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Il "vero uomo" e l'"uomo bravo"
di Tiziano Bonini
Qual è il problema dei maschi contemporanei? Soprattutto dei più giovani?
A molti di voi questa domanda suonerà strana, o marginale. Eppure me la faccio spesso. Negli ultimi anni, tra i banchi delle mie classi (insegno sociologia dei media a studenti universitari) ho notato un divario crescente tra studentesse e studenti. Le studentesse sono in genere molto più motivate e brillanti degli studenti. Quando poi le ritrovo un anno dopo a chiedermi la tesi, sono ancora più mature e determinate. Leggono libri, hanno idee creative, sono puntuali e autonome. Gli studenti maschi al contrario, tranne qualche rara eccezione, sono un po’ infantili, poco motivati, e vanno guidati passo dopo passo. E quando parliamo di questioni di genere, media e piattaforme digitali, i maschi assumono una posizione difensiva e un po’ vittimistica, della serie: “Io non sono maschilista ma…”
Non sono uno studioso di questioni di genere, e in quanto maschio bianco cisgender occidentale ormai avviato verso i cinquant’anni, non ho nemmeno l’esperienza vissuta necessaria per comprendere cosa stia succedendo ai giovani maschi occidentali. Però sono cresciuto con gli studi culturali britannici e come sociologo condivido l’idea, con molti altri colleghi, che il genere (come la tecnologia e molto altro) sia una costruzione sociale, e in quanto costruzione sociale, può essere (faticosamente) modificata o negoziata.
Per capire meglio cosa accade ai giovani maschi contemporanei, mi sono messo a leggere. Qualche mese fa avevo letto un libro dell’economista americano Richard Reeves, che negli Stati Uniti ha ottenuto ampia risonanza, tanto da essere citato da Barack Obama: Of Boys and Men. Why the modern male is struggling, why it matters and what to do about it.. Il libro di Reeves parte dalla premessa che negli ultimi decenni, mentre le donne hanno conquistato maggiori diritti e opportunità in ambito educativo e lavorativo, molti uomini sembrano in difficoltà a fronteggiare questi mutamenti. Il libro di Reeves si interroga su questo squilibrio, sostenendo che gli uomini — in particolare i meno istruiti e i neri americani — stanno sperimentando una crisi profonda, fatta di abbandono scolastico, isolamento sociale, disoccupazione, dipendenze e tassi di suicidio più elevati che in passato.
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L’isolamento di Israele
di Francesco Pallante
Intervenendo alla Knesset lo scorso 13 ottobre, Donald Trump ha sostenuto che, grazie al suo piano di pace, «ora il mondo ama di nuovo Israele». Per poi aggiungere – con parole rivolte direttamente a Benjamin Netanyahu – «che se foste andati avanti con la guerra e le uccisioni non sarebbe stato lo stesso» (cioè, il mondo avrebbe continuato a odiarvi).
Naturalmente, come spesso capita, anche in questa occasione il presidente degli Stati Uniti ha sovrapposto i propri desideri alla realtà. Il mondo continua a essere sgomento al cospetto della violenza scatenata, e ostentata, da Israele contro gli inermi di Gaza (e, sempre più, anche della Cisgiordania); e nessun credibile segnale mostra mutamenti nella ripulsa con cui l’opinione pubblica mondiale continua – giustamente – a considerare Israele. È, tuttavia, significativo il fatto che Trump abbia ritenuto di dover intervenire sulla reputazione dello Stato ebraico, anche perché le sue parole non sono figlie di una considerazione estemporanea. Secondo quanto riportato dal Financial Times, già durante l’estate, il 31 luglio, il presidente statunitense aveva toccato l’argomento in una conversazione privata intrattenuta con un influente donatore della sua campagna elettorale, al quale aveva confessato: «il mio popolo sta iniziando a odiare Israele». Ciò induce due considerazioni.
La prima considerazione è che dalla guerra dell’informazione Israele è uscito sconfitto, a dispetto delle enormi risorse economiche profuse in propaganda e della pletora di media, giornalisti e influencer assoldati al suo servizio.
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L'Antropocene è stato cancellato?
di Ian Angus
Ian Angus fa luce sulle motivazioni politiche alla base della decisione dell' Unione Internazionale di Scienze Geologiche di non riconoscere l'Antropocene come epoca geologica ufficiale. Nel ripercorrere il dibattito, egli analizza come l'organizzazione abbia minato le conclusioni dei migliori scienziati, per opporsi all'istituzione dell'Antropocene come nuova epoca geologica e sminuire le sue implicazioni nel dibattito pubblico sulla crisi planetaria
Circa 2,8 milioni di anni fa, il livello di anidride carbonica nell'atmosfera terrestre diminuì, dando inizio a un'era glaciale. Da allora, i cambiamenti a lungo termine nell'orbita e nell'inclinazione della Terra, chiamati cicli di Milankovitch, hanno prodotto oscillazioni della temperatura globale ogni 100.000 anni circa. Nelle fasi glaciali (fredde), calotte di ghiaccio spesse chilometri coprivano la maggior parte del pianeta; nei periodi interglaciali (caldi) più brevi, il ghiaccio si ritirava verso i poli. Negli ultimi 11.700 anni abbiamo vissuto in un periodo interglaciale che i geologi chiamano Epoca Olocenica.
In circostanze normali, i ghiacciai e le calotte polari starebbero ora crescendo lentamente. Come dimostrano recenti ricerche, «se non fosse per gli effetti dell'aumento di CO2, l'inizio della glaciazione raggiungerebbe il tasso massimo entro i prossimi 11.000 anni».[1] Invece del riscaldamento globale, il futuro della Terra sarebbe il congelamento globale, ma solo in un futuro lontano.
Tuttavia, come sa chiunque sia anche solo leggermente consapevole delle questioni ambientali, i ghiacciai e le calotte polari del mondo non si stanno espandendo, ma si stanno riducendo rapidamente. Tra il 1994 e il 2017, la Terra ha perso 28 trilioni di tonnellate di ghiaccio e il tasso di declino è aumentato del 57% dagli anni '90.[2] Anche se le emissioni di gas serra venissero rapidamente ridotte, le condizioni che impediscono il ritorno delle calotte glaciali continentali persisteranno probabilmente per almeno 50.000 anni. Se le emissioni non cessano, il ghiaccio non tornerà per almeno mezzo milione di anni.[3]
In breve, come conseguenza diretta delle emissioni di gas serra causate dall'attività umana, l'era glaciale è stata annullata.
Questa è la prova concreta di una delle conclusioni più radicali della scienza del XXI secolo: «La Terra ha ormai abbandonato la sua epoca geologica naturale, l'attuale stato interglaciale chiamato Olocene. Le attività umane sono diventate così pervasive e profonde da rivaleggiare con le grandi forze della natura e stanno spingendo la Terra verso una terra incognita».[4]
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Eurosuicidio: come l’Unione Europea si è condannata con le proprie mani
di Gabriele Guzzi
L’economista Gabriele Guzzi spiega perché l’Europa paga il prezzo di scelte che hanno anteposto i mercati a tutto il resto
Nel suo ultimo libro, Eurosuicidio, Gabriele Guzzi analizza le radici strutturali della crisi europea. L’Ue, nata per unire il continente, ha posto i mercati e la moneta al centro del progetto politico, sacrificando sovranità democratica e giustizia sociale. Il risultato, sostiene l’autore nell’introduzione al libro che Krisis pubblica qui di seguito, è un’Europa priva di direzione, schiacciata da vincoli economici che ne minano la stessa esistenza.
