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Il neocolonialismo della pace
di Andrea Fumagalli
La firma dell’accordo di pace tra Israele e Hamas ha giustamente suscitato molte speranze perché si possa arrivare a un definitivo “cessate il fuoco”. Tuttavia, dietro questo accordo si nascondano nuove forme di colonialismo e di depredazione/saccheggio a danno dei palestinesi e dei territori occupati. La guerra delle armi e delle macerie lascia così lo spazio a una nuova guerra: quella del business della ricostruzione, della speculazione e del profitto per pochi.
* * * *
Il vertice del 13 ottobre 2025 a Sharm el-Sheikh per la convalida a livello internazionale degli accordi di pace tra il governo israeliano e Hamas con la mediazione del Quatar, Egitto e Turchia viene descritto come una tappa storica nell’evoluzione dei rapporti tra Israele e i paesi del Medio Oriente e un esempio di pacificazione globale. Ma nel nome della fine (unilaterale) delle ostilità contro una popolazione civile inerme, si tratta invece di una delle pagine più ipocrite e meno gloriose nella storia del colonialismo occidentale. Perché di neo-colonialismo trattasi e gli interventi di Netanyahu e di Trump alla Knesset nella mattinata – a dir poco agghiaccianti – lo hanno ben confermato.
Presenti al vertice ci sono in primo luogo i Paesi mediatori nella trattativa, a partire da Turchia e Qatar. Non c’è Benjamin Netanyahu e non ci sono rappresentanti di Hamas.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Diciottesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE VIII
I. I club
Indubbiamente il fulcro, il punto nodale, più importante e diffuso del lavoro di risveglio ed educazione culturale dei sindacati è dato dai club. Ho già sottolineato quanto continui a impetuosamente crescere il numero dei club. Si tratta del lavoro più nuovo, e quindi sconosciuto, di quelli affrontati, per cui siamo tenuti a cercare, a escogitare dalla A alla Z forme di attuazione altrettanto nuove, correggendo i nostri errori sul campo, in base all’esperienza maturata.1
Continuiamo l’analisi dell’intervento fiume del compagno Tomskij partendo da dove ci eravamo lasciati. Il capo dei profsojuz poneva l’accento sul LAVORO CULTURALE che il sindacato era chiamato a compiere. Qui comincia a mettere i puntini sulle i.
E siccome nessuno dei nostri ha mai pensato di popolarizzare la questione, lasciandola ad ambiti puramente accademici (dove, sinceramente, ammesso e non concesso che si sia mai andati a fondo nella questione, il bacino di utenza, la ricaduta di tali risultati su una platea di milioni di compagni è stata, storicamente, del tutto irrilevante) è il caso anche qui di conoscere un po’ più da vicino questi club o, così come erano definiti ufficialmente, gli “enti clubistici” (клубные учреждения).
Nascono verso la fine del XIX secolo2, come Case del popolo () dove convivevano biblioteca con sala lettura, aula per i corsi serali, piuttosto che sala conferenze e piccoli teatri. Ovviamente l’autofinanziamento e la scarsità di mezzi non erano un buon viatico per la loro diffusione e, nel 1914 il totale di tali strutture era di 237.
Numero che sarebbe aumentato, nel giro di pochi anni, in maniera esponenziale. Diamo subito un quadro della loro evoluzione da allora, così da toglierci ogni suspense… e cominciare ad avere una prima idea delle dimensioni del fenomeno3:
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Gaza, un futuro di controllo della AI che ci riguarda
di nlp
Se andiamo a leggere i piani di controllo dell’ordine pubblico prefigurati per la nuova amministrazione di Gaza, vediamo come questi convergano sulla previsione di un modello di sicurezza basato sull’integrazione di Intelligenza Artificiale (IA), robotica avanzata e sorveglianza aerea. Tale sistema, definito sistema ibrido di controllo automatizzato (HACS), non sarebbe costruito ex novo, ma deriverebbe dalla rapida riconversione delle infrastrutture e dei database militari preesistenti. Questo modello servirebbe poi da progetto pilota per l’esportazione globale sui mercati della sicurezza metropolitana e nazionale. La dinamica dell’industria della difesa, che utilizza il territorio come un “terreno di prova” per trasformare le tecnologie di urban warfare in “soluzioni per la sicurezza urbana” (Homeland Security – HLS), creerebbe con Gaza un pacchetto di controllo altamente commercializzabile, la cui diffusione comporterebbe la normalizzazione internazionale di pratiche di sorveglianza estrema e l’erosione della sovranità dei dati civili.

1
I piani di pace in corso per la Striscia di Gaza pongono requisiti stringenti, con un mandato primario che prevede la smilitarizzazione totale e la supervisione di una forza internazionale di stabilizzazione (FIS) temporanea, incaricata di addestrare e istituire una forza di polizia palestinese autoctona.
