Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Diciassettesi9ma parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE VII
g. Sindacato, aziende concessionarie e scioperi
Successivamente, Tomskij esamina il ruolo del sindacato nel settore delle aziende concessionarie, ovvero gli stranieri che hanno ottenuto dallo Stato il permesso di esercitare la propria attività di impresa nel Paese dei Soviet. Pregherei di prestare la massima attenzione a questo brano, perché in esso sono contenute tutte quelle oggettive contraddizioni del sindacato in una NEP che oggi è tanto rivalutata, per non dire osannata da un certo revisionismo neanche troppo strisciante.
Fare onestamente, efficacemente, sindacato in una situazione socioeconomica sempre più disgregata dalle spinte centrifughe di dinamiche capitalistiche di diversa natura, oltre che da frequenti e concomitanti sovrapposizioni e interazioni (o interferenze) degli organismi di partito che contribuivano a confondere ulteriormente le acque, in una prospettiva oggettivamente schizofrenica, dal momento che tali concessioni erano favorite perché rappresentavano economicamente una boccata di ossigeno, ma non dovevano in alcun modo rappresentare una concessione o, peggio ancora, CEDIMENTI, anche sul terreno della lotta di classe, man mano che si aprivano le gabbie diventava un’impresa sempre più ardua. Diamo ora la parola al Segretario:
Permettetemi ora qualche parola del lavoro sindacale nelle aziende concessionarie. Due sono le deviazioni che possiamo notare da parte dei sindacati. La prima consiste nel riprodurre anche in tali aziende, meccanicamente e in toto, il metodo adottato nelle statali: nelle statali ci sono le assemblee di produzione? Facciamole anche nelle concessioni! Nelle statali c’è la commissione di produzione? Portiamola anche di là! La campagna per la la produttività del lavoro? Lo stesso anche lì! E così via. E che questa sia una deviazione in molti, ancora, non lo capiscono! E c’è anche l’estremo opposto.
Di titubanze e atteggiamenti ambigui verso le concessioni purtroppo ne abbiamo, e questo ci porta a mantenere una linea ferma, definita centralmente, nei confronti della tattica da tenere con le aziende concessionarie.
Anche sul fronte delle rivendicazioni economiche riscontriamo tutta una serie di assurdità e incongruenze. Alcune delle rivendicazioni presentate e riguardanti le condizioni economiche degli operai delle concessioni, sono talmente esagerate che manderebbero in rovina chiunque.
Per questo io ho considerato mio dovere ricordare, nelle mie Tesi, la lotta di classe nelle aziende concessionarie; al contempo, considero anche mio dovere sottolineare come occorra mettere in guardia i sindacati dalla deviazione di senso opposto, ovvero attaccare continuamente le concessioni e scioperare indiscriminatamente. Ci sono stati casi dove i sindacati si son lasciati prendere un po’ troppo la mano dalla lotta tramite sciopero, dichiarando sciopero e imponendosi a operai perlopiù analfabeti e che non sapevano neppure il perché si stesse scioperando, oltre a non sapere chi fosse il padrone o in cosa consistesse la causa per cui si stava lottando. Inoltre, da quel poco a cui abbiamo assistito, ci son stati casi in cui alle concessioni sono state presentate rivendicazioni impossibili da soddisfare e che hanno messo in crisi l’intera politica statale nei loro confronti. Per questo è servita e servirà promuovere una politica centralistica, uguale per tutti, verso le concessioni, una linea comune, a cui tutti si dovranno attenere.1
Ce n’è per tutti. Anche in questo caso emerge la linea leninista, vissuta nella pratica di tutti i giorni, di un centralismo democratico da applicare nella maniera più classica: una volta presa una decisione, ci si attiene a quella, sulla base di una linea che si forma, si compone, tenendo conto della lotta di classe reale, e dei reali rapporti di classe nei posti di lavoro, così come della linea generale di un partito che è stato costretto dagli eventi ad accettare di tutto, persino investimenti stranieri, e se non vi fossero – in quella fase – sarebbe una iattura, ma al contempo non intende arretrare di un millimetro sul terreno della lotta di classe.
Occorreva, pertanto, anche su questo terreno scivoloso, trovare un punto di equilibrio, figlio della situazione determinatasi dalla scelta politica di aprire questa inedita fase economica (NEP): le concessioni NON SONO enti statali, pur essendo favorite dallo Stato; l’opposizione deve esserci, ma non deve essere totale. Alla vacca (concessione) deve essere dato modo di vivere (mangiare erba, fare profitto nel recinto, nei modi e nei tempi a lei consentiti) per essere munta (per guadagnare tempo nelle situazioni debitorie createsi e lasciate in eredità dai conflitti (mondiale e civile), rimettere in carreggiata il ciclo di produzione e riproduzione merce, far ripartire la macchina.
