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Gaza. La Russia batte un colpo. All’ONU un piano alternativo a quello di Trump
di Redazione
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite lunedì doveva votare su una bozza di risoluzione presentata dagli Stati Uniti per approvare il piano di Trump per Gaza. Il testo prevede in particolare un mandato fino alla fine di dicembre 2027 per un “comitato per la pace” che dovrebbe essere presieduto dal presidente degli Stati Uniti e da Toni Blair e autorizza l’invio di una “forza internazionale di stabilizzazione”.
Ma il sito statunitense Axios fa sapere che la Russia ha di fatto già respinto la bozza di risoluzione degli Stati Uniti su Gaza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Non solo. Mosca ha infatti presentato una sua contro-bozza di risoluzione.
Nella bozza russa pubblicata sempre da Axios, si chiede che sia il segretario generale delle Nazioni Unite “a individuare opzioni per l’attuazione” del Piano firmato a Sharm el Sheik. E gli chiede di presentare rapidamente al Consiglio di Sicurezza un rapporto generale che contenga anche “opzioni sul dispiegamento di una Forza internazionale di stabilizzazione a Gaza”, una accezione diversa rispetto al testo statunitense che conteneva tra l’altro i dettagli della forza militare internazionale da dispiegare nella Striscia di Gaza.
Nei giorni scorsi, gli statunitensi avevano fatto circolare informalmente una bozza, sostenendo di avere il supporto dei Paesi della regione per l’autorizzazione a una forza di stabilizzazione e a un consiglio transitorio per la governance di Gaza per due anni.
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Perché accuso 63 nazioni di complicità nel genocidio di Gaza
Middle East Eye intervista Francesca Albanese
La relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, ha accusato le principali potenze europee, tra le quali Regno Unito, Italia e Germania, di complicità nel genocidio di Gaza e ha avvertito che i funzionari dei loro governi dovranno affrontare conseguenze legali.
In un'intervista rilasciata al podcast Expert Witness il 3 novembre, Albanese ha discusso i risultati del suo ultimo rapporto, intitolato Gaza Genocide: A Collective Crime , in cui ha citato prove della presunta responsabilità di 63 stati nel consentire le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.
Nonostante le prove schiaccianti di genocidio e atrocità di massa a Gaza e in Cisgiordania, gli stati più potenti d'Europa continuano a fornire copertura diplomatica, militare e politica a Israele, ha dichiarato a Middle East Eye.
Ha criticato il primo ministro britannico Keir Starmer per non aver riconosciuto il rischio di genocidio e per la presunta complicità del suo governo nella condotta di Israele contro i palestinesi.
"Il Regno Unito è uno di quei casi interessanti in cui la leadership politica ha contribuito a creare consenso attorno alla guerra che Israele ha scatenato contro la popolazione di Gaza", ha ricordato.
Ha inoltre denunciato la repressione del Regno Unito nei confronti di Palestine Action, affermando che ha contribuito a creare "un clima di complicità".
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Noialtri girardiani
Una riflessione a dieci anni dalla scomparsa del filosofo
di Alessandro Lolli
“Chissà che direbbe se fosse ancora vivo” si sospira pensando a tutti i grandi maestri che ci hanno lasciato e che, per un motivo o per l’altro, supponiamo avrebbero tanto da dire sulla nostra povera contemporaneità. L’idea è che i nostri tempi, che costoro non hanno fatto in tempo a vedere, portino il segno visibile delle loro intuizioni finalmente avverate oppure che presentino nuove sfide che sembrano fatte apposta per essere interpretate dalla loro cassetta degli attrezzi teoretica. Non sono il solo a pensare che entrambe queste affermazioni siano vere per René Girard, il grande filosofo e antropologo francese scomparso precisamente dieci anni fa, il 4 novembre 2015.
Non sono il solo a pensare che il mondo che abitiamo da quindici anni a questa parte sia particolarmente suscettibile di analisi girardiane, un mondo che Girard ha fatto in tempo a scorgere ma non a commentare: le sue ultime apparizioni pubbliche risalgono alla fine del primo decennio degli anni Duemila quando la rivoluzione tecnologica che ci avrebbe costretto a parlare di “capro espiatorio” quasi ogni santo giorno era appena iniziata. Non sono il solo a pensare, infine, che proprio i social network siano, da un lato una sorta di piastra di Petri del pensiero girardiano, dall’altro un acceleratore di queste dinamiche che rende le sue riflessioni più attuali che mai.
Già ai suoi tempi Girard notò che la diffusione nella società della locuzione “capro espiatorio”, tanto nel linguaggio giornalistico quanto in quello quotidiano, comportava importanti conseguenze. A differenza di tanti pensatori che sono gelosissimi della loro ridefinizione tecnica di un concetto noto a tutti e passano la loro carriera a squalificare gli usi “barbari” di quella parola che è diventata il centro del loro programma teorico, Girard riconobbe un sostanziale accordo tra la sua raffinatissima comprensione del termine, fondata su una vera e propria Teoria del tutto, e quella del senso comune. Proprio da questa comprensione generale però, come vedremo, deriva secondo lui la progressiva perdita di efficacia del meccanismo e, allo stesso tempo, una proliferazione dei fenomeni ascrivibili allo stesso: di quelli veri e di quelli falsi.
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La settimana che ha cambiato il fronte: la caduta di Kupyansk e l’avanzata russa
di La Redazione de l'AntiDiplomatico
Negli ultimi sette giorni il fronte ucraino ha subito uno dei peggiori rovesci dall’inizio del conflitto. Mentre le cancellerie europee continuano a ripetere meccanicamente la formula dello “stallo”, le forze russe hanno riconquistato sedici località, inclusa la città chiave di Kupyansk, un nodo logistico il cui controllo era considerato vitale per l’intera difesa ucraina nel settore di Kharkov. Secondo il Ministero della Difesa russo, le unità impegnate nell’operazione hanno avanzato simultaneamente su più assi, liberando Dvurechanskoye, Tsegelnoye e Petropavlovka nella regione di Kharkov, Novosyolovka, Stavki, Maslyakovka, Yampol e Platonovka nella Repubblica Popolare di Donetsk, oltre a Gai, Nechayevka e Radostnoye nella regione di Dnepropetrovsk e diversi centri nello Zaporozhye, tra cui Malaya Tokmachka, Yablokovo, Ravnopolye e Vesyoloye. La riconquista di Kupyansk, in particolare, rappresenta un punto di svolta.
Situata sulle rive del fiume Oskol e protetta da alture strategiche, la città era divenuta uno dei principali bastioni ucraini a nord. Per mesi il regime di Kiev ha tentato di mantenerne il controllo non solo per ragioni militari, ma anche per motivi simbolici: la linea fortificata che si estendeva da Kupyansk verso ovest era la stessa su cui l’Occidente aveva costruito la narrativa della “resistenza ucraina”. La sua caduta apre ora la strada a un arretramento ancora più profondo delle forze ucraine nella regione. Parallelamente all’avanzata sul terreno, Mosca ha condotto una serie di operazioni coordinate contro l’infrastruttura militare ucraina: un attacco massiccioo e sei colpi combinati hanno bersagliato impianti dell’industria militare, infrastrutture energetiche e di trasporto, siti di assemblaggio di droni d’attacco e aree di dispiegamento temporaneo delle unità ucraine, comprese quelle composte da mercenari stranieri. Il bilancio umano e materiale per Kiev è pesantissimo.