Origini della crisi La tesi dell’economista è che le difficoltà dell’Ue non sono fortuite, ma sono l’esito logico e coerente di scelte strutturali compiute fin dalle sue origini. In sintesi, la causa della crisi è l’Ue stessa e la sua struttura istituzionale.
Euro come Eurosuicidio La frontiera più avanzata dell’integrazione è l’euro, definito da Gabriele Guzzi l’atto fondativo dell’Eurosuicidio. Mettere insieme Paesi differenti in un’unione monetaria senza un’unione politica ha creato i presupposti per l’auto-annichilimento.
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È l’accademia, bellezza!
di Linda Brancaleone
1. “Oggi la precarietà è dappertutto”: un’introduzione necessaria
La precarietà è ormai la cifra del nostro tempo, si trova «dappertutto»[1], come ammoniva Bourdieu. Non è solo una condizione lavorativa: è una forma di vita, un destino imposto a una generazione che ha fatto dell’incertezza la propria biografia. Il “precariato” – fusione simbolica di precario e proletariato – definisce un nuovo soggetto sociale, sfruttato e vulnerabile, privato di garanzie e diritti, gettato nel limbo di contratti a termine, borse malpagate, rinnovi a singhiozzo. È una condizione «che si radica anzitutto nella sfera occupazionale»[2], ma si estende a tutte le altre: abitativa, relazionale, affettiva. Nulla sfugge al morbo della precarietà.
Né si tratta di una questione privata: la precarietà si fa istituzione, criterio di governo. Come nei sistemi neoliberali descritti dalla sociologia più critica, i meccanismi di welfare vengono piegati per “espellere” i lavoratori instabili, trasformando la mancanza di stabilità in colpa individuale. Il precario diventa, per usare le parole della dottrina, un «impossible group»[3], una moltitudine di esclusi accomunati solo dalla mancanza: di sicurezza, di diritti, di voce. Nessun senso di appartenenza, nessuna “comunità occupazionale”: solo la solitudine di chi naviga a vista in un mare di incertezze.
A rendere questa condizione più insidiosa è la vulnerabilità, intesa come «elevata esposizione a certi rischi»[4] unita all’incapacità di difendersi dalle loro conseguenze. Guy Standing ha descritto bene questa categoria: i precari non sono solo lavoratori poveri, ma cittadini dimezzati, esclusi dal tessuto sociale, privi di riconoscimento[5]. La loro esistenza è frammentata, il loro tempo sequestrato. È qui che la precarietà diventa biopolitica: il potere plasma i corpi e ne regola i ritmi, “autorizzando” solo forme di vita funzionali all’economia dell’incertezza.
2. Il ddl Bernini: la riforma che moltiplica la precarietà
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Intelligenza Artificiale, tecnofascismo e guerra
di Giorgio Griziotti
Questo documento è il compendio di un saggio di Giorgio Griziotti “How to Survive Artificial Intelligence – Intelligenza artificiale, tecnofascismo e guerra“. Per chi fosse interessato/a, il saggio è disponibile nella sua interezza cliccando qui.
* * * * *
A differenza della minaccia nucleare del secolo scorso — catastrofe possibile da cui si illudeva di potersi proteggere –con l’intelligenza artificiale siamo immersi in una trasformazione devastante già in corso.
Nei discorsi dominanti si oscilla tra narrazioni semplificate: l’IA come dominio delle macchine, come promessa salvifica o come strumento transumanista.
Occorre invece un’indagine che affronti l’insieme dei fenomeni complessi generato dall’ingresso dell’IA nel paesaggio quotidiano, situandola nel contesto storico e nel regime di guerra che stiamo attraversando.
Lavorando sul concetto di neurocapitalismo sviluppato negli anni Dieci, cercavo di mettere in luce come le tecnologie digitali, i social media e le piattaforme globali avessero trasformato emozioni, cognizione e affetti in materia prima della valorizzazione e in variabili di controllo sociale. Oggi il progetto di IA dei tecno-oligarchi — Musk, Thiel, Altman &C — cerca addirittura di riconfigurare l’umano dalle fondamenta.
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Sono felice solo quando manifesto
di Antonio Semproni
Su uno dei tanti cartelloni che ho visto a Roma durante le manifestazioni contro il genocidio campeggiava la scritta “avremmo dovuto liberare la Palestina/invece è stata la Palestina a liberare noi”. Facendo affidamento sulle plurime accezioni del verbo “liberare”, possiamo concludere che questo slogan imperniato su un banale gioco di parole è vicinissimo al vero. La libertà che abbiamo sperimentato durante le manifestazioni è stata la condizione per percepire una felicità quasi inedita nell’epoca delle liberaldemocrazie (o tecnocrazie) capitaliste.
Scommetto che questa constatazione valga non solo per il sottoscritto, ma anche per voi che leggete e avete manifestato: sotto la spessa scorza della giusta rabbia, ho intuito la felice libertà di moltissimi, e credo di averne avuto conferma parlando con più di qualche partecipante, fra amici, conoscenti e anche sconosciuti. Alla base di questa felice libertà c’è sicuramente un’esperienza estetica non indifferente: a prima vista, marciare in mezzo a tante persone verso una direzione ben precisa (che sia La Sapienza o la sopraelevata della tangenziale) o semplicemente incamminarsi assieme a loro è un’azione che capovolge il quotidiano e risignifica lo spazio urbano, dove ciascuno si dirige per conto proprio verso una distinta meta. Comporre insieme agli Altri la folla, costituire un pezzetto di quel gigantesco puzzle che invade le strade e le piazze ci fa accantonare le preoccupazioni individuali e persino quelle corporali: è come se il nostro corpo (con le sue energie individuali) confluisse in quelli di tutti gli Altri e viceversa.
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Il buco-armi con la manovra intorno, la IV di Meloni
di Roberto Romano
Senza il Pnrr saremmo già in territorio-recessione. Ma la manovra tratteggiata da Giorgetti avrà impatto nullo, improntata al Patto di Stabilità senza un euro per politiche di sostegno alla crescita. L’obiettivo, rientrare dalla procedura di infrazione, pare funzionale a lasciare spazio finanziario a un piano di riarmo.
Il trittico dei documenti che delineano l’impianto economico del governo si è completato con l’approvazione della Legge di bilancio da parte del Consiglio dei ministri il 17 ottobre. Ne risulta un quadro programmatico improntato a una manovra a saldo pressoché nullo, rigidamente conforme ai vincoli del nuovo Patto di Stabilità e Crescita sottoscritto dai Paesi europei nel 2024.
Sussistevano margini, seppur limitati, per un utilizzo più flessibile dei saldi di finanza pubblica, agendo sull’avanzo primario o sull’indebitamento netto, al fine di liberare risorse aggiuntive da destinare a politiche di sostegno alla crescita. Tuttavia, l’esecutivo ha optato per un’applicazione pedissequa del quadro europeo, presumibilmente per evitare effetti negativi sulla quota del bilancio pubblico assorbita dagli interessi sul debito.