Emerge, pertanto, la richiesta di notevoli rigore etico, lucidità di analisi e capacità decisionale, ai quadri nel riconoscere e valutare onestamente le situazioni, nel non eccedere, nel sapersi contenere e attenere, oltre che nel far attenere tutti, ricordandosi delle proprie responsabilità, nel non lasciarsi prendere la mano, anch’esso leninista (precisiamo… non perché ad esclusivo appannaggio dei leninisti, ma perché con Lenin diventa condizione cogente dello stare a capo di qualcosa). Tomskij quindi annuncia di voler parlare ancora di scioperi… ma devia subito su altro:
Parliamo ora degli scioperi in generale. Potrei parlare degli scioperi nelle aziende statali, ammessi in teoria ma mai fatti in pratica… ma ve lo risparmio. È indice della debolezza, dell’impreparazione, della anormalità con cui sindacati e organismi locali di partito lavorano. Si, sindacati e organismi locali di partito, insieme. Non dimenticate che un successo dei sindacati è anche un successo del partito, così come un errore dei sindacati è anche un errore del partito. Altrimenti non vale.
Non si può, infatti, stelle a qualcuno, e stalle a qualcun altro. Non è che gli errori, le mancanze, son solo colpa del sindacato, e i successi son merito solo del partito. Occorre fare a metà (делить пополам), questo e quello. I successi dei sindacati sono anche i successi del partito comunista, dal momento che a capo del movimento sindacale ci sono comunisti, nominati dal partito e fedeli alle sue risoluzioni. 2
Anche in questo caso traspare non solo da parte sua, ma RICHIESTA A TUTTI, quanto meno in casa propria, ovvero nel luogo dove si lavano i panni sporchi (e non altrove, come abbiamo appena visto) una profonda onestà intellettuale, oltre che una lucidità di analisi e una capacità di cogliere, nel concreto, quegli ostacoli da rimuovere per rilanciare a tutto campo un’azione sindacale sempre più efficace e in grado di costruire un movimento di massa sempre più consapevole e preparato a compiere quel balzo verso il socialismo tanto auspicato. Anche per questo, il sindacato non poteva non occuparsi ANCHE di LAVORO CULTURALE. PERCHÉ IL PROBLEMA, A QUESTO PUNTO, È ANCHE CULTURALE.
h. Sul lavoro di risveglio ed educazione culturale
Un paio di parole vorrei spenderle anche per il lavoro di risveglio ed educazione culturale. Penso che quei cambiamenti, cui si è poc’anzi accennato, interni alla classe operaia, specialmente ai nuovi operai, pongono con particolare insistenza la questione del lavoro di risveglio ed educazione culturale (вопрос о культурно-просветительной работе). I successi in questo campo sono stati enormi. Basti solo dire che, dal marzo del 1923 a oggi i “club” sono aumentati del 120%, le biblioteche dei sindacati del 300%, gli “angolini rossi” di dieci volte. Un lavoro enorme, colossale!3
Strutture più che raddoppiate in meno di due anni di duro lavoro non può essere definito altrimenti. Sui club (клуб) Tomskij si soffermerà molto nelle righe seguenti, e sulle biblioteche c’è poco da aggiungere rispetto all’esperienza storica nostrana di accesso gratuito e aperto a tutti alla cultura. Interessante, invece, è entrare un poco nel merito di questi “angolini rossi” (красные уголки).
Ancora una volta, è inconcepibile comprendere il socialismo sovietico senza avere una benché minima idea del substrato di storia, culture e tradizioni su cui si è formato. Soprattutto, senza comprendere che, lungi dall’impostura di supposte nuove escatologie, come certa propaganda anticomunista ancora oggi millanta, l’idea di “salvezza” era inscindibile – e altro non poteva essere! - da quello di “edificazione”, costruzione di un mondo nuovo. Esattamente come nelle izbe contadine, da cui questa terminologia deriva.
