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losguardo

Di quale esperienza l’Idea di comunismo è il nome?

Roberto Bravi, Giovanni Campailla*

Introduzione

futurismoIl termine comunismo detiene, almeno dalla caduta del Muro di Berlino, una certa opacità spettrale. Il «disastro oscuro»1 dei socialismi realizzati e il conseguente trionfo su scala globale del capitalismo neoliberista, hanno infatti relegato il comunismo – la sua tradizione ideologica, le sue pratiche e, non da ultimo, le categorie politiche e filosofiche del marxismo – nel novero dei cadaveri della Storia. Da più di un decennio, però, questa narrazione sembra esser messa in crisi. Marx è tornato sotto l’attenzione di molti studiosi, e non solo. La riflessione accademica fa nuovamente spazio ad argomenti riconducibili, in qualche modo, al concetto di ‘transizione’. Rivolte o movimenti politici alternativi hanno fatto la loro comparsa un po’ ovunque con una fenomenologia spesso simile: cioè cercando, tramite una riscrittura populista o contro-populista della più tradizionale pratica politica di sinistra, di contrastare l’egemonia economico-politica del capitalismo.

Risulta di estremo interesse allora che nel 2009 si sia tenuto a Londra, al Birkbeck Institute of Humanities, un convegno dedicato all’«Idea di comunismo». A questo ne sono seguiti altri, in Europa e nel mondo, i quali, in un modo o nell’altro, hanno rimesso all’ordine del giorno un dibattito sul nome ‘comunismo’. È senz’altro degno ricordare che ciò accada nella cornice di quella che molti analisti hanno definito la più devastante crisi economico-finanziaria attraversata dal capitalismo fin dai tempi della Grande Depressione.

A quasi dieci anni dalla prima edizione di questo convegno che ha riunito i più celebri fra i cosiddetti radical thinkers contemporanei, viene da chiedersi di che cosa l’ipotesi indicata dalla parola comunismo possa e debba essere il nome; specialmente nella congiuntura storico-politica contemporanea. È comunismo il nome adeguato per un’alternativa politica allo stato di cose presenti? Che rapporto può avere quindi con i tentativi contemporanei orientati in tal senso? A chi si rivolge infine questo nome? In altri termini, quali soggettività possono servirsene e darle corpo nel processo storico reale?

L’obiettivo del presente saggio non è quello di fornire una risposta definitiva a queste domande, ma piuttosto quello di tenerle presenti nella lettura di alcuni interventi al convegno del 2009: quelli di Alain Badiou, Jacques Rancière, Antonio Negri e Slavoj Žižek. Ciò ci permetterà di conservare una visione critica sulla loro maniera, di volta in volta specifica, di articolarvi una risposta. Il dibattito non si è tuttavia chiuso nella cerchia di questi noti pensatori. Pur non potendolo prendere in considerazione in tutta la sua ampiezza, osserveremo, in una sezione finale, come alcune voci, anch’esse ascrivili al campo del pensiero critico, si siano addirittura poste una domanda critica sul suo stesso impianto di base. In effetti, sarà la nostra conclusione, la difficile articolazione di un’esperienza di emancipazione tramite un nome come quello di comunismo, sembra essere l’ostacolo e, al contempo, la posta in gioco di carattere metodologico (oltre che politico) che questo dibattito si è portato avanti fino alle sue edizioni più recenti2.

 

1. Badiou: nominare l’ipotesi

L’intervento di Alain Badiou verte sul tema dell’Idea comunista. Questa è considerata l’idea che fa da cornice e complemento soggettivo a ogni politica di emancipazione degna di questo nome. In senso stretto ‘comunismo’ non è il nome di una politica. Badiou preferisce infatti associare alla politica il riferimento generico all’emancipazione. Comunismo è invece il nome di un insieme di principi e rappresentazioni mentali, che, nella forma di una Idea, forniscono un orientamento all’azione politica ‘soggettivata’. La politica, cioè, è per Badiou un fatto di verità relativa ai soggetti che la effettuano e alle soggettività che essa determina. Tale politica ‘soggettivata’, nella prospettiva badiousiana, si riferisce all’apparizione rara ed eccezionale di una nuova pratica e un nuovo pensiero dell’emancipazione. L’evento di una ‘nuova politica’ è situato nel tempo e nello spazio e spesso è proprio dai suoi riferimenti spazio-temporali che prende il suo nome (‘Rivoluzione francese’ o ‘Maggio ‘68’ ad esempio). Nonostante questa localizzazione, eventi di questo tipo hanno, a suo parere, un valore universale o addirittura una qualità d’eternità, che li iscrive in un tracciato storico. Un tale tracciato storico, dunque, non è pensabile se non a partire da questi stessi eventi. Per dirla nei termini lacaniani ai quali Badiou ama richiamarsi, la politica, intesa come pura sequenza di fatti straordinari, pertiene al dominio del reale, e la Storia al dominio del simbolico. Fra la politica e la Storia vi è il Soggetto, del quale si dovrà definire il rapporto con le altre due a partire proprio dall’Idea nell’ambito dell’immaginario. Il Soggetto è in questo caso considerato da Badiou, in un senso molto prossimo all’esperienza, come l’individuo che sceglie volontariamente di «incorporarsi» alla verità che si è manifestata e sviluppare le possibilità inedite che l’evento originario ha dischiuso. Tuttavia l’iscrizione di questo evento nella Storia, non trova alcuna ragione particolare nell’immanenza di esso, la Storia non è infatti riducibile alla politica. Essa pertiene piuttosto a una valutazione a posteriori delle sue conseguenze e che ad esempio consente a noi di dire, a distanza di più di due secoli, che la Rivoluzione francese sia stata un punto di non ritorno per l’Europa e il mondo intero. Così, secondo Badiou, perché tale iscrizione avvenga per un soggetto che non sia né spettatore passivo dello svolgersi degli eventi, né attore senza pensiero o orientamento, è necessario il riferimento a una Idea. L’Idea è quindi innanzitutto una totalizzazione astratta dei tre elementi presentati (verità, Storia, soggetto individuale), la quale permette all’Individuo «di comprendere come la propria partecipazione a un processo politico particolare (il proprio entrare in un corpo di verità) sia anche, in un certo senso, una decisione storica»3.