Ne deriva un bilancio di previsione per il triennio 2026-2028 sostanzialmente neutro, con risorse aggiuntive limitate a 900 milioni di euro per il 2026, in crescita a 6 e 7 miliardi rispettivamente nel 2027 e nel 2028. Tali incrementi sembrano correlati alla necessità di coprire il progressivo aumento della spesa militare, temporaneamente rinviata a giugno, quando il Paese dovrebbe uscire dalla procedura per disavanzo eccessivo, attivata a seguito del superamento della soglia del 3% di indebitamento netto già previsto per il 2025.
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A Gaza Trump tenta di porre un argine a Israele, ma il futuro è fosco
di Roberto Iannuzzi
Per contenere l’unilateralismo israeliano, la Casa Bianca dovrebbe esercitare una costante pressione sul governo Netanyahu. Ma in ogni caso il piano Trump non offre nulla ai palestinesi
Cosa attende Gaza dopo il fragile cessate il fuoco imposto dal presidente americano Donald Trump con un vertice pomposo quanto privo di contenuti a Sharm el-Sheikh in Egitto, e con un discorso smaccatamente filo-israeliano pronunciato alla Knesset?
Se tutto andrà secondo i piani, “la vita per gli abitanti di Gaza passerà dall’essere un completo inferno a un semplice incubo”, hanno scritto sulle pagine del Guardian Hussein Agha e Robert Malley, entrambi per anni coinvolti nel fallimentare processo di pace israelo-palestinese.
Il piano Trump per Gaza è profondamente sbilanciato, sostengono i due esperti. Esso
“esige dai palestinesi l’espiazione per gli orribili atti del 7 ottobre, ma non da Israele per la barbarie che ne è seguita. Chiede la deradicalizzazione di Gaza, ma non la fine del messianismo israeliano. Detta in ogni aspetto il futuro del governo palestinese, senza dire nulla sul futuro dell’occupazione israeliana”.
Il piano è “pieno di ambiguità, privo di un calendario definito, di giudici o di conseguenze per le inevitabili future violazioni”, e “se la sua nebulosità non verrà sfruttata per silurarlo”, scrivono Agha e Malley, i palestinesi di Gaza passeranno “dall’essere vittime indifese a rifugiati due volte espropriati nella loro stessa terra”.
Le ragioni del cessate il fuoco
Il cessate il fuoco imposto da Trump ha fatto leva sul momento di grande difficoltà attraversato, per ragioni diverse, sia da Hamas che da Israele.
Il primo, alle prese con la drammatica situazione di una popolazione ridotta alla fame dalle restrizioni israeliane, con la devastante offensiva militare israeliana su Gaza City, e sotto l’enorme pressione dei mediatori arabi e della Turchia, ha deciso di scommettere sulle deboli garanzie offerte da Trump.
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Ucraina, l’agonia del regime
di Fabrizio Casari
Marzo 2021. In un controllo casuale spuntano duecento chili di banconote. Due quintali di bigliettoni fascettati, mica due buste della spesa. C’erano dentro 28,8 milioni di dollari e 1,3 milioni di euro. Destinazione Ungheria, viaggio di sola andata. Era solo l’antipasto, la portata principale doveva ancora arrivare. Erano passate solo 4 settimane dall’inizio dell’operazione Militare Speciale russa in Ucraina e già la tribù di Zelensky cominciava a mettere al sicuro parte dei finanziamenti europei e statunitensi stanziati per far sì che gli ucraini, carne da cannone per l’ennesima tappa di ampliamento verso Est della NATO, obbligassero la Russia ad una guerra lunga, costosa, difficile da vincere.
L’inchiesta di oggi, quasi 4 anni dopo, è ancor più devastante. C’è un suo uomo chiave: Timur Mindich, ideatore dello schema di tangenti, del valore di 86 milioni di euro, con il pagamento del 10-15% su ogni contratto energetico. Nella sua casa sono stati scoperti water e bidet d’oro massiccio, credenze di cucina straripanti di sacchetti di banconote da 200 euro.
Mindich è intimo amico di Vladimir Zelensky. Amico di assoluta fiducia, tanto che è comproprietario tuttora della casa di produzione Kvartal 95, che fino al 2019, quando l’allora comico Zelensky vinse le elezioni, ne produceva gli show. Soprattutto, è stato Mindich a presentare a Zelensky il miliardario Kolomoyskyi, principale finanziatore della sua campagna elettorale nel 2019.
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Lenin e la metafisica
di Salvatore Bravo
In Materialismo ed empiriocriticismo (1908) Lenin pone le condizioni per la pensabilità della rivoluzione. Il marxismo dogmatico conduceva all’inazione, in quanto la storia era consegnata alle leggi supreme e positivistiche della storia speculari alle leggi di natura, per cui bisognava attendere l’ordine delle leggi. Una delle motivazioni del fallimento del biennio rosso in Italia fu l’attesa incrollabile negli eventi, per cui non ci si adoperò per coordinare le azioni tra operai e campagne, ma si attese la rivoluzione che non si materializzò.
Lenin comprese nel suo genio l’urgenza di ricostituire il legame tra pensiero ed essere senza dogmatismi e ponendo la centralità della coscienza del partito e della classe operaia in relazione dialettica e pensata con la storia. La scissione tra pensiero ed essere aveva assunto caratteri di “scientificità”, si pensi al fisico Mach per il quale anche le teorie scientifiche erano prospettive che funzionavano e non rispondevano alla realtà come essa era nella sua verità, giacché l’essere umano è prigioniero della sua rappresentazione e dei suoi sensi, questi ultimi sono l’unica realtà accessibile e pertanto l’in sé resterà sempre un “segreto e un mistero”. La filosofia di Mach è una forma di positivismo che cela l’idealismo, o meglio è idealismo travestito di idealismo, così affermava Lenin. Tale concezione in campo filosofico e politico ledeva fortemente la prassi e la razionale dialettica progettuale, poiché i singoli come i gruppi sociali sono interni a una rappresentazione del mondo e di conseguenza la progettualità è prospettica e non ha nessun valore oggettivo, essa è fortemente limitata dal soggettivismo interpretativo.
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Il ‘modello Mamdani’ visto da Israele
di Alessandro Avvisato
Abbiamo seguito da vicino le vicende delle elezioni del nuovo sindaco di New York, Zohran Mamdani, perché sono sintomo, e forse anche un passo ulteriore, nel percorso di crescente conflitto sociale e politico interno agli Stati Uniti. L’arrivo ai massimi livelli della Grande Mela da parte di un musulmano con un programma di governo considerato ‘socialista’.
Siamo ben consapevoli di tutte le ambiguità che rimangono, sul piano strategico, nei discorsi di Mamdani: sul ruolo imperialista degli USA nei confronti del ‘cortile di casa’ latinoamericano (Cuba e Venezuela), ma anche su Israele, nonostante la sua campagna abbia fatto leva largamente sull’opposizione al piegarsi continuo dei politici stelle-e-strisce agli interessi del sionismo internazionale.
