nozione di lavoro astratto di Marx  identificò per la prima volta il motore centrale del capitalismo, ovvero la trasformazione del lavoro in equivalente generale. In seguito, Sonh-Rethel (1970) individuò la stretta relazione che passa storicamente tra astrazione del linguaggio, astrazione della merce e astrazione del denaro. Nella cosiddetta ‘introduzione’ ai Grundrisse (scritta nel 1857) Marx chiarisce l’astrazione come metodologia di analisi che emergerà solo dieci anni più tardi nella pagine del Capitale (1867). Come ricordano in molti (Ilyenkov 1960), in Marx il concreto è un risultato, è un prodotto del processo di astrazione: la realtà capitalistica, così come quella rivoluzionaria, è una invenzione. “Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione” (Marx 1857: 101). L’astrazione è sia la tendenza del capitale, sia il metodo del Marxismo. L’operaismo viene quindi a strappare l’astrazione dal doppiopetto del capitale per ricucirla addosso alla tuta del proletario: astrazione è sia il movimento del capitale, sia il movimento della resistenza ad esso.

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A proposito di “critica del valore”

Una lettera ad Anselm Jappe

di J.-C.

marx engelsIntroduzione redazionale

Già da qualche tempo, anche in Italia, assistiamo ad un non trascurabile interesse per la cosiddetta “critica del valore” (in tedesco: Wertkritik), la quale costituisce ormai un corpus di tesi più o meno definito e identificabile. Questa corrente – sviluppatasi in Germania a partire dagli anni 1990, ma che ha trovato eco in Brasile, Portogallo, Francia etc. – propone un'interpretazione del testo marxiano che mette particolarmente in rilievo le nozioni di capitale come corso oggettivo (“soggetto automatico” reso autonomo rispetto agli individui singoli) e di lavoro astratto. Egualmente, essa tende a contrapporre – almeno in una parte dei suoi teorici di riferimento – un Marx definito “essoterico”, cioè buono per metalmeccanici babbei e per socialismi d'altri tempi, ad un Marx “esoterico” che si troverebbe soprattutto nei Grundrisse. Tra i principali testi di questa corrente, si possono leggere in traduzione italiana il Manifesto contro il lavoro del Gruppo Krisis (DeriveApprodi, Roma 2003), La fine della politica e l'apoteosi del denaro di Robert Kurz (Manifestolibri, Roma 1997) ed il recente pamphlet Contro il denaro di Anselm Jappe (Mimesis, Milano 2013)1.

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Elogio della "crescita delle forze produttive" o critica della "produzione per la produzione"?

Il doppio Marx di fronte alla crisi ecologica

di Anselm Jappe

g2025255b525255dPer fortuna, sono passati i tempi in cui, in un dibattito, si poteva aver la meglio su un avversario solo citanto un passo appropriato di Marx (o inventandoselo, come faceva Althusser, per sua propria ammissione). Per fortuna, sono passati anche i tempi in cui ci si doveva vergognare di citare un autore che la caduta del Muro di Berlino avrebbe smentito per sempre, secondo la vulgata neoliberista. Al giorno d'oggi, è difficile non utilizzare gli strumenti di Marx al fine di comprendere quello che ci succede e, allo stesso tempo, non siamo affatto obbligati a prendere alla lettera ogni sua frase.

Dire questo, non vuole essere un invito al saccheggio delle sue idee, ad un uso eclettico per cui ciascuno attribuisce a Marx quello che più gli piace. Né si tratta di caricare di "verità lapalissiana" ciò che c'è di buono e di meno buono in Marx, dal momento che la sua opera, come tutte le opere, è contraddittoria e che anche lui è stato figlio del suo proprio tempo, condividendone i limiti, soprattutto per quel che riguarda l'ammirazione eccessiva per il progresso. E' più proficuo distinguere fra un Marx "essoterico" ed un Marx "esoterico": in una parte della sua opera - la parte quantitativamente maggiore - Marx è un figlio dissidente dell'Illuminismo, della società del progresso e del lavoro, di cui sostiene un'organizzazione più giusta, da realizzare attraverso la lotta di classe.