Inoltre, se il reale dell’evento è una molteplicità eccentrica rispetto allo «stato della situazione» e la Storia è invece sempre «storia dello stato», l’Idea svolgerà un ruolo di mediazione necessaria. Essa consentirà infatti di iscrivere le conseguenze dell’evento nella trama dei fatti storici, conservando però la loro eccezionalità rispetto alla situazione. È grazie a questa operazione che l’Idea permette di pensare l’alterità simbolica di un altro mondo, procurando un contenuto concreto. È stato il caso dell’esemplarità visibile degli ‘stati socialisti’. Non in quanto questi rappresentassero la realizzazione dell’ipotesi prescritta dall’Idea, ma in quanto essi furono una raffigurazione reale dell’esistenza di questa ipotesi nello stato della situazione mondiale. Lo stesso vale per le grandi figure rivoluzionarie del passato. Anch’esse sono una rappresentazione esemplare della presenza attiva dell’Idea nella storia, al livello questa volta dell’esistenza individuale. I nomi di Robespierre, Toussaint Louverture o Che Guevara, assurgono a una dimensione simbolica, se non addirittura, in termini teoretici, a una sorta di ‘schematismo trascendentale’, che materializza o rende visibile la possibilità di un’altra vita, cioè di una vita secondo l’Idea.

Ma se per essere parte del divenire storico di una verità è in definitiva necessaria, per Badiou, solo «l’esperienza nuda o militante»4 di detta verità, perché aggiungere questa ulteriore operazione? Al di là della sua funzione teoretica, qual è la sua utilità pratica? La risposta di Badiou a questa domanda è che se l’incontro con una verità non è trasmissibile ed è inevitabilmente singolare, per arrivare al punto in cui questo incontro si dà, è necessaria una Idea. Ciò perché l’Idea, secondo Badiou, consente a questa esperienza di essere detta «nel linguaggio impuro dello stato» e di accedere all’ordine delle rappresentazioni. Questo punto sembra richiamare il tema rancièriano del «partage du sensible» (benché in Rancière non ci sia un «evento»). L’evento comporta infatti uno sconvolgimento nell’ordine dei corpi e dei linguaggi e quindi del campo dell’esperienza e della sua articolazione soggettiva. Nel caso di Badiou, che affronta la questione secondo parametri filosofici più classici, è l’Idea che consente all’esperienza di riorganizzarsi integrando gli elementi di novità nella situazione. In questo modo l’«evento», che è per sua natura eccezionale, diviene portatore di possibilità universalmente trasmissibili. Pertanto, come si è accennato in precedenza, l’Idea consente l’incontro fra la politica e la Storia attraverso la costituzione di un immaginario collettivo che permette al militante che consegna un volantino in un mercato di sentirsi parte del movimento complessivo dell’Umanità in cammino verso la sua emancipazione. Lo statuto di finzione di siffatta rappresentazione non è da Badiou considerato un ostacolo. L’elevazione di momenti di verità dispersi e transitori a una dimensione simbolica sublime, seppur fittizia, provvede l’azione di un senso che in se stessa non possiede, ne organizza la continuità e ne consente l’espansione.

 

2. Rancière: l’esperienza dell’ipotesi

Come abbiamo visto nel caso di Badiou, anche secondo Jacques Rancière comunismo non può essere il nome di una politica. Così, per lui una politica di alternativa non può essere nominata altrimenti che con il nome di emancipazione.

Occorre chiedersi allora: nella prospettiva rancièriana, il nome comunismo può tuttavia nominare l’esperienza di cui emancipazione è il nome?

Rancière assume come punto di partenza un’affermazione di Badiou, tratta da un’intervista concessa a «L’Humanité» e ripresa nel suo intervento: «l’ipotesi comunista è l’ipotesi dell’emancipazione»5. Seguendo questa premessa, il termine comunismo è qualificato come intrinseco al concetto di emancipazione. Ma ciò, almeno nel caso di Rancière, va di pari passo con una certa dipendenza del primo aspetto rispetto al secondo. È dunque sul concetto di emancipazione che Rancière indirizza la propria attenzione.

Per specificare questa nozione, il pensatore francese riformula la definizione kantiana dell’Illuminismo: «Emancipazione è l’uscita da una condizione di minoranza»6. Il concetto di emancipazione indica dunque l’esperienza dell’uscita da una tale condizione. È tuttavia su questa stessa esperienza che s’insinua ciò che la mette in scacco. La logica pedagogica tradizionale che presiede l’Illuminismo afferma infatti, secondo Rancière, che «minore è colui che deve essere guidato per non rischiare di perdere il senso dell’orientamento»7. Questa logica pone già in anticipo ciò in cui dovrebbe consistere l’uguaglianza tra il maestro e il suo allievo. Ad essa, Rancière preferisce la logica dell’«uguaglianza delle intelligenze» avanzata dal pedagogo francese Joseph Jacotot. Questi presuppone dall’inizio che esista l’uguaglianza tra i soggetti, ma non presuppone che l’esperienza dell’emancipazione conduca tutti i soggetti agli stessi esiti. Ciascuno è intelligente, pertanto ciascuno lo è a suo modo. Ciascuno cioè sviluppa nel processo di emancipazione una singolarità che non può essere omogeneizzata con le altre.