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La guerra è la pace
di Giorgio Agamben
Fra gli orrori della guerra che vengono spesso dimenticati è il suo sopravvivere in tempo di pace attraverso le sue trasformazioni industriali. È noto – ma lo si dimentica – che i fili spinati con cui molti ancora recingono i loro campi e le loro proprietà provengono dalle trincee della prima guerra mondiale e sono macchiati del sangue di innumerevoli soldati morti; è noto – ma lo si dimentica – che i gommoni che affollano le nostre spiagge sono stati inventati per lo sbarco delle truppe in Normandia nella seconda guerra mondiale; è noto – ma lo si dimentica – che i diserbanti in uso nell’agricoltura derivano da quelli usati dagli americani per deforestare il Vietnam; e, ultima conseguenza e di tutte peggiore, le centrali nucleari con le loro indistruggibili scorie sono la trasformazione “pacifica” delle bombe atomiche. Ed è bene ricordare, come Simone Weil aveva compreso, che la guerra esterna è sempre anche una guerra civile, che la politica estera è, in verità, una politica interna.
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Normalizzare il genocidio: quello di Gaza e quello dell’Europa
di Carlos X. Blanco
Il mondo sta precipitando nell’abisso. Tutti i demoni sono stati scatenati e, da quello stesso abisso infernale, emergono fuoco e morte: saranno come talpe meccaniche sempre più grandi che scavano, finché l’oscurità che segue sempre il calore rosso della guerra non riempirà il globo.
C’è una macchia di fuoco e cenere in Medio Oriente, che si estenderà all’Europa, ai Caraibi, all’Estremo Oriente… Come residente in Europa, sono cresciuto con la solita domanda nelle lezioni di storia al liceo: il tedesco medio era a conoscenza dell’orrore dei campi di sterminio? Rimase in silenzio e acconsentì? C’erano voci, supposizioni, dati – anche se confusi – sulla Grande Vergogna?
Oggi, non solo il tedesco medio, ma anche l’europeo o l’occidentale medio, non hanno più bisogno di porsi queste domande di fronte al genocidio degli abitanti di Gaza? Morte, distruzione, la riduzione di intere città in macerie e cenere sono fatti sotto i nostri occhi. Il nazismo non nasconde nemmeno i suoi orrori, come si potrebbe dire dello Stato nazionalsocialista con il suo intero apparato di censura e indottrinamento. Sebbene oltre l’80% della stampa occidentale odierna sia comprata e prostituita dal nazismo, l’orrore di Gaza è “disponibile” al pubblico che vuole vederlo. L’orrore del XXI secolo, a differenza di quello del secolo precedente, risiede nel fatto che si tratta di un orrore trasmesso in televisione, ritwittato, condiviso e viralizzato fino allo sfinimento.
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Chi paga il “miracolo economico” (che poi è la solita austerità) del Governo Meloni
di Alessandro Volpi, da Altreconomia
Il prelievo fiscale è salito dal 2024 al 2025 dal 41,4% al 42,6% del Pil, toccando un picco da record a danno di milioni di contribuenti con redditi medio bassi, e non certo per via del contributo di banche, detentori di rendite finanziarie o successioni dei super ricchi. Mentre manca ancora un reale sistema di indicizzazione delle retribuzioni al costo della vita. Confindustria e sistema bancario ringraziano. L’analisi di Alessandro Volpi.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti mostrano grande soddisfazione per lo stato dei conti pubblici che hanno ripristinato l’avanzo primario (in sintesi più entrate rispetto alle spese, al netto degli interessi sul debito). Ma questo “miracolo” -che in parole più chiare si chiama austerità- chi lo paga?
La risposta è semplice: chi paga le tasse. I numeri lo dicono con chiarezza: il prelievo fiscale è salito dal 2024 al 2025 dal 41,4% al 42,6% del Prodotto interno lordo (Pil), un livello record che è dipeso non certo dall’aumento della pressione sulle banche, sulle rendite finanziarie o sulle tasse di successione dei super ricchi, ma da un vero e proprio “furto” ai danni di milioni di contribuenti con redditi medio bassi.
Infatti, l’aumento dell’inflazione registrato negli ultimi anni ha gonfiato il valore nominale delle retribuzioni e delle pensioni delle lavoratrici e dei lavoratori che, spesso, ha generato il loro passaggio a un’aliquota superiore con maggiore prelievo fiscale non certo giustificato da un aumento di reddito reale, del tutto assente.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Diciassettesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE VII
g. Sindacato, aziende concessionarie e scioperi
Successivamente, Tomskij esamina il ruolo del sindacato nel settore delle aziende concessionarie, ovvero gli stranieri che hanno ottenuto dallo Stato il permesso di esercitare la propria attività di impresa nel Paese dei Soviet. Pregherei di prestare la massima attenzione a questo brano, perché in esso sono contenute tutte quelle oggettive contraddizioni del sindacato in una NEP che oggi è tanto rivalutata, per non dire osannata da un certo revisionismo neanche troppo strisciante.