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Invasione-suicidio: ecco perché Trump fallirà col Venezuela
di Pino Arlacchi*
Tra le false narrative dei fatti del mondo che imperversano in Occidente, quella sul Venezuela è la più oltraggiosa. Non credete a una parola di ciò che i padroni dei mezzi globali d’informazione dicono sul paese, Maduro e l’aggressione iniziata dagli Usa 27 anni fa, con l’elezione a presidente di Hugo Chávez, e tuttora in corso.
Gli eventi quotidiani smentiscono le menzogne che tentano di coprire una guerra di rapina e sopraffazione coloniale condotta da una potenza giunta all’ultima tappa del suo declino. Il Venezuela è un paese forte, stabile, e deciso a non piegarsi. Un paese che vincerà, pur pagando duramente il prezzo della sua sovranità. La sconfitta Usa sarà la 65ª dall’inizio della Guerra fredda (la 66ª è in dirittura di arrivo, in Ucraina). E ciò avverrà sulla scia di quanto accaduto a quasi tutte le loro guerre, invasioni e tentativi di cambio di regime. Controllate le cifre sfogliando lo studio appena pubblicato su Foreign Affairs, bibbia dell’establishment Usa.
La domanda giusta da porsi, allora, non è quella su quanto durerà Maduro, ma quella su quanto durerà Trump. L’aggressione è un’ulteriore tacca anti-Trump che il deep state ha segnato sulla cintura. Pentagono e intelligence s’oppongono a questa pantomima dello sbarco in Normandia voluta da Rubio e sottoscritta dal presidente. Il deep state, vero padrone dell’America, subisce, abbozza, di fronte a una mossa di politica estera sconsiderata, contraria all’interesse nazionale e decisa da un presidente eletto, per giunta, con il mandato di porre fine alle guerre (e alle sconfitte) infinite.
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Paolo Virno filosofo dell’avvenire
di Paolo Vernaglione Berardi
Per Nietzsche i filosofi dell’avvenire sarebbero stati quelli che, avendo attraversato la catastrofe della modernità, avrebbero vissuto il tempo nuovo del pensiero. Paolo Virno è stato e sarà filosofo dell’avvenire. Lo è stato perché ha praticato l’autonomia dell’intelletto e ha identificato in pieno l’intelletto con la prassi. In questo è consistita la sua maestria. Paolo ha vissuto fino in fondo e fino alla fine la seconda metà dello scorso secolo e in tre momenti tra fine secolo e il secondo decennio di questo, è stato artefice di una teoria politica permanente.
Il primo momento è stato nel 1977, quando chi aveva 18 anni era un “cane sciolto”, leggeva Lotta continua e a volte Rosso e senza conoscerlo riconosceva un’appartenenza, una passione e una rottura. L’appartenenza istintiva era quella a una storia iniziata nei primi anni Sessanta e culminata nel ’68; ed era quella a una intellettualità di massa che, come aveva mostrato Michel Foucault proprio nell’annus terribilis, archiviava l’intellettuale universale e trovava nella metropoli il campo specifico della prassi, dei conflitti e dell’esodo dalla società del lavoro. La passione era quella del personale che è politico, e lo sarebbe sempre stato, ed era la passione di dover fare la cronaca del presente, di registrare con la parola scritta quel presente che Paolo indicava come il tempo storico in cui cogliere l’occasione rivoluzionaria. La rottura è stata quella di quel ‘77 fenomenale che Paolo riconosceva come il momento di esplosione del capitalismo industriale e l’avvento sulla scena della storia di nuovi soggetti sociali che si liberavano dal lavoro, dalla delega e dalle politiche d’ordine e giudiziarie del PCI che si faceva stato e dei sindacati compatibili e concertanti.
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Turn up the… History. Riorientare il desiderio e l’azione
di Silvano Poli
G. W. F. Hegel affermava che la lettura del giornale è la pregheria dell’uomo moderno. Inevitabile come il segno della croce per ogni buon cristiano, molti di noi l’altro ieri hanno aperto gli occhi e scrollato le notizie sul loro calamitico smartphone. A colonizzare il “feed” (quella che una volta era la home) c’era la vittoria di R. Mamdani a nuovo sindaco della Grande Mela. L’entusiasmo, o l’astio sono palpabili, gli appellativi arcinoti e ripetuti fino allo sfinimento: Mamdani è di colore, musulmano e pure socialista.
Il trionfo newyorkese è solo la ciliegina sulla torta di una serata che per i Dem è puro ossigeno. Nella stessa notte, infatti, il partito blu si è portato a casa i Governatori di New Jersey e di Virginia, affiancando anche la maggioranza nel Parlamento federato dello stato “Madre dei Presidenti”. Decisivi sono state anche la vittoria della “Proposition 50” per la ridefinizione dei collegi dei rappresentanti alla Camera – classica storia di Gerrymandering e opposizione al Texas rosso – fortemente voluta dal partito Dem Nazionale e osteggiata ferocemente da Trump; così come la riconferma di tre giudici nella corte federale della Pennsylvania. In breve, dopo mesi di stato comatoso, questo è forse il primo colpo di reni da parte di un partito che sembrava aver assorbito tutta l’inettitudine di Biden e l’ignavia di Harris – che con Mamdani è riuscita a non prendere ancora una volta una posizione strategicamente intelligente. È, di certo, una vittoria degli outsider, di quelle frange ostracizzate dal partito principale: dimostrazione di come il core del partito sia ancora dominato da un’avversione antipopolare che non ha nulla da invidiare ai neocons, ai tecno oligarchi e ai Trump Boyz. E, tuttavia, è indubbio che dopo mesi, se non anni di notizie pessime, una buona notizia non possa non avere l’effetto di galvanizzare l’ambiente e tutti i movimenti.
È certo che Mamdani rappresenti uno dei migliori risultati auspicabili negli USA e che l’egemonia del gigante d’oltreoceano ci porti a fare nostre le sue vicissitudini, a renderci tristi per le sconfitte dei (presunti) “compagni” a stelle e strisce ed entusiasti per le loro vittorie.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Diciassettesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE VII
g. Sindacato, aziende concessionarie e scioperi
Successivamente, Tomskij esamina il ruolo del sindacato nel settore delle aziende concessionarie, ovvero gli stranieri che hanno ottenuto dallo Stato il permesso di esercitare la propria attività di impresa nel Paese dei Soviet. Pregherei di prestare la massima attenzione a questo brano, perché in esso sono contenute tutte quelle oggettive contraddizioni del sindacato in una NEP che oggi è tanto rivalutata, per non dire osannata da un certo revisionismo neanche troppo strisciante.