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Il "doppio Marx"

di Robert Kurz

due252520marx325255b525255dQuando si commemorano delle nascite, delle morti od altri anniversari che risalgono a più di un secolo prima, l'oggetto del ricordo è, le più volte, già diventato un pezzo da museo collocato fra i reperti di un passato morto e che non solleva più la minima emozione. Pagine culturali dei quotidiani, dignitari della cultura ed amministratori della storia possono celebrare il loro "avvenimento" appoggiandosi piacevolmente sulle teche dentro le quali dormono i documenti cui riferirsi, documenti che una volta galvanizzavano le folle. Il "Manifesto del partito comunista" redatto nel 1848 da due giovani intellettuali allora pressoché sconosciuti, Karl Marx e Friedrich Engels, ha conservato per molto tempo una sorprendente freschezza. Un testo che, anche dopo più di un secolo, attira ancora odî brucianti e messe all'indice, un testo tanto diffuso solo quanto può essere la Bibbia - un testo del genere deve per forza contenere abbastanza dinamite intellettuale da bastare per un'intera era. Ciò malgrado, il "Manifesto" non festeggerà più il suo 150° anniversario nel ruolo di grande vedette appassionatamente discussa nel bel mezzo del tumulto della lotta sociale. Ad un certo punto degli anni 1980, al più tardi con la svolta del 1989, questo testo che era rimasto incandescente per così tanto tempo, d'un tratto è diventato freddo e blando; il suo messaggio è come ingiallito nel corso di una notte e, anche se lo si studia ancora oggi, lo si fa ormai senza nessun stato d'animo, solo a titolo di testimonianza di una storia passata. Ma tutto ciò non liquida affatto la teoria di Karl Marx - essa potrà estinguersi e trapassare nel dominio della storia solo insieme al capitalismo - e non autorizza a respingere il contenuto del "Manifesto" con il lasciare intendere che fin dall'inizio si trattava di un'aberrazione.

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politicaecon

Fra Marx e List

Sinistra, nazione e solidarietà internazionale

Sergio Cesaratto*

Proletari di tutti i paesi, unitevi! (K.Marx, F.Engels 1948)
…fra l’individuo e l’umanità si colloca la nazione (F.List 1972: 193)

Abstract. In questo breve saggio esaminiamo l’importanza attribuita da Friedrich List allo Stato nazionale nell’emancipazione economica di un paese a fronte della visione cosmopolita del capitalismo e degli interessi dei lavoratori che Marx gli contrappone. Rifacendoci a uno spunto di Massimo Pivetti sosteniamo che lo Stato nazionale sia lo spazio più prossimo in cui una classe lavoratrice nazionale può legittimamente sperare di modificare a proprio vantaggio i rapporti di forza. Nell'aver sostenuto lo svuotamento della sovranità nazionale in nome di un europeismo tanto ingenuo quanto superficiale, la sinistra ha contribuito a far mancare a sé stessa e ai propri ceti di riferimento il terreno su cui espletare efficacemente l’azione politica contribuendo in tal modo allo sbandamento democratico del paese.


Introduzione

Se il tema che ci siamo assegnati è da un lato un classico della riflessione politica della sinistra, dall’altro esso continua a essere un argomento imbarazzante.

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la costituente

Egemonia del capitale e unità della sinistra

di Alberto Burgio

L’ubiquità dell’egemonia

Se la matrice gramsciana del concetto di egemonia è universalmente nota, meno diffusa è la consapevolezza della sua complessità. Questa idea suole essere ricondotta (e ridotta) a una (o a talune) delle sue molteplici accezioni: il più delle volte alla dimensione culturale (dove «egemonia» è sinonimo di influenza ideologica e di capacità di orientamento o di manipolazione); talora alla sua dimensione immediatamente politica (secondo l’accezione leniniana e terzinternazionalista – relativa al tema delle alleanze tra le classi – che connota la prima comparsa del termine nelle pagine del carcere1 e la sua stessa irruzione nel lessico gramsciano degli anni Venti, tra le Tesi di Lione e gli appunti sulla Quistione meridionale). Egemonia come «direzione intellettuale e morale» della società, dunque; quindi come traduzione «in atto» della filosofia (della cultura, delle idee), secondo quanto Gramsci scrive reinterpretando la rivoluzione d’Ottobre come «teorizzazione e realizzazione dell’egemonia» da parte di Lenin, e in questa misura come un grande avvenimento dotato «anche» di valore «metafisico»2.

In effetti, stando alle pagine più classiche dei Quaderni nelle quali si tratta dell’egemonia, questi si direbbero gli unici significati del termine.

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Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione

di Sandro Mezzadra

Anticipo qui il primo capitolo di un piccolo libro che sto scrivendo su Marx, provvisoriamente intitolato “Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione”

Capitolo primo – Marx oltre il marxismo

“Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con implacabili persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l’odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome” (Vladimir Ilic Lenin, Stato e rivoluzione [1917], trad. it. in Id., Opere scelte in sei volumi, Roma-Mosca, Editori Riuniti-Progress, s.d., vol. IV, p. 235).