Fare onestamente, efficacemente, sindacato in una situazione socioeconomica sempre più disgregata dalle spinte centrifughe di dinamiche capitalistiche di diversa natura, oltre che da frequenti e concomitanti sovrapposizioni e interazioni (o interferenze) degli organismi di partito che contribuivano a confondere ulteriormente le acque, in una prospettiva oggettivamente schizofrenica, dal momento che tali concessioni erano favorite perché rappresentavano economicamente una boccata di ossigeno, ma non dovevano in alcun modo rappresentare una concessione o, peggio ancora, CEDIMENTI, anche sul terreno della lotta di classe, man mano che si aprivano le gabbie diventava un’impresa sempre più ardua. Diamo ora la parola al Segretario:
Permettetemi ora qualche parola del lavoro sindacale nelle aziende concessionarie. Due sono le deviazioni che possiamo notare da parte dei sindacati. La prima consiste nel riprodurre anche in tali aziende, meccanicamente e in toto, il metodo adottato nelle statali: nelle statali ci sono le assemblee di produzione? Facciamole anche nelle concessioni! Nelle statali c’è la commissione di produzione? Portiamola anche di là! La campagna per la la produttività del lavoro? Lo stesso anche lì! E così via. E che questa sia una deviazione in molti, ancora, non lo capiscono! E c’è anche l’estremo opposto.
Di titubanze e atteggiamenti ambigui verso le concessioni purtroppo ne abbiamo, e questo ci porta a mantenere una linea ferma, definita centralmente, nei confronti della tattica da tenere con le aziende concessionarie.
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Palestina: la lotta continua
di Fronte del Dissenso
La tregua in atto da qualche giorno a Gaza dà quantomeno respiro a una popolazione martoriata. E’ alla sofferenza, e all’incredibile capacità di resistenza del popolo palestinese, che va il nostro primo pensiero. E’ grazie a questa resistenza che lo sterminio genocida di Israele è stato almeno provvisoriamente fermato. A questo popolo e alle sue organizzazioni va la nostra piena solidarietà.
La tregua non è la pace. Non lo è non solo perché essa è precaria, non solo perché Israele viola da sempre ogni accordo (come vediamo in questi giorni in Libano), ma soprattutto perché essa è figlia di uno stallo militare, non di una svolta politica che riconosca finalmente i diritti del popolo palestinese.
La tregua è il frutto di un compromesso aperto a diversi possibili sviluppi. Un compromesso che, per ora, ha portato alla cessazione dei combattimenti e allo scambio dei prigionieri. Su tutto il resto il disaccordo permane. Hamas e le altre forze della Resistenza palestinese, che hanno agito in grande accordo tra loro, hanno accettato la tregua, non certo il pretenzioso piano neocolonialista di Trump.
Quel piano rappresenta la prosecuzione della politica dell’imperialismo americano in Medio Oriente. L’Occidente continua, infatti, a considerare l’entità sionista come il proprio decisivo avamposto in quella regione. Sta di fatto che Israele non avrebbe potuto reggere due anni di guerra – attaccando oltre che a Gaza e in Cisgiordania, il Libano, l’Iran, la Siria, l’Iraq, lo Yemen e il Qatar – senza le armi e la complicità statunitense ed europea.
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Morale, impero e la forma silenziosa della guerra
di Pasquale Pas Liguori
A poco più di due anni dal 7 ottobre, si parla di tregua. Non cadono bombe, si dice, ma i confini restano chiusi, l’assedio continua e il furto della terra e delle vite non conosce interruzioni. L’assenza momentanea di bombardamenti non è affatto pace, è la forma silenziosa della guerra: la prosecuzione dell’ordine coloniale con altri mezzi.
Nel linguaggio del potere, la tregua è il meccanismo che consente di preservare la violenza mentre la si nega, il momento in cui l’impero sospende la distruzione per riaffermare la propria capacità di gestirla. È, in sostanza, una pace amministrata, in cui la brutalità diventa compatibile con la normalità.
Questo tempo sospeso non è soltanto politico: è, prima di tutto, morale. È il tempo in cui si riorganizza la coscienza occidentale, che negli ultimi mesi si è esercitata nella contrizione, nei cortei e nei balconi, nelle bandiere e negli slogan di solidarietà. Un moto collettivo apparso come risveglio ma rivelatosi, a conti fatti - come si era paventato, non senza attirare polemiche - un gesto di purificazione. Non la nascita di un nuovo pensiero politico, ma un rito di espiazione collettiva: il tentativo di liberarsi dal senso di colpa, non di tradurlo in progetto di trasformazione.