Quello che vogliamo evidenziare è un processo, radicato nelle tendenze della crisi capitalistica, piuttosto che un ‘parteggiare’: il fallimento del ‘melting pot‘ statunitense va di pari passo con la sua crisi egemonica e della sua capacità di proiettarsi come ‘polizia’ del mondo intero. Le linee di faglia etniche si allargano insieme a quelle economiche, spesso si sovrappongono, e il legame che hanno con il ruolo USA nell’ordine globale appare sempre più evidente.
In un certo senso, è la declinazione d’oltreoceano di un processo di politicizzazione che abbiamo visto anche in Italia, con milioni di persone scese in piazza contro la complicità nel genocidio dei palestinesi, e riguardo al quale è apparso chiaro l’interesse del complesso militare-industriale che oggi è al centro degli indirizzi politici di tutta la compagine NATO.
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La crisi nel cuore dell’impero. Da New York a noi
di Francesco Piccioni
Prese le misure agli svarioni della “sinistra”, vediamo un attimo cosa sta succedendo tra gli opinionisti mainstream alle prese con New York che sarebbe caduta in mano al “socialismo islamico”. O come altro volete chiamare il “fenomeno Mamdani”…
Semplice: è il panico totale.
Qui in genere si va – specularmente alle paturnie sinistresi – dalla demonizzazione pura e semplice (i suprematisti reazionari) fino al sorrisetto di sufficienza liberale di chi spera che poi, alla prova del “governo”, gli altissimi ideali saranno ricondotti al tran tran appena rivestito di novità. E fin qui restiamo ancora a un livello superficiale, incapace di guardare al di là del naso…
Ma non appena si va a spulciare tra chi, se non altro, prova a misurare il significato di una rottura per ora più nelle parole che nella realtà, l’orizzonte del futuro sfuma ormai nel plumbeo.
Per quello che chiamiamo abitualmente “establishment” – il complesso della “classe dirigente” che persegue il mantenimento di un certo ordine costruito a difesa dei propri interessi, senza troppe differenze tra imprenditori, politici, tecnici, giornalisti, ecc – quel che sta avvenendo negli Stati Uniti ha tutte le sembianze del disastro annunciato.
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Palestina: la lotta continua
di Fronte del Dissenso
La tregua in atto da qualche giorno a Gaza dà quantomeno respiro a una popolazione martoriata. E’ alla sofferenza, e all’incredibile capacità di resistenza del popolo palestinese, che va il nostro primo pensiero. E’ grazie a questa resistenza che lo sterminio genocida di Israele è stato almeno provvisoriamente fermato. A questo popolo e alle sue organizzazioni va la nostra piena solidarietà.
La tregua non è la pace. Non lo è non solo perché essa è precaria, non solo perché Israele viola da sempre ogni accordo (come vediamo in questi giorni in Libano), ma soprattutto perché essa è figlia di uno stallo militare, non di una svolta politica che riconosca finalmente i diritti del popolo palestinese.
La tregua è il frutto di un compromesso aperto a diversi possibili sviluppi. Un compromesso che, per ora, ha portato alla cessazione dei combattimenti e allo scambio dei prigionieri. Su tutto il resto il disaccordo permane. Hamas e le altre forze della Resistenza palestinese, che hanno agito in grande accordo tra loro, hanno accettato la tregua, non certo il pretenzioso piano neocolonialista di Trump.
Quel piano rappresenta la prosecuzione della politica dell’imperialismo americano in Medio Oriente. L’Occidente continua, infatti, a considerare l’entità sionista come il proprio decisivo avamposto in quella regione. Sta di fatto che Israele non avrebbe potuto reggere due anni di guerra – attaccando oltre che a Gaza e in Cisgiordania, il Libano, l’Iran, la Siria, l’Iraq, lo Yemen e il Qatar – senza le armi e la complicità statunitense ed europea.
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Il Venezuela si prepara agli attacchi militari americani
di Geraldina Colotti
Alla fiera del libro di Caracas, che ha aperto i battenti il 31 di ottobre, giornalisti e intellettuali commentano l’allarme lanciato da El Nuevo Herald e ripreso dalla stampa internazionale, secondo il quale, stando a “fonti bene informate”, gli Stati uniti sarebbero sul punto di attaccare “porti e istallazioni militari venezuelane” nel segno della cosiddetta lotta al narcotraffico. Bastava, però, leggere l’opposto richiamo di due quotidiani internazionali per rendersi conto della completa contraddittorietà della notizia. Da una parte il quotidiano di Miami in lingua spagnola, dall’altra El Pais, di Spagna, che annunciava invece: Trump smentisce di voler attaccare il Venezuela.
E, infatti, fin dalle prime ore del giorno, si poteva leggere il commento sui social del segretario di stato Marco Rubio, principale costruttore dell’aggressione in corso nei Caraibi e nel Pacifico, al Venezuela e alla Colombia: “Le tue ‘fonti’ ti hanno ingannato per scrivere una storia falsa”, diceva Rubio al Nuevo Herald. Anna Kelly, Vice Segretaria Stampa della Casa Bianca, respingeva a sua volta il rapporto del Miami Herald, quotidiano di lingua inglese a sua volta edito dalla Miami Herald Media Company e ugualmente rivolto alla comunità della Grande Miami, di forte influenza in America latina e nei Caraibi: “Le fonti anonime non sanno di cosa stanno parlando”, diceva Kelly, aggiungendo che qualsiasi annuncio ufficiale sulla politica in Venezuela sarebbe arrivato direttamente dal presidente.
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Quattro teatri per Trump
di Enrico Tomaselli
Che l’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti fosse dovuta a un insieme di fattori, di cui due principali, l’ho sempre sostenuto e ne sono assolutamente convinto. Il primo di questi è stato che una parte minoritaria del deep power statunitense riteneva urgentemente necessario modificare il modo in cui veniva gestita la strategia imperial-egemonica degli USA, in particolare da quel blocco di potere che possiamo identificare nella convergenza tra il mondo politico democratico (inteso come partito) e i neocon. Il secondo, la disponibilità su piazza di una figura – Trump appunto – che aveva le caratteristiche necessarie per poter competere vittoriosamente alle elezioni, con riferimento in particolare al movimento MAGA.
Tutto ciò, naturalmente, va comunque inquadrato alla luce di un presupposto ovvio ma spesso ignorato, ovvero il fatto che per una potenza imperiale è assolutamente fondamentale avere una strategia globale che ragioni su tempi lunghi, e che quindi non può essere soggetta a cambiamenti radicali ogni quattro anni, sulla base delle alternanze alla presidenza. Ciò implica non solo che tali strategie vengano definite prevalentemente al di fuori delle singole amministrazioni, ma che vi sia un apparato che provvede non solo a elaborarle, ma anche ad assicurarsi che vengano applicate. Ed è precisamente ciò che chiamiamo correntemente deep state (e che io preferisco definire deep power); che non va però immaginato come una organizzazione segreta, una sorta di Spectre, ma – appunto – come un insieme di poteri, istituzionali e non, la cui durata non è soggetta al voto popolare, e la cui composizione può, entro certi limiti, essere mutevole.