Sbaglieresti a pensare che io “ami” i libri, scrisse Marx alla figlia Laura nel 1868: piuttosto, continuava, “sono una macchina condannata a divorarli per vomitarli in una nuova forma, come concime sulla terra della storia” (MEW, XXXII, p. 545). Prende avvio da questa immagine la lettura di Marx recentemente proposta da Pierre Dardot e Christian Laval in un libro ponderoso (Dardot e Laval 2012). Singolare metabolismo, quello qui delineato: libri, autori e teorie macinati da una macchina di lettura che li restituisce “in una nuova forma” alla storia, per renderla più fertile. Un continuum di variazioni e di ripetizioni su temi ereditati dalla storia per produrre dal loro interno quell’innovazione che alla storia deve tornare.

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“Fabbriche del soggetto”

Una conversazione con Antonio Negri

di Mimmo Sersante

Mimmo Sersante – Il libro* raccoglie testi scritti tra il 1981 e il 1986, gli anni forse più duri della tua vita di militante comunista ma anche più produttivi dal punto di vista della ricerca filosofica. Mi riferisco all’incontro con Spinoza e la filosofia poststrutturalista francese. Sono anche gli anni della rivoluzione neoliberista e della crisi irreversibile delle politiche keynesiane in tutto l’occidente capitalistico. L’Italia non fa eccezione. Da noi anzi la sconfitta fu più lacerante se pensiamo all’ottimismo alimentato per vent’anni dalle lotte autonome degli operai e degli studenti. Ci sono pagine in questo libro di esplicita autocritica sui limiti della ricerca, tua e di molti tuoi compagni, condotta durante gli anni Settanta sul tema del soggetto.

Antonio Negri – Questa autocritica la troviamo in primo luogo in La costituzione del tempo. Prolegomeni[1].Qui abbiamo la critica al fatto che non eravamo riusciti a mettere assieme le determinazioni costitutive e le dimensioni politiche di organizzazione, per l’appunto la composizione tecnica e la composizione politica di classe. C’è stato questo rovello per tutti gli anni Settanta: di non riuscire a far funzionare, di fronte alla dissoluzione della struttura tecnica della classe operaia, il vecchio schema che era quello degli anni Sessanta e che aveva funzionato alla Fiat e a Porto Marghera.

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Sul concetto di miseria sociale e sui proudhoniani 2.0

Sebastiano Isaia

1. Sul concetto di miseria sociale

Il lavoro-merce è una tremenda verità (1).

Il lavoro salariato come suprema maledizione sociale toccata in sorte al moderno proletariato è il punto di partenza (la tetragona premessa teorica e politica) della mia riflessione intorno alle rivendicazioni “economiche” dei lavoratori.

Qui per moderno proletariato intendo la marxiana «razza dei salariati» che fu brutalmente separata dalle condizioni materiali della propria esistenza («mezzi di sussistenza e mezzi di produzione») dal Capitale nel suo momento genetico, e che, in ragione di ciò, vede i suoi sfortunati membri nella necessità di vendere capacità fisiche e intellettuali (qui una distinzione puramente formale) in cambio di un salario. A tutti gli effetti, una razza maledetta. Oggi come e più di prima. «La separazione si estende fino al punto che quelle condizioni oggettive del lavoro si oppongono al lavoratore come persone autonome, perché il capitalista, in quanto proprietario di questa condizione, si oppone solo come loro personificazione all’operaio che è il semplice possessore di capacità lavorativa. Questa separazione e autonomizzazione sono la premessa alla realizzazione della compra-vendita della capacità lavorativa» (2).