Vale allora la pena rianalizzare uno dei fondamenti politici più imprescindibili e oggi più adulterati: il valore insostituibile della resistenza. È un concetto che la morale pubblica ha svuotato di ogni significato storico e che i media e la cultura liberal hanno trasformato in un reperto linguistico da addomesticare e neutralizzare. La resistenza, da categoria politica, è stata ridotta a categoria morale; da pratica di liberazione a problema di “equilibrio”.
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La scuola riparte da Gaza
di Marina Polacco
1. Una sublime opera di fantapolitica: l’Agenda 2030
1. Non so quanti conoscono al di fuori del mondo scolastico l’Agenda 2030. In realtà non si tratta di un documento pensato per la scuola, ma di una dichiarazione politica di intenti: presentata come “programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità”, sottoscritta il 25 settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite, e approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU, l’Agenda 2030 è un capolavoro assoluto di fariseismo. Con impeccabile rigore indica diciassette obiettivi da realizzare entro il 2030, ovviamente sulla base dell’accordo e dell’azione condivisa di tutti i paesi firmatari: sconfiggere la povertà nel mondo; eliminare la fame; assicurare salute e benessere per tutti; garantire un’istruzione di qualità, equa e inclusiva; porre fine a ogni forma di discriminazione di genere; raggiungere la completa disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie; sostenere una crescita economica duratura e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva, un lavoro dignitoso per tutti; rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili; garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo; adottare misure urgenti per combattere il cambiamento climatico e le sue conseguenze, promuovere società pacifiche e inclusive. Chi potrebbe avere qualcosa da ridire su un simile programma? Peccato che tutte le affermazioni siano completamente de-materializzate, avulse da qualsiasi contestualizzazione socio-politica ed economica, affidate genericamente al potenziamento di “buone pratiche” e di “spirito di resilienza”, prive di ogni riferimento ai dati di realtà (se non le statistiche che fotografano la situazione oggettiva di partenza), e quasi sempre in netta controtendenza rispetto alle reali politiche europee e internazionali. In definitiva, condividono lo stesso statuto immaginifico-fantastico delle letterine di buoni propositi indirizzate al bambino Gesù la sera di Natale. Eppure, per quanto del tutto estranea al piano della politica fattuale, l’Agenda 2030 è stata diffusamente adottata come punto di riferimento da scuole (e in seconda battuta da molte Università) per promuovere progetti di greenwashing e attività in linea con i diciassette obiettivi proposti.
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Gheddafi, Africa e dignità
di Matteo Parini
“L’Africa è stato un continente colonizzato, isolato, oltraggiato. Trattato come una terra abitata da animali, poi utilizzato come serbatoio per la tratta degli schiavi. E dopo tutto questo, ridotto a una rete di colonie sotto mandato straniero.”
Il virgolettato è tratto dal discorso pronunciato da Muammar Gheddafi il 23 settembre 2009, alla 64ª sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, discorso che oggi torna alla memoria nel giorno in cui ricorre il quattordicesimo anniversario della sua morte. Una denuncia planetaria dell’ingiustizia nel mondo e della sofferenza dei popoli a causa delle guerre, della colonizzazione e dell’imperialismo, cifra stilistica dell’impero statunitense e dei suoi accoliti. L’invocazione di un nuovo ordine mondiale, finalmente basato su uguaglianza e giustizia per tutti i Paesi, in particolare per quelli africani, relegati alla schiavitù da troppo tempo.
Anche per questo, gli araldi della sedicente comunità internazionale, la minoranza suprematista occidentale, lo etichettavano come “dittatore”, al pari di tutti quelli che non sono in grado di comprare, semplicemente perché non in vendita. Non gli perdonavano l’affronto di aver edificato, nel continente africano — per solito oggetto di rapina e scorribande da parte dell’uomo bianco — uno Stato sovrano, laico e indipendente: uno Stato africano per gli africani, con la schiena dritta, capace di gestire sé stesso e le proprie ricchezze. Non gli perdonavano, altresì, di aver costruito un modello di società socialista impegnata a non lasciare indietro nessuno, traino e stella polare di ogni popolo in lotta per l’autodeterminazione.
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Il mondo dopo il declino americano
Arman Spéth intervista Michael Roberts
Per descrivere la situazione mondiale odierna è diventato più difficile evitare i cliché. La guerra economica scatenata da Donald Trump, il crescente rifiuto della Cina di accettare le sue provocazioni e la guerra in corso in Ucraina hanno generato livelli di incertezza sistemica mai visti dal periodo tra le due guerre mondiali, se non prima. Il timore di un’altra grande crisi, o addirittura di un’altra grande guerra, è comprensibilmente diffuso, soprattutto in Europa, la regione che rischia di perdere di più dall’emergente «Guerra fredda».