Alla luce di quanto detto, appare chiaro come un presidente degli Stati Uniti, per quanto formalmente dotato di grandi poteri, sia di fatto limitato, nel suo agire, da un quadro generale predeterminato. E Trump non fa eccezione. Per quanto ami pensarsi e presentarsi come un monarca, ogni sua scelta è possibile all’interno di questo ambito circoscritto. Che però, altrettanto ovviamente, deve in qualche misura tener conto anche delle oscillazioni dell’elettorato, cui in ultima analisi spetta formalmente il potere di scelta dei suoi rappresentanti.
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Il genocidio è americano
di Piero Bevilacqua
Non lasciamoci ingannare. Quella ottenuta da Trump non è una pace, ma per il momento una tregua, un cessate il fuoco, comunque benvenuto per le martoriate popolazioni palestinesi. Esso schiude spiragli per il futuro aperti a importanti possibilità su cui occorrerà ritornare. La rivolta di massa che ha investito i paesi europei, le divisioni interne allo stato di Israele, lo scandalo della posizione genocida americana di fronte al mondo, ha costretto Trump, o qualche suo influente consigliere, a intervenire con qualche soluzione che fermasse il massacro. Il sollievo che proviamo in questo momento, le emozioni che ci suscitano le immagini dei disperati, che festeggiano la tregua tra le rovine delle proprie case, non ci deve, tuttavia, annebbiare la mente, né far desistere dai compiti dell’analisi storica. L’unica in grado di restituire la corretta lettura dei fatti. Anche se oggi bisogna pur sottolineare un fatto di grandissimo rilievo: la potenza politica delle mobilitazioni di massa. Quello che non hanno fatto gli stati di quasi tutto il mondo, il Parlamento europeo, le inconsistenti élites di un continente alla deriva, lo hanno fatto milioni di cittadini, tantissimi ragazzi e ragazze che per giorni e giorni sono scesi nelle strade nostre città. Ma il fine di questo articolo è un altro.
Oggi, in Italia, assistiamo a un evidente fenomeno di comportamento gattopardesco. Di fronte all’abbagliante evidenza del genocidio compiuto a Gaza, i narratori delle magnifiche sorti e progressive dell’Occidente cominciano ad ammettere qualcosa, ma non per rivedere errori di valutazione, accennare a un’onesta autocritica. No. Cedere su questa o quella questione particolare risponde a un intento politico preciso: mantenere intatta la visione egemonica che il genocidio manda in frantumi. Esponenti politici, giornalisti, intellettuali democratici (soprattutto quelli democratici) sono pronti a scaricare i sensi di colpa con cui per due anni hanno nascosto e giustificato i massacri, concedendo che, si, “Israele ha sbagliato, doveva fermarsi prima”, e qualcuno osa persino esporsi con “Netanyahu è un criminale”. E altre concessioni di simile tenore. Ammissioni più penose per superficialità delle menzogne precedenti. Se poi si fa cenno alle responsabilità americane naturalmente tutte vengono selettivamente concentrate sul violento e imprevedibile Trump, che aveva proposto di trasformare Gaza in un resort per miliardari come lui.
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Contro il militarismo e la logica del nemico, la nostra parte non è già data
di Fabio Ciabatti
∫connessioni precarie, Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 116, € 15,00
Di fronte “a ogni guerra la prima richiesta è sempre e comunque che le armi tacciano”. Ciò nonostante, “il nostro problema non è solo condannare la guerra ma anche opporre alla sua dura realtà parole e pratiche che essa non sia in grado di governare”. Se questo non avviene possiamo ottenere al massimo una tregua che non consente di cancellare le cause dei conflitti bellici. Queste considerazioni, che troviamo nel libro “Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente”, assumono particolare rilievo in considerazione della tragica scelta che deve affrontare Hamas, insieme alle altre formazioni armate palestinesi, di fronte al cosiddetto piano di pace di Trump: continuare la lotta armata facendo proseguire l’immane carneficina o arrendersi per interrompere il supplizio che comunque proseguirà, anche se, presumibilmente, con tempi più lunghi e modalità meno feroci. La resistenza palestinese sembra davvero trovarsi di fronte a una drammatica impasse. E allora, per non lasciarsi bloccare in questo vicolo cieco può essere utile adottare uno sguardo diverso nei confronti della coraggiosa lotta della popolazione di Gaza (e della Cisgiordania) con l’obiettivo di prefigurare possibili via di fuga dal tragico stallo a cui sembra destinata. Anche perché bisognerà in qualche modo approfittare delle condizioni tutt’altro che ideali in cui si trova oggi lo stato sionista, lacerato da profonde contraddizioni interne e investito da una diffusa condanna internazionale.
Certo, di fronte a un genocidio, ci si può legittimamente chiedere se sia possibile mantenere uno sguardo lucido sugli aspetti critici della resistenza palestinese senza divenire complici dei carnefici israeliani. O senza scadere in un eurocentrismo che solidarizza con i popoli oppressi solo finché non si ribellano perché, con i mezzi a loro disposizione, raramente lo possono fare rispettando il preteso bon ton occidentale. Sicuramente, non teme di andare controcorrente rispetto all’opinione diffusa nella sinistra, compresa quella radicale, l’autore collettivo che ha dato alle stampe il testo qui recensito. Si tratta di ∫connessioni precarie, un’area politica che assume come obiettivo centrale della sua analisi e della sua attività pratica la condizione globale e differenziata del lavoro contemporaneo che è sottoposto all’intreccio tra patriarcato, sfruttamento e razzismo.
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La fine del vecchio mondo e l’inizio di quello nuovo
di Sandro Moiso
Michael Hardt, I Settanta sovversivi. La globalizzazione delle lotte, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 315, 22 euro
Che non abbiamo avuto nulla a che fare con il terrorismo è ovvio. Che siamo stati «sovversivi» è altrettanto ovvio. (I militanti dell’Autonomia in attesa del processo nel carcere di Rebibbia – 1983)
Michael Hardt, docente alla Duke University del North Carolina è stato co-autore con Toni Negri di numerosi e ben noti saggi di carattere politico. Il suo testo pubblicato in Italia per DeriveApprodi, e uscito in lingua inglese nel 2023 per la Oxford University Press, ha come intento quello di riassumere la grande varietà di esperienze di lotta e organizzazione sviluppatesi nel corso degli anni Settanta del ‘900 e, allo stesso tempo, anche quello di affrontare ed esporre con coerenza e lucidità le differenze intercorse tra le lotte degli anni Sessanta, tutte troppo spesso riassunte a livello di immaginario collettivo dall’autentico brand rappresentato dal ’68, e quelle del decennio successivo, altrimenti riassumibile da un’altra iconica cifra stilistica, quella del ’77.
Due riferimenti simbolici per la rappresentazione di esperienze allo stesso tempo così vicine eppur così lontane. Soprattutto in tante valutazioni sociologiche, politiche e storiche successive che hanno, troppo spesso, diviso gli “anni dell’innocenza”, quelli che avrebbero portato al 1968, da quelli della furia, della rabbia e dell’estremismo. In cui, però, il concetto di autonomia politica, di classe e di genere, si è materializzato concretamente nelle esperienze organizzative di lotta dei lavoratori salariati, delle donne, dei giovani e delle loro differenti culture. Anche se in certe ricostruzioni a posteriori si è sostenuto che, in fin dei conti, negli anni Settanta non sia successo alcunché di significativo.