Rancière quindi non si limita a opporsi alla definizione illuminista di emancipazione. Più acutamente, ne opera uno scarto interno mostrando le contraddizioni storiche e sociali a cui quest’idea ha condotto. A suo parere, infatti, partire dalla disuguaglianza per produrre l’uguaglianza non fa altro che perpetuare indefinitamente la disuguaglianza. Colui che intende emancipare qualcun altro dovrebbe invece essere un «maestro ignorante»: come fu Jacotot con i suoi allievi fiamminghi, impartendo loro il francese limitandosi ad assegnare la lettura della versione bilingue del Télémaque di Fénelon, poiché egli, non conoscendo il fiammingo, non avrebbe avuto modo di «spiegare» la sua lezione8. Ciò vuol dire che colui che intende emancipare non dovrebbe porsi in una posizione di superiorità affinché il secondo raggiunga il suo stesso sapere. Ma piuttosto trasmettere la «volontà» di istituire da sé il processo di emancipazione; e pertanto di «verificare» nella propria esperienza di emancipazione il «potenziale di uguaglianza delle intelligenze».

In questo senso, comunismo può essere il nome adeguato per designare un simile potenziale «transindividuale»9 dell’intelligenza. Esso sarebbe, in questa prospettiva, una proposta coerente in termini di emancipazione. Come infatti scrive Rancière: «L’emancipazione implica così un comunismo dell’intelligenza, messo in pratica dalla dimostrazione della capacità degli ‘incapaci’»10.

Ma in quanto esso nomina l’esperienza della sua stessa ipotesi, la questione si complica. Rancière osserva infatti come comunismo, laddove esso si presenta nella sua concreta realizzazione a livello di comunità, possa essere anche un ostacolo all’emancipazione, ponendosene come suo principio dirigente ed estrinseco. «È qui che appare la difficoltà: in che misura l’affermazione comunista dell’intelligenza di chiunque può coincidere con l’organizzazione comunista di una società? Jacotot negava del tutto questa possibilità»11. E, con lui, la nega anche Rancière, secondo cui l’emancipazione è un’esperienza individuale che può essere comunicata e condivisa con altri individui, ma non un processo di un soggetto collettivo come una comunità.

La vicenda di Étienne Cabet e degli icariani è a questo punto presentata da Rancière come l’esemplificazione della problematica duplicità del comunismo. Da una parte, nome possibile per una politica dell’emancipazione. Dall’altra, nome di un modo di organizzazione di una comunità che non può non riprodurre le divisioni che pretende di abolire.

Rancière spiega come l’esperimento icariano non fallì perché «i caratteri individuali non potevano piegarsi alla disciplina comune». Bensì, perché «la capacità comunista, la condivisione di quella capacità che appartiene a tutti, non poteva privatizzarsi»12. Detto altrimenti, perché il potenziale egualitario del nome comunismo aveva sì nominato quell’esperienza, ma al contempo era stato posto come un obiettivo che la comunità intera avrebbe dovuto raggiungere sotto la guida di un’élite comunista. Esso aveva finito così per nominare il suo opposto, una specifica organizzazione comunitaria che ripropone al suo interno la divisione tra capaci e incapaci. È questo, si potrebbe dire per chiarire ancora la posizione rancièriana, l’esito dell’antica Repubblica platonica così come quello del novecentesco Stato sovietico. La posta in gioco è invece quella – per parlare con i termini che Rancière ha usato nel recente incontro italiano del convegno – di «creare il comunismo»13, cioè di istituire «un tessuto sensibile» della comunità che metta in discussione una tale divisione; creare, qui, non significa dunque produrre un comune che non esiste ancora, ma riconfigurare quello esistente, esibendo il «non-comune nel cuore del comune» come un’«ingiustizia»14.

Comunismo può dunque essere il nome della trasmissione infinita e orizzontale dell’emancipazione o la sua negazione, cioè un’organizzazione estrinseca e verticale di questo processo. In questo senso c’è da chiedersi, come il titolo dell’intervento di Rancière suggerisce, se in fondo l’unica via auspicabile per l’ipotesi comunista, non sia altro che quella di essere «comunisti senza comunismo»; ovvero senza la pretesa di una soluzione statale del problema del «potere di tutti».

 

3. Negri: dentro l’ipotesi

L’intervento di Antonio Negri affronta un analogo nodo teorico, secondo il monismo radicale che caratterizza il suo pensiero. È proprio dal plurale

«essere comunisti» che bisogna partire, per giungere a una possibile definizione del termine. Fin dal principio, si tratta infatti per Negri di specificare l’«essere comunisti» come un modo di porsi nella storia:

Ora la critica conclude che il senso della storia della lotta di classe è il comunismo ‘il movimento reale che distrugge lo stato di cose presente’. Si tratta di starci dentro a questo movimento15.