Quanto di questa turbolenza è da attribuire a un leader americano incostante e quanto è il risultato di trasformazioni strutturali più profonde? L’emergere di potenze in grado di rivaleggiare con gli Stati uniti indica la possibilità di un ordine globale più giusto, o un ordine egemone viene semplicemente sostituito da un altro? E, soprattutto, cosa significa tutto ciò per la vita e le prospettive politiche di lavoratori e lavoratrici?
In questa intervista, Arman Spéth ha parlato con l’economista marxista Michael Roberts, autore dei libri The Great Recession: A Marxist View e The Long Depression, per avere il suo punto di vista sulla sempre più frammentata economia globale e sulle sue ricadute politiche.
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Le dislocazioni geopolitiche cui stiamo assistendo sarebbero incomprensibili senza considerare la seconda amministrazione di Donald Trump. Dal suo ritorno al potere, sia la politica interna che quella estera degli Stati uniti hanno innegabilmente cambiato rotta e, dato il ruolo egemone degli Usa a livello globale, questo ha inevitabilmente avuto ripercussioni sul resto del mondo.
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CUBA. Con Lenin all’Avana, le sfide globali della sinistra
di Geraldina Colotti
Con la sua presenza discreta, ma attenta, il presidente di Cuba, Miguel Díaz Canel, ha accompagnato le giornate del Terzo incontro internazionale di pubblicazioni teoriche di partiti e movimenti di sinistra (el Tercer Encuentro Internacional de Publicaciones Teóricas de Partidos y Movimientos de Izquierda). Un appuntamento periodico che ha riunito quest’anno oltre 100 delegati di 36 nazioni, e che ha avuto al centro una straordinaria manifestazione di sostegno al socialismo bolivariano e al suo presidente legittimo, Nicolas Maduro.
L’incontro si è svolto nell’Università del Partito comunista di Cuba, intestata a Ñico López, figura storica del Movimento 26 di luglio, che ha lottato contro il regime del dittatore Fulgencio Batista, sotto la guida di Fidel Castro. Una università dedicata alla formazione di quadri politici e dirigenti del partito, e che mira a promuovere e a rafforzare la teoria e la pratica del socialismo a Cuba, preparandone i futuri dirigenti.
Con che spirito e metodo si dà la loro preparazione lo si poteva notare vedendoli trasportare casse di vettovaglie o documenti. Per questo, l’omaggio finale a Lenin e alle speranze mai concluse della rivoluzione bolscevica sulle note dell’Internazionale hanno riempito la sala di un’emozione profonda che, in Europa, le masse sono abituate a provare solo durante il tifo da stadio: o a riscoprire durante le grandi manifestazioni che ricominciano denunciare i propri governi a seguito del genocidio in Palestina.
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Sharm el-Sheikh. C'è una soluzione?
di David Bidussa
Ho molti dubbi sulla possibilità di dare forma definitiva e condivisa alla carta geografica e politica del Medio Oriente a partire dal testo degli accordi firmati a Sharm el-Sheikh lunedì 13 ottobre. Ovvero: da una parte dare una soluzione statuale a chi è senza Stato da più di settant’anni, dall’altra stabilizzare la linea di confine dello Stato di Israele.
Sono quattro i punti su cui propongo di riflettere, anticipati da una premessa – che riguarda quel che non ricordiamo – e seguiti da un breve postscriptum – che riguarda le questioni evitate da noi “spettatori”. Il primo punto riguarda l’assenza di un rappresentante diretto dei palestinesi nel documento firmato lunedì 13 ottobre; il secondo cosa significa sancire un dopoguerra garantito da un sistema di controllo internazionale; il terzo punto riguarda il fatto che qualsiasi nazione moderna nasce, anche, da una dimensione di lotta interna tra progetti politici distinti, quindi non solo liberazione dall’occupante ma anche confronto tra più ipotesi circa il “dopo”; il quarto punto, infine, riguarda la necessità di una condizione culturale che consenta di pensare il domani (e che a me pare inesistente).
Premessa
Saramago scrive che le persone “sono essenzialmente il passato che hanno avuto” per cui “noi avanziamo nel tempo come avanza un’inondazione: l’acqua ha dietro di sé l’acqua, è questo il motivo per cui si muove, ed è questo che la muove” [Quaderni di Lanzarote, Feltrinelli]. Per costruire un futuro, dunque, non è sufficiente immaginarlo, è necessario prendere in carico il presente e gli attori in campo, che sono il presente in forza di ciò che hanno dietro, il passato che hanno avuto. Ma vi è un altro elemento, e cioè che esiste anche chi si è mosso in direzione contraria – non senza incertezze, doppiezze, e contraddizioni –, eliminato dalla scena pubblica non dal nemico, ma da quella parte «dei suoi» che non erano d’accordo: coloro che un qualsiasi processo di pace non lo volevano o lo avvertivano (e ancora lo avvertono) come una «ostacolo» al loro sogno.