Fare onestamente, efficacemente, sindacato in una situazione socioeconomica sempre più disgregata dalle spinte centrifughe di dinamiche capitalistiche di diversa natura, oltre che da frequenti e concomitanti sovrapposizioni e interazioni (o interferenze) degli organismi di partito che contribuivano a confondere ulteriormente le acque, in una prospettiva oggettivamente schizofrenica, dal momento che tali concessioni erano favorite perché rappresentavano economicamente una boccata di ossigeno, ma non dovevano in alcun modo rappresentare una concessione o, peggio ancora, CEDIMENTI, anche sul terreno della lotta di classe, man mano che si aprivano le gabbie diventava un’impresa sempre più ardua. Diamo ora la parola al Segretario:
Permettetemi ora qualche parola del lavoro sindacale nelle aziende concessionarie. Due sono le deviazioni che possiamo notare da parte dei sindacati. La prima consiste nel riprodurre anche in tali aziende, meccanicamente e in toto, il metodo adottato nelle statali: nelle statali ci sono le assemblee di produzione? Facciamole anche nelle concessioni! Nelle statali c’è la commissione di produzione? Portiamola anche di là! La campagna per la la produttività del lavoro? Lo stesso anche lì! E così via. E che questa sia una deviazione in molti, ancora, non lo capiscono! E c’è anche l’estremo opposto.
Di titubanze e atteggiamenti ambigui verso le concessioni purtroppo ne abbiamo, e questo ci porta a mantenere una linea ferma, definita centralmente, nei confronti della tattica da tenere con le aziende concessionarie.
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Musk e Wikipedia: la guerra delle enciclopedie
di Riccardo Fedriga
«L’errore è la causa della miseria umana; è il cattivo principio che ha generato il male nel mondo; per opera sua nascono e perdurano nell’anima nostra tutti i mali che ci affliggono; solo applicandoci seriamente a evitare l’errore possiamo sperare in una salda e autentica felicità». Così Nicolas Malebranche apriva, nel 1674, la sua Recherche de la vérité. La verità, per il filosofo francese, non era possesso ma esercizio: un atto di vigilanza contro l’illusione di una chiarezza apparente. Cercarla, diremmo oggi, significava interrogare i propri pregiudizi, svelarne le assunzioni non giustificate, non confermarli.
Passano i secoli, le epoche si sovrappongono, e nel nostro presente, il 30 settembre 2025, tale Elon Musk twitta su X: «We are building Grokipedia @xAI — a massive improvement over Wikipedia. Frankly, it is a necessary step towards the xAI goal of understanding the Universe».
Il tempo fugge, ma gli errori restano e il povero Malebranche se n’è andato a gambe all’aria: la verità non si cerca più, è tale perché garantita. Sorge un sospetto, aleggia uno spettro: non è che dietro il disegno di “comprendere l’universo”, come scrive il tycoon, si nasconda l’antichissima voglia di prendere in mano le redini del potere? Sembrerebbe. Per Musk, infatti, “migliorare” Wikipedia significa cancellare un sapere collaborativo, plurale e verificabile e sostituirlo con un’unica fonte di conoscenza sorvegliata: non più il sapere distribuito delle comunità online, ma l’intelligenza artificiale di un sistema proprietario, elevata a dogma di una nuova teologia tecnocratica. È un passaggio che dice molto sul rapporto tra conoscenza e controllo, tra la libertà come accesso socialmente condiviso al sapere e le forme del potere.
Si capisce allora che cosa si celi dietro una critica a un’enciclopedia: il desiderio di ricondurre la molteplicità dei saperi a un principio d’autorità, di restituire alla verità una dimensione quasi teologica. In questa prospettiva, ciò che è vero non si verifica ma si crede: la conoscenza diventa un atto di fede nell’apparato che la produce e la custodisce, una forma di potere che si presenta come neutrale perché si presenta come unica e chiusa a ogni interpretazione.
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Output potenziale vs piena occupazione
Implicazioni per l’economia italiana di un cambio di paradigma
di Davide Romaniello, Antonella Stirati
Abstract: Nel 2024 sono state introdotte nuove regole fiscali a cui gli Stati dell’Unione Europea devono conformarsi. Tali regole, tuttavia, appaiono nella sostanza molto simili alle precedenti e non sembrano risolvere i limiti già evidenziati dall’European Fiscal Board (2019). Oltre a discutere criticamente queste nuove regole, il presente contributo testa l’effetto di una politica alternativa, orientata al raggiungimento di un basso tasso di disoccupazione, sulle principali variabili di finanza pubblica rilevanti per le valutazioni della Commissione europea. Il caso di studio riguarda l’Italia, scelta sia per il peso della sua economia sia per il ruolo paradigmatico nell’esperienza di austerità, e che, quindi, riteniamo sia meritevole di un’analisi approfondita
1. Introduzione
Nel 2024 sono state introdotte nuove regole fiscali a cui gli Stati dell’Unione Europea devono conformarsi. Tali regole, tuttavia, appaiono nella sostanza molto simili alle precedenti e non sembrano risolvere i limiti già evidenziati dall’European Fiscal Board (2019). Oltre a discutere criticamente queste nuove regole, il presente contributo testa l’effetto di una politica alternativa, orientata al raggiungimento di un basso tasso di disoccupazione, sulle principali variabili di finanza pubblica rilevanti per le valutazioni della Commissione europea. Il caso di studio riguarda l’Italia, scelta sia per il peso della sua economia sia per il ruolo paradigmatico nell’esperienza di austerità, e che, quindi, riteniamo sia meritevole di un’analisi approfondita. Il lavoro riprende un articolo degli autori in corso di pubblicazione su The Review of Evolutionary Political Economy e si affianca al contributo di Claudia Ciccone recentemente apparso su questa rivista.
2. Le nuove regole fiscali per i Paesi ad alto debito
Le nuove regole fiscali dell’Unione Europea, entrate in vigore il 30 aprile 2024, prevedono che Commissione europea, governi e Consiglio europeo concordino un piano di aggiustamento strutturale della durata di 4–5 anni (estendibile a 7 in presenza di riforme e investimenti coerenti con gli obiettivi UE). Il parametro centrale sarà la crescita della spesa pubblica netta, cioè al netto di interessi sul debito, fondi UE, cofinanziamenti, misure straordinarie e variazioni cicliche dei sussidi di disoccupazione. Deviazioni superiori allo 0,3% in un anno o allo 0,6% cumulato attivano la procedura per disavanzo eccessivo, imponendo una riduzione del disavanzo dello 0,5% annuo.