I comunisti sono dunque coloro che da una parte assumono la permanenza del conflitto di classe all’interno della storia e dall’altra si collocano in questo conflitto. Così essidannocorpoaquelmovimentosoggettivo-oggettivochespinge per l’abolizione della divisione in classi che è causa di un tale conflitto. Questo ‘stare dentro’ al processo storico, secondo le determinazioni che emergono dalla critica dell’economia politica, è però oggi più che mai una necessità oggettiva per chi non voglia farsi delle illusioni. A suo parere, infatti, «non c’è più alcun ‘fuori’ da questo contesto», poiché «la lotta (non solo la lotta ma la consistenza dei soggetti nella lotta) si dà ormai totalmente nel ‘dentro’»16.

L’estensione del capitalismo odierno – come Negri ha sostenuto in forma più sistematica con la trilogia, scritta con Michael Hardt, di Impero, Moltitudine e Comune – arriva fino al cuore dell’organizzazione comunitaria stessa. Esso ne egemonizza completamente, seppure in maniera non univoca e irreversibile, la vita e la sua riproduzione. L’appello a un ‘fuori’ per definire la comunità presente o a venire, sarebbe pura falsificazione. Per sostanziare questa tesi, Negri cita il Marx dei Grundrisse:

Nella società borghese il lavoratore non ha più esistenza oggettiva, esiste solo soggettivamente [nel rapporto di capitale]; ma la cosa che gli si contrappone [l’accumulazione del valore di scambio] è ora diventata la vera comunità, das whare Gemeinwesen […]. Qui il proletario ‘cerca di far sua questa Gemeinwesen ma ne viene ingoiato’17.

Data dunque la posizione attuale occupata dal lavoratore nei rapporti di produzione – nella quale esso tende sempre di più a essere identificato con ciò che egli produce (cioè la rete produttiva) –, il senso di questa ‘internalità’ non può che trovarsi nella riappropriazione di questa vera comunità per come essa si presenta nella sua esperienza. «Il comunismo comincia a configurarsi quando il proletario si pone l’obiettivo di riappropriare il Gemeinwesen per trasformarlo in ordine della nuova società»18.

L’egemonia capitalistica sulla totalità della produzione della vita materiale, non va dunque considerata come una condanna per il lavoratore, che si troverebbe immerso in un ordine sociale alienante, senza più alcuna possibilità di ritornare ad alcuna pratica pre-capitalistica del valore d’uso (la natura, la comunità originaria ecc.) a partire dalla quale articolare una fuoriuscita da esso. La presenza del lavoratore nel capitalismo odierno è al contrario quella di chi produce se stesso e le relazioni con gli altri, in una modalità sempre eccedente rispetto al comando capitalistico, laddove essa deve essere ricondotta alla forma privata dei rapporti di produzione. In questa prospettiva, ‘divenire-comunisti’ è la metamorfosi necessaria per il lavoratore, che vuole riappropriarsi di ciò che produce in comune con gli altri, che è in ultima analisi la comunità stessa.

«Stare dentro» non significa dunque essere condannati, ma al contrario significa imbracciare le nuove possibilità che lo sviluppo capitalistico consente, in termini di nuovi modi di esistenza di classe e di pratiche conseguenti di riappropriazione produttiva:

Non dobbiamo tuttavia scoraggiarci. Come Gramsci ci ha insegnato (nella sua lettura della lotta di classe), il materialismo storico suggerisce di cogliere, attraverso le varie esperienze di uso proletario delle tecnologie e dell’organizzazione sociale capitalistica, la metamorfosi continua della figura, meglio dell’antropologia stessa del lavoratore19.

L’operazione di Negri, dunque, come emerge anche da quanto egli ha affermato più di recente in un’intervista che precede l’edizione italiana del convegno sul comunismo, «non è sapere se è necessaria [la rivoluzione], piuttosto sapere come è necessaria e come è possibile»20.

È tuttavia su questo «come» che sorgono degli interrogativi. Se attraverso l’espropriazione del comune, che si realizzerebbe nella forma del General Intellect, il capitalismo arriva fino al cuore dell’organizzazione comunitaria e pertanto il comunismo risulta essere la trasmissione di questa forma libera dai vincoli privatistici (cioè un principio autonomo di organizzazione sociale), non vi è il rischio che esso rimanga sostanzialmente capitalistico? Inoltre, non vi è anche il rischio, connesso al primo, che questo flusso produttivo eccedente non abbia invece sempre bisogno del capitalismo come suo ‘organizzatore centrale’? In altre parole, il quesito posto da Rancière circa il nome comunismo (se esso nomina il processo organizzativo dell’emancipazione o l’organizzazione sociale) è risolto nella prospettiva negriana in un’immanenza completa al capitalismo. Detto altrimenti, Negri pensa che il capitalismo organizzi le condizioni della sua stessa disarticolazione, nella forma di una virtualità reale del comunismo (o, se vogliamo, della comunità emancipata) nel suo stesso seno. In questo modo, comunismo può essere sia il nome di un’esperienza di emancipazione completa, sia il modo di organizzazione della società intera, senza che questo crei alcuna tensione o contraddizione.

È qui, allora, che percepiamo quanto, fuori da ogni filosofia della storia, dentro la fenomenologia comune, l’eventuale indignazione contro il potere, il suo ordine e i suoi soprusi, e il rifiuto del lavoro salariato (e/o di un lavoro comunque soggetto al fine di riprodurre la società capitalistica) costituiscano elementi essenziali nella costruzione del modello di un’altra società e indichino la virtualità presente di un altro ordine, di un’altra prospettiva di vita21.