Il termine infatti deriva dal krasnyj ugol, “l’angolo bello” dell’izba: letteralmente, infatti, krasnyj (красный) significa rosso, ma anticamente comprendeva anche lo spazio semantico del bello, ricoperto dall’attuale krasivyj (красивый), onde per cui krasnyj ugol è “l’angolo bello” della casa (contadina, ovvero l’izba). E cosa c’era in quest’angolo bello? Fondamentalmente un altarino con almeno un’icona, più possibili inserimenti di lumini, acquasantiere e testi sacri a protezione della casa. Un angolo FISSO, IMMANCABILE, INCORPORATO nella concezione architettonica stessa dell’izba (ma anche nelle nostre case contadine!), insieme ad altri accorgimenti presi nell’atto stesso della COSTRUZIONE della casa, come l’inserimento di piccoli oggetti simbolici fra un tronco e un altro man mano che si sale di livello nell’edificazione delle pareti portanti.
Salvezza ed edificazione come due momenti indissolubili dello stesso processo. Lo stesso devono aver avuto in mente, più o meno consapevolmente, i bolscevichi nel creare all’interno di ciascun luogo di lavoro (la costruzione) un “angolino rosso” (la salvezza, красный уголок, con il vezzeggiativo “angolino” ugolok al posto di “angolo” ugol). Inizialmente, anche dal punto di vista architettonico, tale angolo doveva ricalcare grosso modo la stessa collocazione dell’izba all’interno però di un’officina o di uno stabilimento.
Successivamente, all’angolino rosso si aggiunsero piccole biblioteche e aule per l’alfabetizzazione, angoli ricreativi o ludici, sale conferenze, a seconda delle dimensioni e delle disponibilità dell’azienda e dei lavoratori: Queste immagini, contemporanee fra loro e abbastanza recenti per quanto riguarda il periodo di storia sovietica da noi considerato ne restituiscono gli aspetti principali (prima e seconda metà anni Settanta, poi ci sarebbero stati altri cinque anni, che per certi versi è meglio non considerare, a causa dei continui “raffreddori” che prendevano i capi, e poi il tradimento finale… un decennio interessante per gli storici, ma non per chi cerca di riannodare fili di un discorso interrotto… e a quel punto interrotto da tempo!):
La prima immagine è datata 19724, e ritrae il krasnyj ugolok della centrale termoelettrica interna al complesso industriale Azot ubicato nella città di Severodoneck, che produceva prima per il popolo e poi, fino all’inizio della SVO al soldo di un oligarca ucraino, fertilizzanti chimici: del resto, in una centrale che ha il compito di dare elettricità all’intero gruppo industriale, la frase che capeggia di fianco all’iconica effigie di Lenin non poteva non essere che l’altrettanto iconico: “Il comunismo è il potere dei soviet più l’elettrificazione dell’intero Paese”.
A fare da contrappunto a questa immagine celebrativa, alla sua inquadratura (probabilmente digitalizzata da un opuscolo dell’epoca a giudicare dalla didascalia stampata sottostante) curata e tesa a rappresentare l’orgoglio dell’organizzazione sindacale nell’aver saputo al contempo coniugare ampiezza, luminosità, modernità e dedizione alla causa, abbiamo l’immagine successiva5.
Una foto “rubata”, senza preoccuparsi troppo dell’effetto di appiattimento del flash “sparato” direttamente o di essere in bolla con la macchina, che per la sua (involontaria?) ironia non sarebbe dispiaciuta a Robert Doisneau. Siamo sulla motonave Polluks (Polluce), del tipo Aleksandra Kollontaj B-443, finita di costruire a Danzica nel 1971 su commissione sovietica e adibita al trasporto refrigerato di merci6. Come tutti i luoghi di lavoro, anche la motonave Polluks aveva il suo “angolino rosso”. Un giovane agitatore, sullo sfondo di una bacheca con gli obbiettivi di produzione e altri proclami altisonanti dal XXV Congresso del PCUS appena svoltosi (24/2-5/3 1976)… sembrava smettere per un attimo taccuino e panni di agitatore e indossare quelli di giovane, approfondendo altri aspetti della vita sociale parimenti essenziali. Serviva anche a questo, quell’angolino, oltre che a giocare a scacchi o a leggere un libro o una rivista.