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Una manovra da poco
di coniarerivolta
Non si possono servire due padroni, dicono i cristiani, perché l’amore per l’uno ci porterebbe a odiare l’altro. Perché i due padroni vogliono cose inconciliabili tra loro.
Il Governo Meloni ha trovato un modo davvero singolare di rispettare il precetto evangelico: non si possono servire due padroni, quindi ne serve tre, e lo scrive a chiare lettere nel Documento programmatico di bilancio (DPB) inviato alla Commissione europea lo scorso 14 ottobre. Il miracolo, è proprio il caso di dirlo, ha una sua logica: i tre padroni in questione vogliono cose che si conciliano perfettamente tra loro, guerra, austerità e profitto.
Il padrone americano chiede soldi per il riarmo, per alimentare quella guerra permanente che serve a puntellare il suo progetto imperialista. Il padrone europeo chiede tagli alla spesa pubblica, per continuare a traghettare il vecchio continente dal modello sociale europeo a una moderna economia capitalistica orientata al profitto. Il padrone italiano, vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro, si accontenta delle briciole, strappandole ai settori sociali più vulnerabili ed esposti all’inflazione.
I documenti di finanza pubblica adottati dal Governo Meloni sono interessanti da decifrare perché contengono questa equazione miracolosa che tiene insieme una prospettiva di aumento della spesa militare, in ossequio ai padroni americani, il rispetto dei vincoli di bilancio europeo, in ossequio alle élite di Bruxelles, e qualche mancia per i padroncini italiani, perché le elezioni politiche si avvicinano.
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Il pilota automatico dell'assistenzialismo per ricchi
di comidad
Giorgia Meloni si è giustamente risentita per l’epiteto di “cortigiana di Trump”, dato che il termine “cortigiana” in passato era spesso usato come eufemismo per non dire esplicitamente “prostituta”. In realtà la prostituzione implica uno scambio e un pagamento (o, se si preferisce un termine spregiativo, un mercimonio), mentre la Meloni fa la cheerleader per Trump a titolo puramente gratuito; forse nella speranza che entrare nel giro degli adulatori del pagliaccio di turno sul palcoscenico della Casa Bianca le consenta di brillare di luce riflessa. Il problema è che, nella vicenda del fasullo accordo di pace a Gaza, lo stesso Trump ha parassitato un’operazione di pubbliche relazioni promossa da Erdogan. Il presidente turco doveva far dimenticare la figuraccia rimediata qualche settimana prima, a causa dell’accordo militare tra Arabia Saudita e Pakistan, il cui messaggio sottostante era appunto che la Turchia non è una potenza in grado di tenere a bada Israele. Queste operazioni di pubbliche relazioni hanno ovviamente il fiato cortissimo, infatti Netanyahu ha già ricominciato a bombardare ed affamare la popolazione di Gaza. Nessun osservatore realista aveva preso sul serio la “pace di Trump”, ma molti ritenevano che, prima di riprendere il genocidio, Netanyahu avrebbe concesso a Trump almeno una quindicina di giorni per pavoneggiarsi e allestire una nuova distrazione per i media (come la prossima messinscena a Budapest), in modo da rimettere Gaza in secondo piano. Si constata invece che Trump non è rispettato nemmeno come clown.
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Al pascolo
di Davide Miccione
Vedo intorno a me decine di persone entusiaste e allegre come bambini a Natale mentre scoprono le meraviglie dell’Intelligenza artificiale. Non stanno pensando al possibile progresso della scienza applicata (tutte questioni del resto poco interessanti per la maggior parte dei bambini) ma alla capacità di produrre testi, meme, immagini, scrivere mail al posto nostro, spiegarci e riassumere testi al posto nostro, lavorare al posto nostro. I lavori a cui i bambini cresciuti si riferiscono e le fatiche ad essi connesse da cui si attendono di essere sollevati non sono però, almeno in questa prima fase, quelli del manovale, asfaltatore, bracciante agricolo, autista, cameriere, cassiere ecc. Non i lavori duri, sfibranti per il corpo, usuranti per nervi e muscoli e stressanti per spirito e mente ma gli altri: sceneggiatore, traduttore, docente eccetera.
Le promesse di emancipazione dalla fatica e ripetitività del lavoro da parte della tecnologia contemporanea sono state del tutto disattese. Le promesse di conquista del tempo libero, di eliminazione degli ostacoli della quotidianità a un tempo di qualità sono del tutto disattese. Questa coppia di promesse tradite sarebbe il miglior atto d’accusa per la “nuova civiltà delle macchine intelligenti”, per il suo feroce tradimento della specie che l’ha creata. Sarebbe, ma non lo è proprio perché la “nuova civiltà delle macchine intelligenti” ha già ottenuto uno stordimento, una frammentazione, uno stato di distrazione, una condizione di dipendenza /astinenza nella stragrande maggioranza dei contemporanei che è tale da rendere ormai ostica ogni riflessione sistemica.