Certamente non è impossibile trarre questo ‘immanentismo assoluto’ dal pensiero di Marx, se pensiamo al Manifesto o all’Ideologia tedesca. Ma ad avviso di altri partecipanti al convegno londinese, non solo Rancière ma anche Bruno Boostels e Slavoj Žižek (di cui ci occuperemo nella prossima sezione), esso è più che altro il segno di un’incomprensione della dialettica fra comunismo e capitalismo di cui forse perfino Marx può essere considerato vittima22.

 

4. Žižek: l’ipotesi e i suoi nemici

La paradossale ‘dipendenza’ dal capitalismo che può essere riscontrata nella definizione di Negri del comunismo, è al centro dell’intervento di Slavoj Žižek. Pur assumendo egli alcuni importanti aspetti della critica negriana, non manca nell’identificarne una contraddizione essenziale, che emergerebbe dalle parole usate dallo stesso Negri in Goodbye Mr. Socialism e riprese dallo sloveno nel suo intervento: «È qui che risiede la caratteristica principale del ‘passaggio rivoluzionario oggi’: ‘bisogna far riconoscere al capitale il peso e l’importanza del bene comune e, se non vuol capirlo, imporglielo’». È a riguardo di questo che Žižek osserva come «la formulazione di Negri» non consista nell’«abolire il capitale, ma [nel] costringerlo a riconoscere il bene comune, rimanendo nel capitalismo». Ciò gli consente dunque di affermare che «se mai c’è stata un’idea utopistica di comunismo, è proprio questa»23.

La natura utopica di questa persuasione negriana è per Žižek causata da un’inversione fondamentale dei fattori. A suo parere, all’esatto contrario di quel che sostiene Negri, non è il «flusso» produttivo moltitudinario, la vita sociale prodotta, a essere in eccesso sull’ordine capitalistico, è questo semmai a produrre funzionalmente il suo eccesso nella forma di un flusso che costantemente lo rivoluziona:

Ma, se attraverso uno spostamento parallattico ritenessimo la rete capitalistica stessa come il vero eccesso sul flusso della moltitudine produttiva? E se, mentre la produzione contemporanea di moltitudine produce direttamente la vita, ciò continuasse a produrre un eccesso (che è sempre funzionalmente superfluo), l’eccesso del capitale? E se il vero enigma fosse: perché il continuo e nomadico movimento ‘molecolare’ ha bisogno di una strutta ‘molare’ parassitaria che (in modo ingannevole) appare come un ostacolo alla sua scatenata produttività? Perché nel momento in cui aboliamo questo ostacolo o eccesso, perdiamo il vero flusso produttivo costretto attraverso l’eccesso parassitario?24.

Se dunque per Žižek è fuori discussione che il capitalismo odierno, come sostenuto anche da Negri, ha rivoluzionato la sua funzione, invadendo terreni prima sottratti alla sua competenza (educazione, prigioni, sicurezza ecc.), addivenendo alla mercificazione dell’essere sociale nel suo complesso; allo stesso tempo è altrettanto evidente che se l’obiettivo non è una riforma del capitalismo, ma un suo scardinamento, il «nemico» non può essere individuato nello Stato come fattore di organizzazione, ma piuttosto nel «flusso» che presiede alla dissoluzione costante di quest’ultimo:

La mia ipotesi è questa: se la dinamica contemporanea del capitalismo, proprio perché è ‘senza mondo’, e quindi è un’interruzione di ogni ordine stabilito, aprisse lo spazio per una rivoluzione capace di rompere il circolo vizioso della rivolta e della sua ripetizione, capace cioè di abbandonare lo schema dell’esplosione di un evento dopo il quale le cose tornano alla normalità, e assumesse il compito di un nuovo ‘ordinamento’ contro il disordine capitalistico globale?25

Ponendosi questa domanda, Žižek se ne sta ponendo già subito un’altra: di quale «ordinamento» si parla? Nel suo ragionamento, infatti, la definizione contemporanea dell’ipotesi comunista passa per questa distinzione. A tal fine egli spiega come le contraddizioni e gli antagonismi che mettono in discussione la riproduzione infinita del sistema capitalistico, potrebbero certamente condurre a un cambiamento. Ma non è detto che sia il cambiamento sperato. Occorre quindi analizzare questi antagonismi, che per Žižek sono principalmente quattro:

l’incombente minaccia della catastrofe ecologica, l’inadeguatezza della nozione di proprietà privata applicata alla cosiddetta ‘proprietà intellettuale’, le implicazioni etiche e sociali dei nuovi sviluppi tecnico-scientifici (specialmente in campo biogenetico) e, ultime ma non meno importanti, le nuove forme di apartheid, i buoni Muri e le nuove baraccopoli26.

In tutti questi casi è in gioco una forma di espropriazione della ricchezza ‘comune’. L’ultimo caso è però, a parere di Žižek, qualitativamente diverso dagli altri tre ed è proprio a partire da esso che l’ipotesi comunista si distingue. A suo avviso infatti senza la contraddizione tra Inclusi ed Esclusi, che si manifesta violentemente nello spazio urbano della metropoli, gli altri antagonismi menzionati perdono il loro potenziale sovversivo e possono addirittura condurre a sviluppi reazionari.

