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L'austerità non funziona per la ripresa ma solo per distruggere la democrazia
di Quarantotto
1. Ancora sulla ripresa fantasma, "a dispetto del QE" e delle sue attese irrealistiche.
"Le famiglie non spendono e lasciano in banca oltre 30 miliardi di euro in un anno: vuol dire che ogni mese vengono accantonati 2,5 miliardi. Negli ultimi 12 mesi è passato infatti da 861 a 891 miliardi, in aumento di oltre il 3%, l'ammontare delle riserve degli italiani.
"C'è paura di spendere e paura di investire, paura di nuove tasse o di ulteriori difficoltà coi bilanci'', spiega il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi. Una tendenza seguita anche dalle aziende e dalle imprese familiari, con i salvadanai cresciuti, rispettivamente, di 13 miliardi (da 190 a 203 miliardi) e di 2 miliardi (da 43 a 45 miliardi), oltre che dalle onlus (+717 milioni) e dagli istituti di credito (+32 miliardi); in leggero calo i depositi delle assicurazioni (-1,3 miliardi). Complessivamente, le provviste finanziarie sono salite di 78 miliardi (+5%) passando da 1.457 miliardi a 1.535 miliardi.
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La fabbrica della crisi e il declino del lavoro
di Claudio Gnesutta
Quando è iniziata l'egemonia della finanza sulla produzione? Riflessioni a partire dal libro di Angelo Salento e Giovanni Masino, La fabbrica della crisi
La questione della “densità” finanziaria del sistema economico è un aspetto ampiamente dibattuto per la sua rilevanza nel determinare l’attuale funzionamento delle nostre società. A questo riguardo, è importante il contributo di Angelo Salento e Giovanni Masino, (La fabbrica della crisi. Finanziarizzazione delle imprese e declino del lavoro, Roma: Carocci editore, 2013) che, con un’analisi svolta su diversi piani (sistemazione della letteratura, informazioni quantitative, interviste di operatori), non si limitano a sottolineare la crescente dimensione finanziaria dei bilanci societari, ma approfondiscono le modificazioni qualitative che la finanziarizzazione dell’economia ha indotto in una gestione aziendale che ha assunto come priorità la crescita del valore per gli azionisti.
In particolare, la loro tesi può essere sintetizzata, pur con tutti i rischi dell’estrema concisione, dalla considerazione che, nel superamento del fordismo, l’impresa ha trovato nell’esternalizzazione (decentramento e delocalizzazione) della produzione lo strumento per ridurre i costi e per realizzare le disponibilità liquide necessarie all’investimento e che questa sua articolazioni in divisioni autonome (anche se raggruppate in holding) si presenta come un “fascio di investimenti” (industriali, commerciali, finanziari) da gestire ciascuno singolarmente valorizzandoli con logica “finanziaria” sulla base di un benchmarking definito dagli analisti finanziari.
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Haavelmo e la crescita impossibile nel 2014
Francia, Italia e la recessione "competitiva"
di Quarantotto
Come suggerito da Arturo , laddove si vede incidenza di competitività di prezzo e dei tassi di cambio reali. Come dire: l'euro in sè.
La Francia è messa malino per il futuro immediato? Di più, a rigore, la Francia non ha un futuro nell''euro, dato che attualmente è impegnata, con Hollande in piena "svolta Hartz" , a correggere lo squilibrio delle partite correnti con l'uccisione della domanda interna. Come dire che si piegano alla Merkel mentre fanno la voce grossa con Putin. Ma come si fa quando ci si priva della domanda estera, grazie al cambio folle dell'euro (tranne che per la Germania) e non si può ricorrere alla domanda pubblica? Non si fa.
Il fatto è che questo problema è generale in UEM.
E ce lo dicono sia alla BCE che alla Commissione UE: solo che per loro non cambia nulla, mentre cambia molto per i popoli coinvolti...che è l'ultima delle loro preoccupazioni. E infatti la BCE azzarda mirabolanti previsioni di crescita dell'Eurozona che non stanno nè in cielo nè in terra.