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«Smettetela di piangere sulla “trappola cinese”»
Il punto di vista di un analista di Pechino sul confronto in atto con gli Stati Uniti
di Zichen Wang
«Siamo in una guerra commerciale con la Cina». L’annuncio fatto dal presidente Donald Trump il 15 ottobre ha raggelato i mercati, consapevoli che l’escalation tra Washington e Pechino avrà una ricaduta sul panorama geopolitico globale. Negli ultimi anni, gli scontri fra Cina e Usa si sono intensificati attraverso dazi reciproci su centinaia di miliardi di dollari di prodotti, restrizioni tecnologiche sempre più severe – in particolare sui semiconduttori avanzati – e accuse di pratiche commerciali sleali. Gli Stati Uniti hanno imposto limitazioni ad aziende tecnologiche cinesi come Huawei. Di pari passo, la Cina ha accelerato i suoi sforzi per l’autosufficienza in settori strategici, avviati nel 2015 con il piano «Made in China 2025». Queste tensioni hanno intensificato il dibattito sul ruolo di Pechino sulla scena economica mondiale. Per comprendere meglio la prospettiva cinese, in Occidente spesso fraintesa o semplificata, diamo voce all’analista cinese Zichen Wang. Il fondatore della newsletter «Pekingnology» presenta ai lettori di «Krisis» la sua prospettiva sulle dinamiche economiche globali. Una lettura controcorrente che interpreta l’ascesa tecnologica cinese come risultato della competizione globale e non come risultato di una manovra ingannevole.
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I recenti commenti negli Stati Uniti dipingono la Cina come l’architetto di un piano calcolato a lungo termine per attirare aziende straniere nel suo mercato, estrarre la loro tecnologia e favorire i concorrenti locali, per poi scartare le imprese straniere una volta che hanno esaurito il loro scopo. In questa narrazione, un’azienda americana dopo l’altra cade vittima della presunta «trappola tecnologia-per-mercato» di Pechino: prima Motorola, poi Apple, ora Tesla.
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Ucraina: avanti, verso l'impossibile pace
di Giuseppe Masala
Quando tutto stava portando verso una probabile escalation del conflitto in Ucraina, a causa della volontà degli USA di concedere a Kiev i missili da crociera Tomahawk, si è verificato una sorta di “miracolo” che ha bloccato la decisione di consegna della nuova “arma letale” americana e ha aperto la strada a un nuovo vertice tra Putin e Trump a Budapest, che secondo il mainstream ci porterà alla pace.
Come sapete, il miracolo che dovrebbe portare alla risoluzione definitivamente del conflitto in Ucraina è stata la telefonata tra Putin e Trump avvenuta il 16 di Ottobre. Proprio il giorno prima che fosse annunciata la consegna dei missili da crociera made in USA durante un vertice tra Trump e Zelensky.
In questi giorni si susseguono le indiscrezioni proprio su quel “drammatico” vertice tra il presidente americano e quello ucraino. Secondo il Financial Times, per esempio, si è trattato di un vertice tesissimo, al limite della violenza fisica e dove la linea rossa dello scontro verbale sarebbe stata ampiamente superata. Tutto perché – come peraltro prevedibile – Zelensky punterebbe i piedi a qualsiasi ipotesi di accordo con la Russia sollecitato da Trump. Dal punto di vista del leader ucraino la cosa è pienamente comprensibile: con la sua decisione folle e sconsiderata di provocare un conflitto con la Russia ha portato alla distruzione del suo paese, alla morte di centinaia di migliaia di ucraini e alla invalidità permanente di altre centinaia di migliaia, oltre che, all'esodo verso l'Europa e la Russia di milioni di cittadini ucraini: chiaro che il suo destino (come quello della cricca di gerarchi che lo sostiene) è segnata in caso di fine della guerra. Inutile dire qual è il destino che fanno i despoti responsabili di simili disastri.
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Ripensare la pianificazione socialista
di Gabriele Repaci
Introduzione
La crisi finanziaria globale del 2007-2008, esplosa a partire dal mercato dei mutui subprime negli Stati Uniti, non è stata il frutto del caso né il risultato di un momentaneo malfunzionamento del capitalismo.
Al contrario, essa ha rappresentato, nelle sue caratteristiche fondamentali, l’essenza stessa del modo di produzione capitalistico: la corsa sfrenata al massimo profitto, la compressione dei diritti della classe lavoratrice e i tentativi disperati di sfuggire alla crisi di sovrapproduzione attraverso la speculazione finanziaria, l’espansione del credito e la creazione artificiosa di moneta.
Quando i profitti non possono più essere sostenuti dalla produzione reale, il sistema reagisce spostando la contraddizione nel regno del denaro e del debito, gonfiando bolle speculative e alimentando un’instabilità cronica che si traduce in crisi sociali e politiche.