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La privatizzazione del futuro e i suoi disertori
di Mauro Armanino
Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Casarza Ligure, novembre 2025. Chi controlla il presente controlla il passato. Chi controlla il passato controlla il futuro. Lo scrisse il romanziere e militante George Orwell nel suo libro dal titolo ‘1984’. Ci troviamo nell’altro millennio e siamo testimoni più o meno consapevoli del progressivo spossessamento del futuro dei poveri. Si trovino essi nella parte ‘sud’ o ‘nord’ del mondo così com’è stato ridotto in questi ultimi decenni della storia. La tragedia provocata delle oltre 50 guerre in atto nel pianeta e la conseguente creazione di milioni di rifugiati e richiedenti asilo non è altro che un futuro trafugato e che mai più troverà dimora. La strategia di controllo mirato e spesso istituzionalmente violento delle migrazioni internazionali conferma, specie nelle migliaia di morti alle frontiere, l’arbitraria e spesso definitiva sottrazione del futuro a chi aveva il diritto di cercarlo altrove.Chi controlla il presente controlla il passato. Chi controlla il passato controlla il futuro. Lo scrisse il romanziere e militante George Orwell nel suo libro dal titolo ‘1984’. Ci troviamo nell’altro millennio e siamo testimoni più o meno consapevoli del progressivo spossessamento del futuro dei poveri. Si trovino essi nella parte ‘sud’ o ‘nord’ del mondo così com’è stato ridotto in questi ultimi decenni della storia. La tragedia provocata delle oltre 50 guerre in atto nel pianeta e la conseguente creazione di milioni di rifugiati e richiedenti asilo non è altro che un futuro trafugato e che mai più troverà dimora.
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A letto con il nemico
di Gianandrea Gaiani
Le indagini della magistratura tedesca sul sabotaggio dei gasdotti Nord Stream minacciano di aprire una nuova frattura politica tra i Paesi europei circa il sostegno all’Ucraina. Dopo tre anni di inchiesta, gli investigatori federali tedeschi ritengono di aver raccolto prove che portano a un’unità d’élite di Kiev come responsabile dell’attacco avvenuto nel settembre 2022 nel Mar Baltico contro i gasdotti subacquei che uniscono Russia e Germania.
Il 10 novembre Wall Street Journal ha riportato l’attenzione su un attentato terroristico contro gli interessi di Germania ed Europa che senza dubbio può essere definito il più grave attacco strategico alla Germania dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Un attentato (la Procura Generale russa ha aperto un’indagine per terrorismo internazionale del tutto ignorata qui in Occidente) di cui comprensibilmente non si vuole più parlare in un’Europa che si ostina a considerare stretti alleati i suoi carnefici.
A proposito di “guerra ibrida” e “guerra delle percezioni” (di cui va tanto di moda parlare) meglio ricordare che per mesi politici, opinionisti e media allineati hanno puntato il dito contro Mosca per l’attentato ai gasdotti e chi faceva notare quanto fosse ingenuo ritenere che i russi facessero esplodere infrastrutture energetiche che avevano pagato oltre 20 miliardi di euro e che dopo la guerra avrebbero potuto riprendere a rifornire l’Europa di gas russo veniva bollato come “putiniano”.
Del resto è apparso subito chiaro che le responsabilità erano evidentemente da ricercare in Ucraina e tra i suoi alleati. Le conclusioni dell’indagine giudiziaria tedesca potrebbero quindi mettere a dura prova i rapporti tra alcuni Paesi alleati dell’Ucraina e tra europei e Kiev.
La squadra di investigatori ha ricostruito nei dettagli la dinamica del sabotaggio che fece esplodere i gasdotti Nord Stream 1 e 2, considerati dai detrattori dell’opera un simbolo della dipendenza energetica europea dal gas russo che però, meglio non dimenticarlo, ha assicurato per anni flussi infiniti di energia a prezzo conveniente costituendo il cardine dello sviluppo economico europeo.
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Gaza e Darwin
di Il Simplicissimus
Oggi che la cronaca langue forse è il caso di fare qualche passo oltre la soglia delle tristi cronache. Tutte le persone dotate di un cervello e di un cuore, cosa ormai piuttosto rara, si domandano come sia stato possibile assistere per due anni a un genocidio a cielo aperto come quello di Gaza senza intervenire, anzi armando e sostenendo finanziariamente il sionismo stragista. Parlo dell’Occidente ovviamente, che solo dopo due anni di orribili massacri ha cominciato a prendere ipocritamente e timidamente le distanze, più pro forma che nella sostanza. Tanto che la famosa tregua di Trump, in realtà mai davvero osservata, fondava le sue basi sulla messa in mora dell’idea di uno Stato palestinese. Ora possiamo discutere all’infinito del potere delle lobby israeliane che ovviamente esiste e non può essere messo da parte, ma con questo non si coglierebbe il nucleo di un problema che si ripresenta di volta in volta con sempre maggior frequenza negli ultimi anni. Per esempio il cinismo assoluto con cui le élite occidentali hanno immolato il popolo ucraino in nome delle loro mire sulla Russia, per esempio la noncuranza verso le vite dei loro stessi cittadini facendoli divenire cavie paganti dell’industria farmaceutica, per esempio l’impudenza nel sottrarre diritti e libertà facendo finta che questa sia democrazia.
Tutto questo va spiegato in termini più profondi, cioè in quelli della cultura anglosassone che ha di fatto spazzato via tutte le altre, almeno nel nostro mondo al tramonto. Essa si regge da secoli su tre pilastri: l’individualismo assoluto che esalta le virtù dello scontro e sottovaluta il solidarismo, il maltusianesimo da ricchi che vede la soluzione di ogni problema in una caduta demografica e il darwinismo sociale.
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Il Teatro dell'Assurdo: cosa significa davvero il Piano in 28 punti
di Pepe Escobar – Strategic Culture
I chihuahua della guerra continueranno ad abbaiare mentre l'OMS continuerà ad andare avanti....
Il "piano di pace" in 28 punti del Capocirco per l'Ucraina può essere visto come una foca domestica che sguazza in uno stagno per divertire le gallerie. E poi passiamo a un'altra attrazione.
Eppure, se preso sul serio – e questo richiede non un pizzico ma una botte di sale – è come un gemello del "piano" del Capocirco per Gaza, questa volta con l'obiettivo di strappare una patetica "vittoria" dalle fauci della sconfitta strategica de facto dell'Impero del Caos.
Esaminiamo le reazioni. Qui troverete l'analisi di Larry Johnson – che condivido – ma soprattutto il video della folgorante intervista di due ore che abbiamo avuto a metà settimana a Mosca con l'eccezionale Maria Zakharova, la portavoce del Ministero degli Esteri più articolata del pianeta.
Quello che la signora Zakharova ci ha essenzialmente detto è che a metà settimana non c'è stata alcuna reazione russa perché Mosca non aveva ricevuto nulla di concreto: "Quando avremo informazioni ufficiali, quando le riceveremo tramite un canale pertinente, naturalmente saremo sempre aperti al lavoro."
Lo stesso valeva per il Cremlino. Portavoce presidenziale Dmitry Peskov: "No, non abbiamo ricevuto nulla ufficialmente. Vediamo alcune innovazioni. Ma ufficialmente, non abbiamo ricevuto nulla. E non c'è stata alcuna discussione sostanziale su questi argomenti."
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L imperialismo è soprattutto una guerra di classe
di comidad
I governi e i media europei fanno sfacciatamente il tifo per l’intervento militare statunitense in Venezuela; non a caso un po’ alla volta tutti i paesi europei stanno scoprendo di avere qualche cittadino ingiustamente detenuto dal regime di Maduro. Forse però l’attesa sarà delusa. Quello che dice Trump ovviamente lascia il tempo che trova, visto che può cambiare idea di lì a cinque minuti; quindi va presa con le molle la sua dichiarazione circa la possibilità di aprire un dialogo col regime venezuelano.