Sostenere che negli anni Settanta non sia successo nulla, tuttavia, richiede una certa strategia per supportare una tale cecità. In una certa misura, questa cecità ha a che fare con il «come». Molti dei movimenti più importanti degli anni Sessanta – i movimenti dei lavoratori di fabbrica, le femministe, le lotte di liberazione nazionale e antimperialiste, i movimenti antirazzisti, le ribellioni studentesche e giovanili, le lotte indigene – sono continuate negli anni Settanta, in molti casi in numero maggiore e con più intensità di prima. Il fatto che potessero diventare invisibili (almeno per alcuni) era dovuto al fatto che assumevano caratteristiche molto diverse, forme di organizzazione radicalmente rinnovate e nuovi obiettivi, che non rientravano nelle narrazioni accettabili.
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Dialogo sulla Cina post globalizzazione
Kunling Zhang intervista Pompeo Della Posta
Kunling Zhang, un economista della Beijing Normal University, intervista Pompeo Della Posta, già professore di economia all’Università di Pisa. Il dialogo affronta i nodi dei rapporti tra Europa e Cina nella nuova fase di deglobalizzazione.
* * * *
Kunling Zhang: La deglobalizzazione non è una novità di oggi. Alcuni sostengono che i suoi primi segnali possono essere fatti risalire alla crisi finanziaria globale del 2008/09, con la contrazione del commercio mondiale e l’escalation durante la pandemia COVID-19. In base alle tue osservazioni, quali sono i fatti, i modelli e le tendenze nello sviluppo della deglobalizzazione? E quali sono le sue motivazioni?
Pompeo Della Posta: “La crisi finanziaria globale che cominciò nel 2008 può essere considerata senz’altro come uno dei possibili spartiacque che hanno segnato l’inizio del declino del processo di globalizzazione economica e, naturalmente, la pandemia COVID-19 ha ulteriormente chiuso i mercati internazionali e limitato il commercio internazionale. La guerra fra Russia e Ucraina ha poi alimentato il senso di insicurezza in molti Paesi europei (ad esempio riguardo all’approvvigionamento delle fonti energetiche), contribuendo così a deteriorare ulteriormente il quadro della globalizzazione. La differenza con l’attuale fase di slowbalization (come alcuni osservatori, probabilmente ottimisti, preferiscono definirla, piuttosto che deglobalizzazione) è che mentre quegli eventi hanno ridotto (drasticamente, nel caso del COVID-19) la possibilità stessa di intraprendere il commercio internazionale, nella situazione attuale questo è il risultato di una scelta deliberata, operata da governi populisti, solitamente di destra. Questo dimostra chiaramente che la globalizzazione non è inevitabile, come invece diceva Margaret Thatcher proponendo il suo famoso acronimo “TINA” (There Is No Alternative). Questo ci porta alla seconda parte della tua domanda.
I fattori economici hanno certamente giocato un ruolo nel determinare il cambiamento di direzione del mondo.
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Quale treno della vergogna?
di Eric Gobetti
Il convoglio fantasma carico di esuli istriani che viene aggredito quando passa per Bologna è l'ennesima falsificazione che gira attorno al confine orientale e alle foibe
È l’inverno del 1947. Un treno pieno di profughi provenienti dall’Istria viene fermato alla stazione di Bologna da ferrovieri comunisti, aizzati dai dirigenti del partito. I manifestanti non si limitano ad aggredire i passeggeri con insulti, sputi, pietre, ma negano loro il cibo, l’acqua, qualunque forma di assistenza preparata con cura dalle associazioni caritatevoli di stampo cattolico. E arrivano a rovesciare sui binari il latte destinato ai bambini. I bambini… sempre odiati dai comunisti, come il ben noto stereotipo insegna.
È un’immagine suggestiva, toccante, adatta a suscitare disprezzo verso un’ideologia che sostiene di stare dalla parte della gente. Un’immagine però falsa, come ha dimostrato in maniera ineccepibile una ricerca recentemente resa pubblica su Giap e condotta dal collettivo Nicoletta Bourbaki, anche sulla base della tesi di laurea di Alberto Rosada. Falsa perché quel treno in realtà non è mai stato fermato da nessuna folla comunista assetata di sangue innocente: né pietre, né sputi, né latte negato ai bambini, sono veri. D’altronde il Pci, e lo sappiamo da molte altre fonti, non faceva all’epoca alcuna campagna contro i profughi, che anzi diverse amministrazioni comuniste hanno accolto, pur non avendone alcun tornaconto elettorale.
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Sostanza di cose sperate
di Giuliano Santoro
Paolo Virno, scomparso a 73 anni, ha saputo pensare il comunismo rileggendo la composizione di classe e le lotte con gli strumenti della filosofia, della linguistica e dell'antropologia
«Una cosa è far finta di aver letto Schumpeter o Keynes e una cosa è far finta di aver letto il ‘Libretto’ di Mao» così, con la consueta divertita ironia, che nascondeva con fare dinoccolato e sorrisi velati da malinconia, Paolo Virno raccontava la postura teorica-politica di Potere operaio, gruppo al quale aderì da adolescente nel 1969. Lo diceva per esprimere ciò che ne aveva tratto: la larghezza degli orizzonti culturali, la necessità di misurarsi coi giganti, anche lontani o nemici, per andare alla radice delle contraddizioni.
Con le certezze che ci consegna il senno del poi, possiamo dire che quella vastità di riferimenti è stata anche la condizione del durare a lungo. In fondo, una delle caratteristiche di Virno e di molti dei suoi compagni e compagne è stata quella di aver mantenuto questa ottica rivoluzionaria senza rigidità, di non aver chiuso la porta ai mutamenti costanti del capitalismo e di averli guardati negli occhi per coglierne le contraddizioni e le opportunità liberatorie. Senza perdere radicalità ma senza abbandonarsi a rimpianti.
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Argentina, JP Morgan ed elezioni
di Marco Consolo
Fiumi di inchiostro sono stati versati sul risultato elettorale in Argentina e sulla “vittoria schiacciante” del partito di governo, La Libertad Avanza di Javier Milei alle elezioni di medio termine del 26 ottobre. Molto si è scritto sugli equilibri politici interni, sulle alleanze, su quali siano stati i fattori che hanno reso possibile una vittoria sorprendente per molti aspetti.
Ma forse non tutti sanno che il 24 ottobre (2 giorni prima delle elezioni) a Buenos Aires si era tenuta la riunione annuale del vertice di JP Morgan Chase Bank, la più grande banca d’affari degli Stati Uniti. Ovvero, una delle banche che ha stabilito le condizioni della sottomissione economica dell’Argentina al sistema finanziario internazionale. E così, mentre nelle strade si chiudeva la campagna elettorale, i poteri forti si riunivano nei salotti eleganti di Buenos Aires, senza troppo chiasso, in abiti scuri e la spilla di JP Morgan sul bavero.
Si sa, ça va sans dire, i banchieri non badano a spese (soprattutto con soldi che non sono loro). E così, parcheggiati nella zona VIP dell’aeroporto internazionale di Ezeiza, hanno fatto bella mostra di sé più di una dozzina di jet privati di alti funzionari della banca, il meglio dell’aviazione executive mondiale, il cui costo per aeronave oscilla tra i 57 e i 61 milioni di dollari.