La continua recinzione del comune concerne tanto i rapporti tra persone e condizioni oggettive del loro processo vitale, quanto i rapporti tra persone: i ‘commons’ sono privatizzati a discapito della maggioranza proletarizzata. Nondimeno, c’è uno scarto tra questi due aspetti – il comune potrebbe essere restituito all’umanità intera, anche senza comunismo, per esempio in un regime comunitario e autoritario; il soggetto de-sostanzializzato, ‘sradicato’, privato del suo contenuto sostanziale, potrebbe essere neutralizzato anche attraverso il comunitarismo, e trovare così il suo posto in una nuova comunità sostanziale27.

Per questo stesso motivo, il comunismo dovrebbe distinguersi anche per un particolare utilizzo dello Stato. Il filosofo sloveno, come accennato prima, considera lo Stato un operatore fondamentale per una politica di emancipazione adeguata alle sfide contemporanee. Riprendendo una formulazione classica, egli sostiene che «si ha effettivamente dittatura del proletariato solo quando lo Stato stesso è radicalmente trasformato». Ciò perché un tale Stato trasformato, secondo Žižek, dovrebbe fare «affidamento su nuove forme di partecipazione popolare»28.

Ciò va chiaramente nella direzione di alcune delle esperienze più avanzate che hanno avuto luogo negli ultimi anni in America Latina, in particolare in Bolivia. Queste hanno infatti messo in luce, in modo particolare, la questione dello Stato e della sua riforma, nel senso di una maggiore partecipazione di masse popolari da sempre escluse dall’esercizio del potere29.

Pertanto, cercando di capire come Žižek risponde alle domande che hanno fatto da filo conduttore alla nostra analisi, possiamo dire che per il filosofo sloveno il termine comunismo non può essere limitato a nominare una politica della rivoluzione permanente. In questo modo, esso non sarebbe infatti altro che il termine per nominare un’esplosione di emancipazione sostanzialmente momentanea. Il comunismo è invece da lui considerato come un possibile e auspicabile modello di organizzazione sociale: un’organizzazione che non può non tenere in conto lo Stato e la sua progressiva riforma egualitaria.

 

5. Il comunismo: l’idea e la sua esperienza

Il dibattito sul comunismo che si è tenuto nel 2009, sembra riprodurre il classico problema della relazione tra teoria e prassi. In questo caso, ciò si è declinato tramite il tema della difficile articolazione dell’esperienza di emancipazione tramite un nome come quello di comunismo. Benché le ‘soluzioni’ proposte dagli autori segnino una discontinuità l’una dall’altra, si può tuttavia intravedere fra loro una certa continuità metodologica. Tutti e quattro, nonostante in maniere diverse, hanno infatti un approccio ontologico-politico. Per avviarci verso una valutazione conclusiva del dibattito, così come per scorgere uno dei motivi che ne ha segnato la sua vita ulteriore negli anni successivi, è utile fare un breve punto sulla metodologia da loro adottata.

Il caso più esemplare è senz’altro Badiou. Nei suoi testi sulla politica, Badiou si riferisce spesso a una sorta di storia dell’ipotesi comunista ricordandone i nomi propri oltreché che i movimenti: Spartaco e la rivolta degli schiavi, Thomas Müntzer e la rivolta dei contadini tedeschi, Robespierre e la Rivoluzione francese, Toussaint Louvertoure e la rivolta haitiana, Edouard Moreau e la Comune di Parigi, Lenin e la Rivoluzione russa, Mao e la Rivoluzione culturale. In questa storia, Badiou mira a ricostruire un’ontologia particolare, cioè la logica degli enti che hanno sostanziato l’Idea. La sua, quindi, è una prospettiva anti-storicistica, poiché non indica tanto uno sviluppo lineare, quanto un accadere dell’Idea. Egli si serve dei nomi propri che hanno fatto esperienza dell’ipotesi comunista, perché pensa che la filosofia sia «sotto condizione della politica». Ciò significa che la politica definisce ‘da sé’ le sue categorie. Tuttavia, come nel caso in questione, è la filosofia, ‘da sé’, a fornire alla politica l’Idea di comunismo come categoria possibile e «giusta». Così, a ben vedere, la politica non rischia di diventare un mero terreno di verifica della filosofia? Cioè, Badiou non rischia di espropriare le esperienze politiche della loro singolarità storica in nome dell’Idea?

Rancière sembra scartarsi da questo rischio. L’ermeneutica rancièriana dipende completamente dalle esperienze, poiché sono queste a definire la posta in gioco del problema che si pone a livello teorico. Come dimostra il suo intervento sopra analizzato, egli spiega le contraddizioni dell’ipotesi comunista non tanto tramite una dimostrazione filosofica, quanto tramite l’esperimento degli icariani. Rancière, infatti, più che come ‘filosofo’, si comporta come un ‘maestro ignorante’, poiché mostra un’esperienza specifica – come un ‘maestro’ – ma – in quanto ‘ignorante’ – lascia che siano i lettori a trarre una ‘lezione’ da questa esperienza. È per questa via abbastanza singolare che anch’egli pare iscriversi in una prospettiva ontologico-politica anti-fondazionale, poiché non è tanto interessato a ciò che effettivamente producono gli atti di emancipazione, quanto a ciò che cambia nel paesaggio sensibile in cui essi accadono. Viene però da chiedersi: il riferimento a queste esperienze non dovrebbe porre il problema, che è liminare in Rancière, di capire a cosa effettivamente queste esperienze conducono?