L’apertura diplomatica potrebbe preludere ad un attacco proditorio, com'è avvenuto contro l’Iran; oppure potrebbe trattarsi di un tentativo di prendere le distanze dal segretario di Stato Marco Rubio, che è il vero regista di questo attacco al Venezuela, ed è inoltre un “neocon” (come a dire: un jihadista del liberalismo), perciò molto inviso alla base popolare di Trump. Il segretario di Stato è stato ribattezzato Narco Rubio, a causa di suo cognato, Orlando Cicilia, noto trafficante di droga; perciò le accuse di narcotraffico lanciate adesso a Maduro sembrano la storia del bue che dice cornuto all’asino.
Ci sono però altri aspetti che stanno ad indicare un’offensiva di pubbliche relazioni da parte di Trump, nel tentativo di recuperare credito nei confronti dell’opinione pubblica che prima lo sosteneva, e adesso lo sostiene sempre meno. Tra le ultime dichiarazioni di Trump ce n’è infatti anche una che sembrerebbe indicare un cambiamento di posizione sulla pubblicazione dei fascicoli del caso Epstein, finora tenuti riservati, poiché pare coinvolgano non soltanto vari personaggi di spicco, ma anche i servizi segreti israeliani.
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Considerazioni su maggioranza e opposizione tra BBC e Hasbara
Se non è zuppa è pan bagnato
di Fulvio Grimaldi
Quando ero alla BBC…
C’è un filo, più nero che rosso, che corre tra elementi apparentemente lontani e separati come la BBC, Israele e quello che si dice distingua le maggioranze dalle opposizioni. Trovate che questo filo sia un po’ tirato per i capelli? Giudicherete in fondo. Intanto è un filo lungo il quale scorre un bel po’ di biografia (mia) e di storia (altrui).
Avete visto: grande scandalo alla BBC, madre di tutte le emittenti, anzi di tutte le fonti di informazione, affettuosamente chiamata “Auntie”, zietta, dai sudditi (suoi e del sovrano). Si è dimesso la figura, solitamente sacrale, del grande capo Tim Davie, e pure quella della grande direttrice Deborah Turness. E’ successo là dove ancora vige un antiquato e da noi dismesso principio: la responsabilità politica di chi sta in alto e conduce. Perché non è che siano stati questi due numi dell’informazione a cinque stelle ad aver manomesso l’intervista a Donald Trump, al punto da farlo apparire il Masaniello dell’assalto al Capitol Hill. Hanno pagato i capi, perché responsabili della baracca. Pensate al presidente dell’Authority, irremovibile a dispetto di fetidi intrallazzi.
Con la BBC ho avuto un contratto di cinque anni da redattore a Bush House, Londra. La mia è conoscenza di causa. Era molti anni fa e, al netto di qualche incrinatura, Auntie gode tuttora di buona fama. Meritata, o abbaglio mediatico? Un po’ l’uno, un po’ l’altro. Certo, se pensiamo alle nostre di bocche da fuoco, tra polveri bagnate e micette fatte passare per informazione… E’ che l’emittente britannica, pur consanguinea culturalmente, socialmente e, dunque, politicamente, dell’establishment, ha l’accortezza (che da noi è stata obliterata) di esibire, a rottura di una linea generale di sistema, più tory che labour, l’eclatante fuoricoro. Stravaganza tollerata poichè garanzia di obiettività, indipendenza, pluralismo. Serve una occasionale, ma clamorosa – e solitaria – testa matta che le cose le diceva come stavano e mandava tutti a dormire convinti di una loro zietta cane da guardia a difesa del volgo e dell’inclita.
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Un Cile stanco e indebitato sceglie la destra: Jara fatica a invertire la rotta
di Geraldina Colotti
Quasi 16 milioni di cileni erano chiamati alle urne, il 16 novembre, per eleggere il successore del presidente Gabriel Boric, oltre che per rinnovare tutta la Camera (155 deputati) e metà del Senato (25 senatori). Per via del ripristino del voto obbligatorio (con relativa multa per i trasgressori) e dell’iscrizione automatica, si è registrato un altissimo tasso di partecipazione (oltre l’85%), il più alto nella storia del paese dal ritorno alla democrazia (1990).
Il primo turno delle elezioni generali ha promosso al ballottaggio, che avrà luogo il prossimo 14 dicembre, Jeannette Jara, candidata della coalizione di centrosinistra al governo (Unidad por Chile), con il 27% delle preferenze, e l’ultraconservatore José Antonio Kast, che ha ottenuto il 24%. Il terzo candidato, Johannes Kaiser, sempre di ultradestra, ha già detto che porterà a Kast il suo 14%, e così probabilmente sarà per il 19,5% dei voti ottenuti dal secondo, il populista Franco Parisi, e per il 12,7% totalizzato dalla destra tradizionale di Evelyn Matthei.
Stando così le cose, la destra supererebbe il 50% e riporterebbe il Cile di nuovo sulla sua sponda estrema, abbandonata dal paese alla fine della dittatura di Augusto Pinochet. Sdoganata ampiamente a livello internazionale, soprattutto dopo l’arrivo di Trump al governo degli Stati uniti, l’estrema destra non nasconde più il suo rimpianto per la dittatura.
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Israele e la guerra nel cuore dell'Impero
di Davide Malacaria
Qualcosa di grosso sta succedendo negli States e non è solo l’elezione di Mamdami a sindaco di New York, pure impensabile solo qualche mese fa avendo contro tanta comunità ebraica americana e tanti miliardari. Qualcosa che può essere identificata come una vera propria rivolta contro l’Israel First, secondo una precipua definizione di The American Conservative.
Se la rivolta nel partito democratico si disvela nell’ascesa di figure socialiste come Mamdami – un socialismo americano, nulla a che vedere con la sinistra europea – che ieri ha visto la vittoria a Seattle di un altro sindaco che si dice “socialista”, molto più interessante appare quanto accade nel partito repubblicano.
In questo ambito è ormai guerra aperta tra movimento Maga e l’establishment neocon, conflitto che verte sulla sudditanza Usa a Israele e sulla morsa dello Stato profondo su Trump. Uno scontro nel quale sta uscendo fuori di tutto. E qui le cose si fanno davvero interessanti.
A guidare la rivolta, a parte alcuni esponenti politici del mondo Maga, alcuni influencer più seguiti del New York Times e del Washington Post messi assieme, un fenomeno tutto americano che è un po’ il prosieguo delle figure immortalate nei film anni ’70 e ’80 che vedevano il solitario speaker radiofonico denunciare le malefatte del sistema.