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consecutio temporum

Il ritorno della dialettica

Recenti letture del Primo libro del Capitale a firma di Harvey e Jameson

Marco Gatto

1.    Pur tenendo conto dell’imprescindibile differenza tra i due approcci al testo, le interpretazioni che David Harvey e Fredric Jameson hanno recentemente offerto del primo volume di Das Kapital condividono molto più di quanto si creda[1]. Non solo perché i due studiosi americani incarnano differenti figure intellettuali: Harvey si definisce da sempre geografo e urbanista e il suo interesse filosofico, seppure solo in apparenza periferico, è spesso spostato in un secondo piano; Jameson è un teorico della cultura (e della letteratura, in particolare) sensibile alla lezione di Lukács e della Scuola di Francoforte (con una predilezione spiccata per Adorno), e ha provato, nel corso della sua esperienza filosofica, a importare nel contesto americano, a lungo egemonizzato dall’empirismo, la tradizione dialettica europea. Tuttavia, l’uno e l’altro si inseriscono a pieno titolo in un campo marxista: probabilmente Jameson con maggiore ed esibita insistenza. Se il marxismo di Harvey nasce dall’esigenza di «rivendicare che sia sul terreno dell’analisi della crisi e delle “contraddizioni” del capitalismo che debba essere verificata la validità teorica»[2] della critica di Marx al modo di produzione capitalistico, collocandosi dunque in un ambito di demistificazione dell’economia politica e di teorizzazione della nuova spazialità finanziaria, il marxismo di Jameson è invece legato a doppio filo al cosiddetto “marxismo occidentale” (secondo l’etichetta messa in campo da Perry Anderson)[3], ossia a quella costellazione di pensatori e teorici della cultura che, nel corso del Novecento, avrebbero condotto l’eredità di Marx verso una dissoluzione del nesso “teoria-prassi” e lungo i binari di una coesistenza, forzata ma sentita come inevitabile, con altri saperi e altri codici interpretativi, decretando l’inizio di una perdurante passività politica e di un’inevitabile impotenza rivoluzionaria[4].

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Il comune senso del pudore

di Franco Senia

Nel suo ultimo saggio, pubblicato nel mese di marzo di quest'anno, "Les mystères de la gauche" (I misteri della sinistra), con il sottotitolo "dall'illuminismo al trionfo del capitalismo assoluto”, Jean-Claude Michéa riprende la formula di Castoriadis secondo cui "è da molto tempo che il divario fra la destra e la sinistra, in Francia come altrove, non corrisponde più né ai grandi problemi del nostro tempo né a delle scelte politiche radicalmente opposte." Una valutazione assolutamente banale che però non sembra poi così condivisa a sinistra. Precisa l'autore, che il suo saggio trae origine da uno scambio epistolare con un militante del PCF/Front de gauche per il quale solo "la sempre più crescente indignazione della gente comune" (Orwell) nei confronti di una società sempre più amorale, ineguale ed alienante, può essere la cifra esclusiva della sinistra.

Ragion per cui, non sembra inutile a Michéa ricordare, fin dalle prime pagine - e sotto forma di invito a valutare la cosa -, che "né Marx né Engels si sono mai sognati, nemmeno una sola volta, di definirsi come uomini di sinistra"; aggiungendo inoltre che quando sono arrivati a fare uso di un tal genere di terminologia, per loro "la destra designa l'insieme dei partiti che rappresentano l'interesse (a volte contraddittorio) della vecchia aristocrazia terriera e della gerarchia cattolica.

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il rasoio di occam

Moltitudine, classi e azione sociale

Risposta a Stefano Breda

di Ernesto Screpanti

Breda crede di poter rigettare l’individualismo istituzionale sulla base di una ricostruzione hegeliana della teoria marxiana del capitalismo, ma produce un cortocircuito tra la descrizione della struttura di un modello astratto e la spiegazione nomologico-causale dei processi reali. Una volta tradotta quella descrizione in un linguaggio comprensibile a tutti si scopre che, proprio perché la struttura è posta assiomaticamente come “causa sui”, non può sostituirsi a spiegazioni basate sul metodo dell’individualismo istituzionale

Voglio subito dire che l’articolo di Stefano Breda mi è piaciuto, nonostante abbia di primo acchito trovato sconcertanti alcune sue proposizioni. Alla fine ho capito che dice sostanzialmente le stesse cose che dico io, seppur in un linguaggio diverso.

“Dominio impersonale” è un bell’ossimoro che esprime poeticamente il senso di oppressione che tutti noi proviamo di fronte a mostri totalizzanti come il “capitale multinazionale”, la “speculazione internazionale”, il “mercato sovrano”, o anche soltanto “l’Europa che ce lo chiede”, e giù giù fino alla classe politica costituitasi in “casta”. Ma dal punto di vista scientifico è un non senso. “Dominio”, “Potere”, “Dipendenza”, sono concetti che definiscono una relazione tra agenti sociali. Ci deve essere qualcuno (individuo o gruppo) che domina e qualcuno che è dominato. Non possono essere usati quali definizioni di agenti sociali, come talvolta Breda sembra fare. Può una relazione essere un soggetto?

Se interpretate in quest’ultimo senso alcune affermazioni di Breda paiono sbalorditive.