Il caso di Negri è ancora più complesso. La sua è un’esplicita ontologia politica, poiché l’«essere comunisti» è una posizione ontologica: si è comunisti perché si è «dentro» la logica di ciò che c’è. Inoltre, il suo «essere comunisti» è una posizione ontologica nella misura in cui è un’esperienza politica attiva. Come abbiamo notato sopra, la teoria e la prassi, nel suo pensiero, sono strettamente correlate. Malgrado ciò, nella sua prospettiva, sembra che la teoria formuli in maniera piuttosto coerente rispetto alla prassi le categorie che questa debba seguire. La ragione di ciò è che, insistendo su un comunismo già esistente, Negri sembra alludere alla formazione di una comunità. Come Rancière mostra, una comunità non può non implicare un’élite, e in questo caso sembra che tale posto di avanguardia sia precisamente quello del teorico che postula il comunismo già esistente. Torniamo quindi, sebbene in modo alquanto diverso, allo stesso circolo badiousiano?

Infine Žižek. L’intervento che abbiamo qui analizzato è in effetti strettamente politico. In generale, però, egli si riferisce spesso alla psicoanalisi lacaniana. Così, nei suoi testi, egli adotta un riferimento al concetto di psiche per fondare le sue teorie socio-politiche relative all’ideologia. Nel suo caso è riscontrabile un’ontologia formale. Egli infatti, ereditando il modello teorico di Lacan, sostiene che i desideri individuali siano formati all’interno della struttura linguistica che li produce. Il reale di questi desideri è pertanto strettamente connesso all’ordine simbolico che li ha resi possibili. Sorgono due domande: in questo senso, Žižek non fa il gioco di quel ‘maestro’ di cui Rancière svela le contraddizioni? Cioè, non finisce per porre il livello della teoria come quella posizione che permette di vedere più a fondo dei soggetti ciò di cui questi sarebbero vittime? Questo è quanto appare nel suo stesso intervento del 2009: la sua insistenza sulle esperienze che implicano il potere statale, sembra infatti una risposta ad alcuni movimenti sociali che non sarebbero capaci, a suo parere, di porsi il problema della presa del potere di Stato30.

L’approccio ontologico-politico, dunque, ha sensi estremamente diversi l’uno dall’altro, ma, nei modi diversi in cui si presenta in ciascun autore, segna quello che è al contempo l’ostacolo e l’obiettivo di questo dibattito, cioè articolare un’idea come quella di comunismo con la sua esperienza. Non è nostro obiettivo qui risolvere questo nodo estremamente complicato del pensiero critico, che rimanda al rapporto classico tra teoria e prassi. Quest’ultimo rapporto ha una storia lunga, che comincia già con Marx (il quale non si spinse fino a descrivere positivamente ciò in cui consiste il comunismo). È stata probabilmente la Scuola di Francoforte ad avere avuto il merito di sottolineare come questo rapporto sia una questione strettamente metodologica: i francofortesi, infatti, sin dalla prima generazione, si sono spinti in un dialogo tra la riflessione filosofica e un’analisi di carattere sociologico o psicologico. Tuttavia, adottare quest’ultimo tipo di analisi presta il fianco a un altro tipo di rischio, che è di segno più politico, cioè quello di non riuscire a pensare il superamento dell’ordine esistente, poiché le scienze sociali hanno la tendenza a limitarsi all’osservazione di una realtà già data.

Il nostro scopo è allora quello di osservare un fatto abbastanza interessante, cioè che questo nodo mostra come le antinomie che animano da sempre il pensiero critico sono tutte presenti negli autori analizzati. Ancorarsi allo studio dei rapporti di forza, può condurre ad assolutizzare l’esistente vedendovi all’interno la creazione del comunismo: è il caso di Negri. Staccarvisi completamente per cercare di pensare ‘da sé’ il non-esistente o il non-visibile, può invece separare il livello della filosofia da quello dell’esperienza politica reale, sussumendo questo nel primo: è il caso di Badiou. Non si può inoltre ridurre gli attori sociali a esseri che riproducono la struttura ideologica capitalistica, come fa Žižek, altrimenti non avremmo più agenti rivoluzionari autonomi e dovrebbe essere semmai la teoria a ‘pensare al loro posto’ e informarne complessivamente l’iniziativa politica. Né infine ci si può limitare a osservare gli spostamenti ‘sensibili’ che una soggettivazione produce, come fa Rancière, perché in questo modo non capiremmo lo specifico modo alternativo effettivamente prodotto.

Queste antinomie hanno segnato la vita ulteriore del dibattito del 2009. Qualcuno, come il già citato Boostels, ha raccolto la scommessa lanciata dalla discussione sull’ipotesi comunista, ribadendone «l’attualità», cioè sottolineando come «il comunismo presupponga l’immanenza di pensiero ed esistenza»31. In altri casi, invece, lo si è visto con una certa distanza. È infatti in relazione a quale esperienza l’idea di comunismo nomini, che, nel 2010, l’editoriale al numero monografico Communisme? della rivista «Actuel Marx», si chiedeva, in maniera critica, se fosse conveniente l’uso del termine ‘comunismo’32.

Che il terreno di indagine debba essere quello dell’Idea di comunismo, non è risultato dunque condiviso dall’intera galassia del pensiero critico contemporaneo. Ma forse non risulta esserlo pienamente neanche tra i partecipanti al convegno. Tra gli interventi analizzati, Rancière ad esempio accetta il temine, ma con una riserva importante, cioè solo se accompagnato da quello di emancipazione. Il problema dell’Idea di comunismo sembra risiedere in effetti nell’impostazione stessa del dibattito. Una domanda che infatti pare emergere da tutti e quattro gli autori, sebbene in modi diversi, ma che non è pienamente formulata, è quella di capire ‘chi’ siano i comunisti. Questa domanda cruciale è stata posta successivamente, in maniera piuttosto chiara, da Étienne Balibar: più che chiedersi «cosa» sia il comunismo – ciò che presuppone che il comunismo ci sia stato, ci sia o non ci sia ancora stato – occorrerebbe, a suo parere, capire «chi sono i comunisti»33. Cioè quale sia l’esperienza soggettiva che permette di dire che alcune soggettività siano comuniste.