L’irrazionalità del capitale — la sua anarchia, la sua disumanità — emerge così in tutta la sua drammaticità, travolgendo le speranze di milioni di persone in ogni continente.
Le crisi più recenti non hanno fatto che confermare questa tendenza.
La pandemia di Covid-19 ha mostrato l’incapacità dei mercati globali di garantire la sicurezza collettiva anche di fronte a un’emergenza sanitaria, rivelando la fragilità delle catene di approvvigionamento e la dipendenza di interi settori da logiche di profitto immediato.
Il conflitto in Ucraina e la guerra in Gaza hanno evidenziato il nesso sempre più stretto tra economia e militarismo, con la produzione di armi e l’energia trasformate in strumenti di egemonia e di ricatto geopolitico.
Nel frattempo, la crisi climatica e ambientale ha reso evidente il carattere autodistruttivo di un modello fondato sull’accumulazione illimitata: incendi, alluvioni, siccità e migrazioni di massa sono i segni tangibili di un’economia che consuma le proprie condizioni di esistenza.
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La svolta di Trump sull'Ucraina è solo retorica
di Davide Malacaria
La svolta di Trump sul conflitto ucraino, a quanto pare, resta limitata alla retorica. In realtà, al di là delle roboanti critiche a Mosca, il nocciolo del discorso all’Onu era una presa di distanza dalla guerra con relativo scaricabarile sulla sola Europa. Lo ha capito anche la stolida rappresentate degli Esteri Ue Kaja Kallas, che in un’intervista ha dichiarato: “Non possiamo essere solo noi“, Trump deve aiutarci.
Peraltro, che fosse quello il punto focale del discorso lo conferma il New York Times: “Grattando la superficie, un desiderio più profondo sembra celarsi nel cambiamento di posizione di Trump […]. Trump sembra volersi lavare le mani del conflitto ucraino, dal momento che non è riuscito a portare il presidente Vladimir Putin al tavolo dei negoziati e ha visto diminuire le sue possibilità di agire come mediatore”.
Il rapporto Usa-Russia resta più o meno inalterato, come conferma l’incontro avvenuto in parallelo al’invettiva di Trump, tra il Segretario di Stato Marco Rubio e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. A dimostrazione della proficuità del vertice, la risposta di Lavrov a un cronista che gli chiedeva come fosse andata. Nessuna parola, solo un gesto inequivocabile: pollice in sù.
L’intemerata di Trump all’Onu era un modo per allentare le pressioni che il partito della guerra sta esercitando su di lui, incrementate dagli sviluppi del mese di settembre, tra cui l’assassinio di Charlie Kirk, che l’ha mandato in confusione. Ha dato loro quel che volevano, ma solo a livello retorico.
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Il buco-armi con la manovra intorno, la IV di Meloni
di Roberto Romano
Senza il Pnrr saremmo già in territorio-recessione. Ma la manovra tratteggiata da Giorgetti avrà impatto nullo, improntata al Patto di Stabilità senza un euro per politiche di sostegno alla crescita. L’obiettivo, rientrare dalla procedura di infrazione, pare funzionale a lasciare spazio finanziario a un piano di riarmo.
Il trittico dei documenti che delineano l’impianto economico del governo si è completato con l’approvazione della Legge di bilancio da parte del Consiglio dei ministri il 17 ottobre. Ne risulta un quadro programmatico improntato a una manovra a saldo pressoché nullo, rigidamente conforme ai vincoli del nuovo Patto di Stabilità e Crescita sottoscritto dai Paesi europei nel 2024.
Sussistevano margini, seppur limitati, per un utilizzo più flessibile dei saldi di finanza pubblica, agendo sull’avanzo primario o sull’indebitamento netto, al fine di liberare risorse aggiuntive da destinare a politiche di sostegno alla crescita. Tuttavia, l’esecutivo ha optato per un’applicazione pedissequa del quadro europeo, presumibilmente per evitare effetti negativi sulla quota del bilancio pubblico assorbita dagli interessi sul debito.
Ne deriva un bilancio di previsione per il triennio 2026-2028 sostanzialmente neutro, con risorse aggiuntive limitate a 900 milioni di euro per il 2026, in crescita a 6 e 7 miliardi rispettivamente nel 2027 e nel 2028. Tali incrementi sembrano correlati alla necessità di coprire il progressivo aumento della spesa militare, temporaneamente rinviata a giugno, quando il Paese dovrebbe uscire dalla procedura per disavanzo eccessivo, attivata a seguito del superamento della soglia del 3% di indebitamento netto già previsto per il 2025.
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A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
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A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato

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Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto















