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Milei e il Bonapartismo moderno: un’analisi marxista della crisi del capitale
di Damián Sasson
Tratto dal Canale YouTube Frases de Marx traduzione a cura di Alessandra Ciattini
In questo breve saggio Damián Sasson analizza l’attuale fase capitalistica in Argentina, che vede il predominio del capitale finanziario, sostenuto dallo Stato, il quale si indebita constantemente comprando dollari per favorire la speculazione borsistica e imponendo severe misure di austerità alla popolazione. L’autore sviluppa anche un’interessante analisi del concetto di Bonapartismo forgiato da Marx, indivuando una serie di tratti comuni alla política di Luigi Napoleone e quella di leader quali Trump, Milei, Bolsonaro.
* * * *
Il fantasma che ritorna
Gli ultimi anni hanno generato un fenomeno inquietante nella politica mondiale: l’emergere quasi simultaneo di leader che promettono di distruggere l’establishment consolidando al contempo il potere del capitale più concentrato. Javier Milei in Argentina, Donald Trump negli Stati Uniti, Jair Bolsonaro in Brasile. Ognuno con la propria retorica, ma seguendo un copione che Marx ha identificato più di 170 anni fa: il Bonapartismo.
Questo schema non è casuale. È la manifestazione di una logica storica che emerge quando il capitalismo entra in una crisi sistemica e le forme tradizionali di dominio non riescono più a contenere le contraddizioni sociali. Per comprendere cosa sta accadendo in Argentina e in America Latina, dobbiamo tornare all’analisi che Marx ha sviluppato nella sua opera Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Il Bonapartismo come forma di dominio borghese.
Marx osservò come nella Francia del 1851 un mediocre nipote di Napoleone divenne imperatore, promettendo di rappresentare “tutto il popolo”. Nel 2025 lo scenario si ripete con sorprendente precisione. Milei sale al potere promettendo di distruggere “la casta”, “ripulire la palude” e di essere il “capitano” salvatore che riscatterà l’Argentina dalla casta politica corrotta.
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Paolo Virno. Il linguaggio della moltitudine
di Nadia Cavalera
C’è un punto, in ogni pensiero che conti davvero, in cui la vita e la teoria smettono di essere due linee parallele e si curvano l’una dentro l’altra.
Paolo Virno ha vissuto esattamente in quella piega.
Filosofo napoletano, militante del ’68 e del ’77, detenuto politico, docente e scrittore ironico, Virno non ha mai concepito il pensiero come contemplazione, ma come gesto, pratica, forma di vita.
Per lui la filosofia non serviva a rendere il mondo “un po’ migliore”, ma a rovesciarlo – a pensarlo altrimenti, fino a cambiarne la grammatica.
Nato a Napoli nel 1952 e cresciuto tra Genova e Roma, attraversò da giovanissimo le grandi lotte operaie e studentesche.
Entrò in Potere Operaio dopo le occupazioni di Torino del ’69, e nel movimento del ’77 riconobbe un momento di svolta epocale: non una rivoluzione sconfitta, ma un cambio di paradigma – “che i più spregiudicati compresero e gli altri no”.
Nel 1979 fu arrestato nel cosiddetto Processo 7 aprile, accusato ingiustamente di partecipazione a un’organizzazione eversiva. Passò anni tra carceri speciali e domiciliari, fino all’assoluzione nel 1987.
Fu proprio in quegli anni di reclusione che il suo pensiero prese forma: nelle celle di Rebibbia e Palmi iniziò a interrogarsi sul linguaggio, la memoria, l’azione. Da quell’esperienza nacquero riviste come Metropoli e Luogo Comune, dove una generazione di intellettuali tentò di pensare il comunismo dopo la fabbrica fordista.
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Morte dell’ermeneutica e fine della storia
Su Michele Ranchetti
di Andrea Cavazzini
Difficile scrivere su Ranchetti, almeno nel senso della scrittura “scientifica” normalizzata, che richiede premesse, svolgimento e conclusioni in una forma autoconclusiva e non bisognosa di interrogarsi sulle proprie ragioni e condizioni. Difficile perché, al contrario, le scritture e i lavori di Ranchetti non partecipano di alcuna legittimità univoca e predefinita, non beneficiano dei presupposti rassicuranti delle istituzioni e degli specialismi; ma anche perché la loro intelligibilità intrinseca dipende da un sistema di riferimenti, da un gioco di costellazioni storiche e culturali, che non possono in nessun modo essere riassorbiti dalla corrispondenza del testo ad una norma di valutazione, e la cui condivisione più o meno ampia è diventata altamente problematica già durante la vita di Ranchetti.
In altri termini, leggere e interpretare Ranchetti richiede un lavoro di esegesi particolarmente complesso. E, poiché Ranchetti stesso ha riflettuto sulla crisi dell’esegesi, non solo come pratica savante, ma anche e soprattutto come atteggiamento intellettuale e morale, e come posizione esistenziale, in questa circolarità tra l’oggetto di una meditazione e la chiave di lettura di un’opera si trova forse di che intendere un percorso fortemente atipico e sfuggente.
In un testo relativamente tardo, ma alquanto in anticipo rispetto a una situazione che oggi è evidente in tutto il mondo, intitolato In morte dell’ermeneutica, Ranchetti avanza questa diagnosi:
“Il presente” non sembra più corrispondere a nessuna forma di consocibilità, non appartiene a nessun sistema di misura […]. Fra il passato recente e il presente sembra essere intervenuta una cesura perché non è più operante il sistema di correlazioni su cui si regge, per solito, qualsiasi intelligenza dei fenomeni.1
Ranchetti parte dalla situazione dell’insegnamento universitario: l’esercizio della critica del dato culturale ricevuto e tacitamente accettato, cui dovrebbe essere iniziato lo studente, diventa impossibile a partire dal momento in cui «il dato è inesistente».2 L’inesistenza di un “dato” condiviso tra le generazioni e gli strati sociali, tra i ruoli e le funzioni, l’assenza anzi di una coerenza organica entro gli orizzonti culturali anche di singoli gruppi o individui, fan sì che non solo l’atto critico, ma la stessa operazione interpretativa divengono senza oggetto:
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Ancora su guerra e pace a scuola
di Fernanda Mazzoli
La normalizzazione della scuola, ovvero il suo allineamento all’agenda neoliberista, è cosa ormai avvenuta, sia sul piano normativo, sia nei fatti e nello spirito di chi vi lavora, al netto di qualche malumore e qualche distinguo.
Tuttavia, rischia di restare sempre un passo indietro rispetto al contesto politico e sociale in cui è inserita, rallentata dal peso dei saperi disciplinari (per quanto alleggeriti e banalizzati in pillole di sapere) e dalla lentezza dei processi di apprendimento, per rimediare alla quale si iniettano dosi crescenti di digitale. Complessivamente diligente agli ordini che vengono dall’alto, resta comunque inadeguata e proprio per questo tenuta a regolarsi giornalmente sull’implacabile orologio che scandisce tempi e ritmi della vita collettiva, seguendo naturalmente il progredire delle lancette nella direzione impressa dagli orologiai.
E le lancette, adesso, vanno in direzione della preparazione psicologica a un’eventualità bellica e docenti e studenti, per anni ammaestrati a considerare la globalizzazione come un pacifico ipermercato su scala mondiale in cui comperare e consumare in perfetta letizia di mente e di corpo merci di ogni natura, anche culturale ed emotiva, si trovano impreparati.