Il dibattito sul nome comunismo ha quindi aperto una prospettiva che verte non tanto sul nome comunismo, quanto sull’esperienza soggettiva che il termine nomina. Ciò significa, in ultima analisi, che il pensiero critico contemporaneo si rende conto che una teoria non può non essere informata dall’esperienza che la rende una teoria ‘critica’. Quel che resta aperto è capire come si costituisce questo riferimento all’esperienza. Le risposte che tale dibattito ci fornisce a questo proposito sono varie, ma in modi diversi tracciano un’antinomia che è da sempre interna al pensiero critico, quella cioè di stabilire quale sia la ‘verità pratica’ di una ‘teoria’ che intende essere ‘critica’.


* Sebbene il testo sia condiviso da entrambi gli autori, le sezioni 1, 3, 4 sono da attribuire a Roberto Bravi. l’Introduzione e le sezioni 2 e 5 a Giovanni Campailla.

Note
1 Come suona il titolo di un volume di Alain Badiou, uno dei più autorevoli partecipanti al suddetto convegno. A. Badiou, D’un désastre obscur. Droit, État, politique [1998], Paris 2013.
2 La prima edizione di questo dibattito, che è quella a cui principalmente ci riferiamo, è quella tenutasi a Londra nel marzo 2009 (The Idea of Communism, a cura di C. Douzinas e S. Žižek, London 2010; trad. it. L’Idea di comunismo, Roma 2011 [da qui in avanti, questo volume verrà indicato con IC]). A questa sono seguiti altri incontri, che non sempre hanno avuto un rapporto positivo con la prima, ma alla quale vi è stato un implicito riferimento. All’incontro di Londra ne seguì un altro a Parigi nel gennaio 2010, ‘Puissances du communisme (De quoi communisme est-il aujourd’hui le nom?)’ (vedi il numero della rivista «ContreTemps» che lo precedette De quoi le communisme est-il le nom?, a cura di D. Bensaïd, S. Kouvelakis e F. Sitel, «ContreTemps», IV, hiver 2009; alcuni interventi di questo convegno sono stati poi pubblicati nel dossier Communisme?, «Actuel Marx», 2010, 2). E, più avanti, altri ancora, a Berlino, sempre nel 2010 (L’idée du communisme. Conférence de Berlin, a cura di A. Badiou e S. Žižek, Paris 2011), a New York nel 2011 (The Idea of Communism 2: The New York Conference, a cura di Žižek, London 2013), a Seoul nel 2013 (The Idea of Communism 3: The Seoul Conference, a cura di Taek-Gwang Lee e S. Žižek, London 2016) e a Roma nel 2017 (a questo proposito si può provvisoriamente vedere 1917-2017: il futuro alle spalle, «il manifesto», giovedì 12 gennaio).
3 IC, p. 12.
4 Ivi, p. 20.
5 Ivi, p. 191.
6 Ivi, p. 192.
7 Ibid.
8 Cfr. J. Rancière, Il maestro ignorante [1987], trad. it. a cura di A. Cavazzini, Milano-Udine 2008.
9 Cfr. A. Cavazzini, Intelligenza, eguaglianza, volontà, in J. Rancière, Il maestro ignorante, cit.
10 IC, p. 193.
11 Ibid.
12 Ivi, p. 194.
13 J. Rancière, La creazione non è un pranzo in salotto, «il manifesto», 12 gennaio 2017.
14 J. Rancière, Non Comune, «OperaViva», 29 giugno 2017, http://operaviva.info/noncomune/.
15 IC, p. 179.
16 Ivi, p. 180.
17 Ibid.
18 Ibid.
19 Ivi, p. 181.
20 A. Negri, Il desiderio che eccede il bisogno, intervista con F. Raparelli, «il manifesto», 12 gen- naio 2017.
21 IC, p. 184.
22 Cfr. J. Rancière, in IC, pp. 194-195; B. Boostels, L’ipotesi dell’“estremismo di sinistra”. Il comu- nismo nell’età del terrore, in IC, pp. 54-60. Per quanto riguarda Žižek vedi la prossima sezione di questo saggio.
23 IC, p. 247.
24 Ivi, pp. 247-248.
25 Ivi, p. 243.
26 Ivi, p. 235.
27 Ivi, p. 237.
28 Ivi, pp. 244-245.
29 Sull’esperienza bolivariana si veda anche B. Boostels (in IC, pp. 64-77).
30 S. Žižek, The Simple Courage of Decision: A Leftist Tribute to Thatcher, «NewStatesman», 17 aprile 2013.
31 B. Boostels, The Actuality of Communism, London 2011, p. 39.
32 Présentation del dossier Communisme?, «Actuel Marx», XLVIII, 2010, 2.
33 Cfr. É. Balibar, Remarques de circonstance sur le communisme, «Actuel Marx», XLVIII, 2010, 2, pp. 33-45.

Roberto Bravi
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Giovanni Campailla, Université Paris Nanterre, Lab. Sophiapol
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