Ma torniamo a Tomskij, e al suo più che legittimo orgoglio di fronte ai risultati conseguiti nel lavoro culturale. Una breve notazione, merita l’espressione che usa per il cosiddetto “lavoro di risveglio ed educazione culturale”: in russo è kul’turno-prosvetitel’naja rabota (культурно-просветительная работа); a kul’turno diciamo che ci si arriva abbastanza intuitivamente, e rabota è rabota sempre e ovunque. Anzi, è bello trovarlo in questi contesti, perché ci riporta già a un’altra idea di lavoro. Un lavoro NON alienato, libero, che conteneva già in nuce elementi di quella società futura che, giorno dopo giorno, prendeva forma sotto gli occhi di quei lavoratori. Un lavoro utile all’essere umano, alla società, in pieno altruismo: non quella schifezza che si nasconde dietro l’ipocrisia di un blog, o di un canale youtube, miraggio per milioni di giovani alla spasmodica (e patologica) ricerca di qualcosa da “offrire” in cambio di un “pollice recto”, meglio, di tanti “pollice recto”. Un lavoro libero dallo stesso vincolo salariale, visto che si svolgeva fuori dai turni della fabbrica. Un lavoro VOLONTARIO: interamente, direttamente, dai lavoratori per i lavoratori, quindi dono, da un lato, ed emulazione socialista, dall’altro, anche perché il suo scopo era, specialmente in quella fase di analfabetismo diffuso, essenzialmente educativo.
E veniamo al termine non ancora visto di questa espressione: prosvetitel’naja. Il verbo svetit’ è illuminare, il suffisso pro- implica il passare attraverso, l’immagine quindi è un’illuminazione del tipo proiettore lucidi o dia, o illuminatore negativi fotografici o radiografie. Un’immagine forte, che coincide in toto con l’illuminazione di chi è “passato attraverso la luce” e, finalmente, “apre gli occhi”, “vede la luce”. Non è quindi semplice “istruzione”, ed è ancora più forte della semplice “educazione”, ex-ducere. È più una espressione che risente, ovviamente, del secolo dei lumi, ma applicata non più a una borghesia che lotta contro l’oscurantismo monarchico-clericale, bensì a un proletariato, nel migliore dei casi semianalfabeta, che lotta contro le classi che lo opprimono, assume ancor più sua forza espressiva: la differenza di potenziale, l’altezza della diga della centrale idroelettrica, il “salto”, era MOLTO, molto più grande di quello del parrucchino massone settecentesco contro il parrucchino monarchico-clericale.
Del resto, “aprire gli occhi” e “vedere la luce” altro non poteva essere l’educazione quando un figlio di contadini si trovava, di colpo, a capire che quei segni strani sulla carta erano la chiave per aprirgli un mondo fino ad allora negatogli, e negatogli per un motivo lampante: perché serviva e serve gente ignorante per ingrossare le fila della carne da macello.
Quello che non accade oggi, laddove chiamiamo “educazione” una scuola pubblica ridotta a classi pollaio e tornata a sudditanze padronali inaccettabili, a metodi di manipolazione, dominio e soggiogamento socioculturali di giovanissime e giovani coscienze, parcheggiate fino a diciassette-diciotto anni fino a quell’alternanza scuola-lavoro che mostrerà finalmente loro “la strada”: un padrone da tenersi buono per esser sicuri ogni mese di portare a casa qualcosa e, “per qualche dollaro in più”, vendere tutto, anche la madre.
Per questo, ho tradotto kul’turno-prosvetitel’naja rabota con “lavoro di risveglio ed educazione culturale”. Per far capire che con RISVEGLIO si andava OLTRE la semplice alfabetizzazione, come può essere oggi insegnare a un bambino (o a un adulto) a interfacciarsi con segni alfabetici e/o informatici, e o l’“educazione” intesa nel senso più banale (quello richiesto oggi), di addestrare meglio il giovane gorilla o dar da fare qualcosa all’anziano gorilla dopo l’ennesima espulsione dal ciclo lavorativo; RISVEGLIO come “illuminazione”, per prendere parte alla costruzione di una società e un mondo nuovi, fatti dai lavoratori e per i lavoratori, nel senso di cui sopra. Per questo Tomskij poteva affermare con orgoglio:
Le nostre unioni sindacali stanno facendo un lavoro mai visto in nessun Paese da parte di nessun sindacato. E penso di non esagerare dicendo che, in queste condizioni, e nonostante tutti i colossali successi nel campo del lavoro culturale, il più importante ambito di lavoro del sindacato sia, oggi come nel breve periodo, proprio il lavoro culturale ed educativo. È questo importante e al tempo stesso complesso, dal momento che in questo campo abbiamo meno esperienza che in tutto il resto. Le nostre organizzazioni sindacali per la prima volta nella storia del movimento operaio hanno sviluppato un colossale, e di massa, lavoro di risveglio ed educazione culturale, con dimensioni che nessun altro sindacato mondiale è in grado soltanto di concepire. Un lavoro del tutto inedito nella storia del movimento operaio e che per noi significa, qui in questo campo, non smettere mai di studiare, studiare e ancora studiare, dall’inizio alla fine7.