La presenza di JP Morgan nel bel mezzo di una campagna elettorale caratterizzata dall’incertezza e dalle tensioni cambiarie è stata un’ispezione diretta del laboratorio economico argentino, il più ortodosso del pianeta. Il governo di Javier Milei ha trasformato il Paese in un esperimento neo-liberista radicale, con deregolamentazione, privatizzazioni e indebitamento in nome della libertà di mercato. Ma quella libertà ha dei proprietari, atterrati a Ezeiza con jet di lusso e la JP Morgan è ospite d’onore. Detto in altri termini, prima delle elezioni, i banchieri avevano già deciso chi avrebbe governato, chi avrebbe gestito l’economia e il debito estero, chi avrebbe controllato l’energia e il prezzo delle bollette. Lungi dall’essere un fatto isolato è la rappresentazione plastica di una politica di svendita della sovranità travestita da modernizzazione.
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Crosetto e il Totalitarismo di Guerra: chi non pensa come la NATO è un nemico della Nazione
di Clara Statello
"5000 hacker contro la disinformazione". L'annuncio shock di Crosetto e il drammatico salto di qualità del totalitarismo di guerra
Il nuovo millennio iniziava con una grande promessa per noi della generazione Erasmus: Internet. La connessione ci avrebbe garantito libertà e democrazia, conoscenza e condivisione. A tutelare il web affinché si mantenesse uno spazio libero, a combattere contro i potenti, c’erano loro, gli hacker.
Figure leggendarie della nuova era postmoderna, avevano addirittura messo su un nuovo partito, il partito dei Pirati. E noi, che pensavamo ancora alla rivoluzione, eravamo bollati come “novecenteschi”. Peccato che i nuovi partigiani ci hanno messo davvero poco a genuflettersi davanti a quello stesso potere che promettevano di voler combattere.
In fondo Google, Meta, il governo israeliano o il Pentagono, pagano bene. Alcuni episodi emblematici: Anounymous Italia, anziché colpire simboli di potere e oppressione, la scorsa primavera ha lanciato attacchi DDos contro testate, giornalisti e media indipendenti, come OttolinaTV, Pressenza e Marx21. Il pretesto: le fantomatiche ingerenze russe nel voto per Bruxelles.
Insomma, da paladini della libertà, i pirati del web si sono trasformati in cyber fascisti, esperti in incursioni criminali contro chi esercita il diritto alla libertà di espressione sancito dall’articolo 21 della Costituzione.
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Fare scuola durante un genocidio
di Michela Pusterla
Mi trovo da settimane di fronte a un dilemma didattico: entrare in classe e parlare di qualcosa, qualsiasi cosa, quando mi pare che non si possa parlare d’altro. Nei miei anni di insegnamento, ho sempre fatto lezione sulla Palestina, e in particolare ho sempre ricostruito la storia del sionismo all’interno di un’unità didattica sul colonialismo, che si concentrava sulle colonizzazioni della Palestina e sul colonialismo italiano. Ma, a partire dall’autunno 2023, quell’approccio squisitamente storiografico ha cominciato a rivelarsi insufficiente e, dall’inizio di questo anno scolastico, limitarsi alle coordinate storico-geografiche non è più solo insufficiente, è diventato sbagliato. Mi è apparso evidente che la questione del genocidio in atto a Gaza pone una domanda cruciale al mio stare a scuola: ne va del fatto stesso del mio essere insegnante.
La debolezza dell’ideologia dei diritti umani
Negli ultimi decenni, la scuola è stata egemonizzata dall’ideologia neoliberale, che ne ha influenzato sia la didattica sia la pedagogia. Ha vissuto così un periodo di grande pace sociale, dove sembravano ormai assenti sia lo scontro sul piano materiale sia quello sul piano ideologico. Se dal punto di vista strutturale il modello egemonico è quello di una scuola al servizio delle aziende e in sé stessa azienda, dal punto di vista valoriale la scuola – una volta democratica e antifascista – si è da tempo accucciata sotto l’ala ecumenica dei diritti umani e, più recentemente, dell’«Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile». Alla luce di questa ideologia, prospettata vagamente e senza analizzarne le contraddizioni, si depotenziano tutti i discorsi di liberazione: una volta varcata la porta dell’aula, ogni discorso sembra deradicalizzarsi necessariamente. Il femminismo in classe assume spesso le fattezze della storia delle donne e del contrasto alla violenza di genere, mentre l’ecologismo si traduce nelle buone pratiche della raccolta differenziata e delle energie rinnovabili.
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Scuola: le nuvole di settembre
di Enrico Manera
Settembre è di nuovo qui. Da giorni il ritmo nelle strade si è intensificato e per chi ha a che fare con il mondo-scuola – studenti, docenti, genitori – ci sono tutti i segni del ritorno alla piena attività. L'anno scolastico è iniziato il 1° di settembre e con il primo giorno di scuola si riavvia il sistema. Un sistema che comincerà ad accelerare per frequenza, intensità e densità dell'impegno; ora è ancora lento, anticipato dagli esami di riparazione nelle secondarie superiori, un momento non privo di amarezze, e dalle prese di servizio nelle sedi di destinazione e dalle riunioni di funzionamento e programmazione. Ci sono nuovi inizi per docenti (ma anche studenti), trasferimenti e promesse di serenità per chi è in fuga da qualcosa, il ritrovarsi per chi riprende la routine e si ripromette di evitare errori e trappole dell'anno precedente, di migliorare le condizioni e aumentare le soddisfazioni. Simile a un capodanno, settembre porta bilanci, previsioni e propositi, commenti, analisi e annunci. L'anno scolastico passato è finito senza finire, lasciando in sospeso questioni che hanno aspettato, come uccelli neri sui cornicioni delle case e delle strade.
Polemiche sull'esame di Stato e annunci del nuovo assetto della maturità hanno caratterizzato il dibattito pubblico tra giugno e luglio: i rifiuti di sostenere l'orale per protesta (di cui si è letto), pur nella semplificazione e sovrarappresentazione, testimoniano un clima di sfiducia che alimenta il conflitto, vero o presunto, tra studenti e docenti e rafforzano il partito trasversale della scuola più severa e la linea ministeriale che ne ha fatto una questione di principio. Il precedente tipo di esame era senz'altro ambiguo, stanco e consunto: come per ogni cosa, quando non ha funzionato è perché le regole di svolgimento non sono state condivise o adeguatamente messe in atto. Sottolineo quando, perché le esperienze sono molto diversificate e ve ne sono anche di positive, oscurate dalla dominanza dei discorsi di lamentazione. La scuola con il suo carattere iperonimo non è squadrabile da ogni lato, non lo è mai stata e ora lo è meno che mai, e penso possa essere raccontata con onestà solo per storie e frammenti che non abbiano pretesa di universalità.
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Colonialismo accelerato: un piano contro la Palestina
di Alberto Toscano
Qual è la logica del piano Trump su Gaza? La costruzione di spazio meticolosamente controllato e depoliticizzato, cioè pacificato, per la circolazione, il consumo e la produzione del capitale. Come spiega Alberto Toscano nell'articolo che pubblichiamo oggi, la creazione della «Nuova Gaza» servirebbe a trasformare la Striscia nel «centro dell’architettura regionale filoamericana», assicurando potere economico, politico e militare sul flusso di energia, capitale e merci. Un'operazione che integra il genocidio in corso in un disegno neocoloniale più ampio e lo rende funzionale al nuovo regime di accumulazione primitiva.