C’è quindi un gap da colmare, tanto più che ce lo chiede l’Europa, dove prendono le cose più seriamente: solo per citare alcuni esempi, in Polonia si introducono nei programmi scolastici esercitazioni militari e corsi di pronto soccorso, in Lituania si prevede di istruire i ragazzini a costruire e pilotare droni.
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Palestinesi usati come scudi umani, silenzio dell’intelligence USA
di Gigi Sartorelli
Il 12 novembre l’agenzia britannica Reuters ha diffuso le informazioni ottenute da due ufficiali dell’intelligence statunitense, rimasti anonimi, secondo i quali i servizi stelle-e-strisce avevano raccolto in autonomia già alla fine del 2024 (cioè agli sgoccioli del mandato di Joe Biden) prove dell’uso da parte israeliano di palestinesi come scudi umani.
Le fonti hanno rivelato che gli agenti USA avevano prove di funzionari israeliani che discutevano di come l’IDF avesse inviato, in tunnel sotto Gaza ritenuti potenzialmente minati, dei palestinesi con lo scopo evidente di usarli come ‘esca’ per possibili trappole. Inoltre, queste prove sono state condivise e discusse con la Casa Bianca, che dunque era informata delle azioni israeliane.
Ovviamente, la notizia ha sollevato domande, ai vertici statunitensi, su quanto questa pratica fosse diffusa e se derivasse da ordini diretti di comandanti militari. Ma questa assomiglia più a una difesa non richiesta che non alla consapevolezza derivante dal bersagliamento continuo dei civili e delle infrastrutture vitali della Striscia, a cui abbiamo assistito negli ultimi due anni.
Quello che Reuters non ha potuto determinare, in base alle informazioni fornite dalle fonti, è se i palestinesi fossero “prigionieri”, ovvero veri e propri ostaggi spesso imprigionati senza alcuna accusa, o civili presi a caso. Ma queste distinzioni, come detto, nell’azione sionista sono spesso sfumate, e tutto ciò, insieme alle tante notizie simili, rafforza il convinvimento che quella di utilizzare “scudi umani” non fosse un’idea di soldati semplici.
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Roma, il centrosinistra e il mito della “cura condivisa”
Quando il neoliberismo si traveste da partecipazione civica
di Giuseppe Libutti
“L’affidamento in adozione è uno strumento attraverso il quale Roma Capitale promuove la conservazione e il miglioramento del verde pubblico, consentendo ai cittadini, singolarmente o in forma associata, di occuparsi della gestione, manutenzione e cura delle aree verdi comunali.” Così recita il sito ufficiale del Comune. In pratica, cittadini e associazioni possono presentare domanda per “adottare” alberi, aiuole e spazi verdi, offrendo gratuitamente un servizio alla città.
La chiamano “cura condivisa del verde urbano”, la presentano come un’opportunità per cittadini “attivi” e “responsabili”. Ma la realtà è ben diversa: Roma Capitale sta gradualmente sostituendo servizi pubblici essenziali con attività svolte gratuitamente dai cittadini. Compiti che dovrebbero spettare ad AMA e al personale comunale retribuito vengono delegati alla popolazione senza compensi, senza tutele e senza una vera pianificazione.
Ciò che l’amministrazione propone come un modello virtuoso di partecipazione civica si rivela, nei fatti, una sofisticata espressione del neoliberismo in salsa progressista: trasformare un dovere pubblico in un gesto volontario, sostituire lavoro qualificato con prestazioni gratuite, nascondere l’esternalizzazione dei servizi dietro parole rassicuranti come “comunità”, “bene comune”, “cura condivisa”.
Gli strumenti utilizzati — adozioni di aree verdi, patti di collaborazione, accordi per la gestione dei beni comuni — vengono raccontati come innovazioni democratiche.
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Gaza, pace che sembra genocidio
di Mario Lombardo
Il “piano di pace” per Gaza di Donald Trump, che sta per essere oggetto di voto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, rimane un documento che non migliora di una virgola le prospettive di emancipazione del popolo palestinese, né tantomeno prepara un percorso credibile verso la creazione di uno stato sovrano e indipendente. Malgrado ciò, la proposta americana è appoggiata in pieno – almeno a livello ufficiale – da praticamente tutti i paesi arabi e musulmani, mentre lo stesso stato ebraico, che pure respinge fermamente alcune parti del piano, vede in essa il mezzo per facilitare il raggiungimento dei suoi obiettivi genocidi e di occupazione in una fase segnata dal rallentamento forzato dello sterminio iniziato all’indomani dei fatti del 7 ottobre 2023. Il progetto Trump viene quindi valutato con estrema cautela dalle forze palestinesi e della Resistenza in generale, poiché serve in definitiva a soddisfare gli interessi degli attori coinvolti dalla Casa Bianca nel processo in corso, nessuno dei quali coincide con le aspirazioni degli abitanti della striscia.
Il quotidiano iraniano in lingua inglese Tehran Times ha scritto domenica che il piano di Trump “funziona, in ultima analisi, da maschera diplomatica”, poiché fa riferimento al processo di “auto-determinazione palestinese per rassicurare i paesi arabi”, mentre, in realtà, “incorpora [nel processo] le necessità di sicurezza che riflettono le priorità di Israele”. Ognuno dei partecipanti alla farsa del “piano di pace”, in realtà, ottiene – o punta a ottenere – un vantaggio strategico. Per gli Stati Uniti, spiega ancora il Tehran Times, si tratta di “rafforzare la loro influenza [in Medio Oriente], facilitare la vendita di armi” e “posizionarsi come mediatori indispensabili”.
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Dal socialismo delle fogne a quello delle torte
di Emilio Carnevali
Democrazia, volontarismo, mercato. Idee e modelli del socialismo contemporaneo. Un nuovo contributo al dibattito di Jacobin sull'alternativa economica
Sewer Socialists: socialisti delle fogne. L’epiteto fu chiaramente coniato con intenzioni derisorie. Alla fine, però, furono gli stessi «socialisti delle fogne» ad appropriarsene. Gli amministratori di Milwaukee, uno dei rari bastioni socialisti negli Stati Uniti di primo Novecento, rivendicavano così il proprio impegno a fornire ai cittadini servizi pubblici di qualità, in contrapposizione alla vuota retorica rivoluzionaria di altri settori del movimento. Daniel Hoan, che fu sindaco per sei mandati (dal 1916 al 1940), non solo dotò la città di un efficiente sistema fognario, che contribuì a migliorare sensibilmente gli standard igienici e le condizioni di vita degli abitanti, ma promosse anche un energico piano per l’edificazione di parchi pubblici.
L’espressione è stata ripresa recentemente anche da Zohar Mamdani, neoeletto sindaco di New York, per rispondere a chi lo accusava di eccessivo idealismo e segnalare come il suo socialismo sia, appunto, un sewer socialism, interessato a ottenere risultati amministrativi concreti.