Così, per Trump, Netanyahu e Blair, «a Gaza si può costruire una riviera solo sulle ossa dei morti».
* * * *
Questi predoni del mondo, dopo aver distrutto la terra con le loro devastazioni, stanno ora saccheggiando l’oceano: spinti dall’avidità, se il loro nemico è ricco; dall’ambizione, se è povero; insaziabili tanto verso l’Oriente quanto verso l’Occidente: l’unico popolo che contempla la ricchezza e la miseria con la stessa bramosia. Saccheggiare, massacrare, usurpare con falsi titoli — questo lo chiamano impero; e dove fanno un deserto, lo chiamano pace.
Tacito, Agricola
Ciò che è bello di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono. Nulla la distrae; nulla le toglie il pugno dalla faccia del nemico. Non le forme dello Stato palestinese che costruiremo, fosse anche sul lato orientale della luna o sul lato occidentale di Marte, quando sarà esplorato.
Mahmoud Darwish, Silence for Gaza
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Come evitare di liberarci… della libertà in tempi di IA
di Francesca Orsi
Gabriele Giacomini: Il trilemma della libertà, Stati, cittadini, compagnie digitali, La Nave di Teseo, Milano, 2025 pp. 320, € 20,00
“Il dato sorprendente è che, in un mondo sempre più caratterizzato dalla presenza della tecnologia, dove l’innovazione è percepita come un sinonimo del progresso, la libertà preferibile è quella che si realizza in un contesto che non assolutizza il digitale, che evita di idolatrarlo”
(Giacomini, 2025)
Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia permea, ormai, ogni aspetto della nostra vita: dal modo in cui comunichiamo, lavoriamo, ci informiamo fino al modo in cui veniamo governati. Di fronte a questo dato di fatto, lo schema mentale più comodo sarebbe quello del determinismo tecnologico, ovvero la rassegnazione silenziosa al fatto che le conseguenze del digitale siano la risultante di forze meramente tecnologiche. Ma un approccio soluzionista, che appunto idolatra il digitale e lo riconosce come unico artefice delle sorti dell’era contemporanea, non prende in considerazione altri attori fondamentali, che parimenti possono influenzarne gli esiti. È di questo avviso Gabriele Giacomini, filosofo politico e ricercatore presso l’Università degli Studi di Udine, attivo nel dibattito pubblico sul futuro delle democrazie nell’era digitale, come si evince dalla letturadel suo Il trilemma della libertà. Stati, cittadini, compagnie digitali. La realtà difatti è decisamente più complicata. Secondo l’autore, i tre soggetti sopraindicati possono dar luogo a configurazioni differenti a seconda delle relazioni che instaurano tra loro. Le tre combinazioni possibili che vedono l’associazione di Stati e compagnie, di Stati e cittadini o di compagnie e cittadini, sono le tre strade possibili e dunque i tre termini del trilemma, oggetto del titolo del saggio. La domanda principale è: possiamo far sì che un diritto fondamentale come la libertà individuale possa realizzarsi garantendo anche un potere statale efficace e un potere illimitato delle Big Tech? Per Giacomini la risposta è: no, non possiamo avere tutto. È proprio a partire da questa consapevolezza che si snoda il trilemma:
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Il piano di pace. Contraccolpi, incognite e variabili
Paolo Arigotti intervista Fulvio Grimaldi
https://youtu.be/hyZdcIC_urM
Inoltro questo video a dispetto del fatto che sia, in alcuni tratti, fortemente disturbato a livello audio e video a causa di una connessione che andava e veniva. Forse avremmo dovuto rifarla, l’intervista. Comunque vi chiedo scusa. Tutto sommato un contenuto viene fuori.
Il Piano definito “di Pace” dallo squinternato tappetaro Usa e subito interpretato dal suo sicario (o committente?) come licenza di genocidio, essendo un falso è ovviamente nato morto. Infatti, come per altri accordi cui ha aderito lo Stato fuorilegge ebraico, Netanyahu e terrorismo mafioso connesso non si sono sognati di levare il dito dal grilletto del genocidio attivato a partire dal 7 ottobre 2023.
La questione del momento ci fa però deviare da un piano di pace davvero strabiliante che né coinvolge, né considera, i diretti interessati. I palestinesi, confermati non umani, sono ridotti a gregge di ovini da decidere se macellare, o spostare, o tosare e tenere chiuso nel recinto. Questione esplosa ai vertici dello Stato sionista e che rappresenta un nuovo potenziamento del tasso di criminalità di Israele. Iniziativa attesa, ma nondimeno stupefacente per protervia e scostumatezza sul piano giuridico, politico, morale, umano Trattasi della proclamazione del Knesset, gratificato del titolo di ”unica democrazia in Medioriente”, che la Cisgiordania non è più Palestina, come per millenni di storia, bensì Israele. Cioè Stato sionista, Stato dei soli ebrei e al diavolo chi ci si ritrova ma non dovrebbe e, in un modo o nell’altro, sparirà.
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I valori dell'Occidente
di Alberto Giovanni Biuso
Qual è la cifra etica dell’occidente contemporaneo? Rispondere non è difficile. È sufficiente cogliere il nesso tra le parole e le azioni. Parole molto note sino a essere inflazionate, sino ad aver perduto il loro spessore, significato e valore. Tra le tante, basterebbero le seguenti: pace, diritto, inclusione, giustizia, libertà.
La pace è diventata una minaccia per la peggiore classe dirigente nella storia dell’Europa moderna dalle paci di Westfalia (1648) al presente; forse un analogo, ma in toni ancora alti rispetto al XXI secolo, si può trovare nella classe dirigente che condusse l’Europa al suicidio della Prima guerra mondiale. L’ attuale Unione europea e il Regno Unito stanno infatti operando non solo per allontanare ogni prospettiva di accordo tra l’Ucraina e la Russia ma per attivamente proseguire nell’opera di distruzione dell’Ucraina, nel provocare in tutti i modi possibili la Russia e nel supplicare gli Stati Uniti di continuare a finanziare la NATO, umiliandosi in ogni situazione e circostanza davanti a Trump e alla sua amministrazione.
Da anni l’Unione Europea sta puntando tutto sul pervasivo controllo delle vite dei suoi cittadini e su un’economia drogata dalle armi. Obiettivi che si esprimono anche nella ormai apertamente dichiarata intenzione di indirizzare la ricerca universitaria verso scopi militari e pedagogie militariste, anche mediante il cosiddetto dual use: «Come ha dichiarato la commissaria [europea] a ricerca e innovazione Zaharieva, il programma Horizon sarà reso ‘dual use di default’ per rispondere all’impellenza di ‘rendere gli europei più sicuri’» (J. Bonasera e M. Rossi, Orizzonti di guerra: l’università e la ricerca nell’epoca del dual use, ‘Connessioni precarie’, 24.10.2025). La guerra è infatti diventata necessaria alla sopravvivenza stessa di un ceto dirigente globalista, atlantista e oligarchico.
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