Socialisti e modelli, ieri
Si tratta di tensioni che attraversano il movimento socialista sin dalle origini. La città di Milwaukee aveva ricevuto un cospicuo influsso di immigrati dalla Germania. Gli anni a cavallo del secolo erano stati quelli del cosiddetto dibattito sul «revisionismo» nella socialdemocrazia tedesca. Aveva preso forma una corrente politica e culturale ispirata alle idee riformiste di Edward Bernstein, del quale è rimasta celebre la massima secondo cui «l’obiettivo finale del socialismo è nulla, il movimento è tutto». Ancor prima che le dure lezioni del socialismo reale mettessero in guardia sul legame fra dogmatismo e autoritarismo, il socialismo riformista rivelava una certa refrattarietà per i modelli precostituiti, i piani di «ingegneria sociale» troppo dettagliati e ambiziosamente specifici.
E tuttavia, non sono state solo le ali moderate e gradualiste del movimento socialista a sviluppare un’esplicita ostilità verso i modelli, o – per riprendere l’espressione usata da Marco Bertorello e Giacomo Gabbuti nell’articolo che ha aperto questo dibattito su Jacobin Italia – verso le proposte di «sperimentazione socio-economica di ordine sistemico e strutturale».
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Perché il "piano Trump" non è una resa a Putin (anzi)
di Francesco Dall'Aglio
Ormai i 28 punti del piano di pace sono stati elencati, analizzati e sviscerati talmente tante volte che non devo più occuparmene, e questo è un sollievo. Mi limito dunque ad alcune considerazioni generali, in ordine sparso.
Da 48 ore la bolla social occidentale è letteralmente impazzita. Il piano è inaccettabile, il piano è stato scritto da Putin, il piano è stato scritto in russo e ve lo dimostriamo (link 1), Trump è al soldo di Putin, Trump e Putin sono due dittatori e i dittatori alla fine trovano sempre un accordo (il tutto è perfettamente esemplificato dalla vignetta che allego, comparsa su Politico) e, soprattutto, questo piano è il tradimento della resistenza ucraina e porta alla capitolazione del paese. Ora, "capitolazione" ha un significato ben preciso: significa che ti arrendi al nemico senza condizioni sperando al massimo di avere salva la vita, nemmeno le proprietà, e rimettendoti interamente alle sue decisioni per quanto riguarda la futura organizzazione di quello che era il tuo stato. È inutile dire che nel piano di pace non c'è nulla di tutto questo. Al contrario, ci sono alcuni punti che non sono affatto vantaggiosi per la Russia e altri che sono vantaggiosissimi per l'Ucraina, vista la situazione attuale e la poca probabilità che possa cambiare. Non solo non è una capitolazione, ma è l'ultimo tentativo di salvare quello che resta dello stato e della dirigenza del paese.
Dal punto di vista territoriale l'Ucraina ovviamente mantiene la sua indipendenza e il suo sbocco sul mare. La sua sicurezza verrà garantita da una serie di accordi, tra cui un accordo di non aggressione da parte della Russia (che si immagina reciproco).
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A la guerre, “bisogna accettare di perdere i nostri figli”
di Dante Barontini
Nell’Europa guerrafondaia degli svalvolati – ignobile gara tuttora in sospeso tra uomini e donne di potere politico – fin qui si erano prudentemente “tenuti bassi” gli imprenditori e i generali.
I primi, in genere, capiscono al volo che nel produrre armi ci si guadagna molto, ma quando vengono usate ci si può rimettere tutto (la loro pelle magari no, in genere scappano via molto prima che il gioco diventi davvero rischioso, ma affari e fabbriche sì).
I generali, invece, perché cominciano a intuire che le forme della guerra sono così cambiate – negli ultimi quattro anni – che loro stessi sono ora un po’ “disarmati” culturalmente, dovendo ancora metabolizzare le novità. Le quali, quando si parla di sparare, hanno una certa importanza…
Ma quando c’è da mostrarsi fuori di testa la classe dirigente francese riesce sempre a dare il meglio di sé, o comunque sopra la media. Due sortite chiariscono il concetto meglio di un lungo discorso.
Il presidente del consiglio di amministrazione di Airbus (gruppo industriale europeo dell’aeronautica), René Obermann, infrangendo uno dei più grandi tabù della difesa in Europa, ha dichiarato mercoledì che nazioni europee dovrebbero sviluppare un deterrente nucleare tattico congiunto per contrastare l’arsenale in espansione della Russia.
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“Non c’è nessuna bolla”: la reazione senza senso di mercati e media agli ultimi dati di NVIDIA
di OttoParlante - La newsletter di Ottolina
I profitti di NVIDIA salgono alle stelle, titola il Wall Street Journal, e placano il nervosismo degli investitori per il boom dell’intelligenza artificiale. La reazione di mercati e media ai nuovi dati di NVIDIA è paradossale; da mesi, chi parla di bolla, parla di eccessivi investimenti a debito per comprare chip senza avere modelli di business che garantiscano i ritorni necessari: che NVIDIA faccia il pieno di ordini (e di utili) non dovrebbe rassicurare proprio niente. Misteri della fede nel turbocapitalismo finanziarizzato…
Intanto, si scaldano i motori per la prossima bolla: il Quantum Computing, che, sottolinea il Financial Times, ovviamente, ha bisogno di una sua vera e propria rivoluzione industriale:

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L’inutile piano di Trump
di Enrico Tomaselli
Per quanto riguarda il piano appena presentato da parte dell’amministrazione Trump, e che – si dice – sarebbe stato elaborato da Rubio, Witkoff e Kushner, e poi discusso con Kirill Dmitriev, a mio avviso è abbastanza evidente che si tratta di un tentativo di evitare in extremis il tracollo delle forze armate ucraine, congelando la situazione sul campo almeno per il tempo necessario a discuterne i termini. Un gioco già provato più volte da Washington, e più volte respinto da Mosca. Per quanto – ovviamente – il piano contenga elementi sempre più vicini alle richieste russe, le intenzioni statunitensi sono chiarissime ai leader del Cremlino. E infatti i primi commenti indiretti di Putin – nonché il contesto in cui sono stati rilasciati – lo dice molto chiaramente. Il presidente russo, infatti, si è recato in visita sul fronte nord, indossando la divisa militare, dove il capo di stato maggiore Gerasimov ha annunciato la cattura della città di Kupyansk (nella cui sacca rimangono accerchiati migliaia di soldati ucraini). Putin ha colto l’occasione per dichiarare che la leadership ucraina è una “banda criminale” (un modo neanche tanto sottile per dire che non è gente con cui si possa trattare) e che gli obiettivi dell’Operazione Militare Speciale devono essere assolutamente raggiunti. Insomma, il tentativo statunitense di affrettare – as usual – le cose, verrà respinto.
Ma proviamo comunque a esaminare i punti più significativi del piano, quali sono emersi sino a ora.
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E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin

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A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio

Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato

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Luca Busca: La scienza negata

Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung

Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare

Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica

Qui una anteprima del libro
Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica

Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto

















