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L'allegra brigata degli europeisti anti-tasse
Leonardo Mazzei
Sogni e realtà del governo Letta il nipote
(con alcune annotazioni sul DEF che oggi arriva in parlamento)
Puntuali come le piogge di primavera, le prime capocciate le hanno già battute. E sono arrivate dall'amata Europa. Per la quale si deve soffrire, sempre essendo disponibili a morire, come esplicitato nel titolo di un libro del 1997 - «L'euro sì. Morire per Maastricht», Laterza 1997 - scritto dall'attuale capo del governo.
La novità delle «larghe intese» è anche piaciuta a Berlino, ma non al punto da lasciarsi commuovere. Dalla Merkel il giovane Letta ha avuto più che altro l'incoraggiamento a proseguire la strada del rigore. E non è andata meglio a Bruxelles. E nemmeno a Parigi, dove si blatera di crescita ma non si vuol nemmeno sentir parlare di quella unità politica in cui sembrano credere ormai soltanto gli ectoplasmi dei defunti partiti italiani.
Fatto sta che la temuta parola che gli illusionisti avevano appena rimosso - «manovra» - ha conquistato le prime pagine dei giornali a neanche una settimana dal giuramento del nuovo esecutivo. Che vita breve hanno certe illusioni!
Eppure si erano dati un gran daffare: via l'IMU sulla prima casa, no all'aumento dell'IVA, slittamento della TARES, riduzione delle «tasse sul lavoro», cioè sgravi alle imprese e contentino sull'IRPEF ai lavoratori dipendenti.
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I circuiti della ricomposizione
Verso e oltre lo sciopero del 22 marzo
di Anna Curcio e Gigi Roggero
Ripensare lo sciopero, trovare l’equivalente funzionale della forma-sindacato, costruire processi di generalizzazione. Ecco i rovelli con cui ci confrontiamo da anni, da quando cioè la nuova composizione del lavoro vivo e le trasformazioni produttive hanno reso inservibili o quasi molti degli strumenti organizzativi del passato. A fronte di tali nodi gordiani abbiamo fatto fatica ad andare al di là dell’enunciazione, magari dell’allusione simbolica, comunque a superare la semplice constatazione di ciò che non funziona più. Ancora una volta sono le lotte a indicarci forse non delle soluzioni, ma certamente delle corpose ipotesi verso cui direzionare le riposte. Così è per i blocchi e gli scioperi selvaggi dei lavoratori della logistica, in quello che ormai – per le caratteristiche comuni, per l’estensione e per la durata – possiamo definire un vero e proprio ciclo di lotte. É su questa base che è stato convocato per venerdì 22 marzo lo sciopero generale dei lavoratori della logistica: non sarà un semplice evento, ma un passaggio di straordinaria importanza che si colloca dentro un processo di accumulo di conflitti e di ulteriore espansione. Prima e dopo il 22 i facchini delle cooperative che gestiscono la circolazione delle merci del centro-nord Italia non faranno straordinari, per ribadire che vogliono colpire sul serio gli interessi della controparte. Definirlo uno sciopero di settore sarebbe riduttivo e probabilmente anche fuorviante, perché è proprio la settorialità che queste lotte stanno mettendo in discussione, ponendo con forza le questioni della generalizzazione e della ricomposizione.
Rottura della frammentazione e composizione di classe
I lavoratori della logistica al centro delle lotte, in particolare i facchini, sono nella loro quasi totalità migranti.
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La sinistra nella crisi italiana
Mimmo Porcaro
Contributo al seminario Punto Rosso/Rosa Luxemburg Stiftung Milano, 20 ottobre 2009
Per comprendere il quadro in cui agisce la sinistra italiana è necessario prendere le mosse da una pur sommaria analisi della composizione delle classi dominanti italiane e dai loro interni conflitti.
Se, in seguito alla crisi, il compito fondamentale delle classi dominanti è quello di inventare una nuova direzione politica dell’economia e di finanziare e gestire un crescente debito pubblico in forme socialmente accettabili, nessuna delle frazioni delle classi dominanti italiane è all’altezza del compito.
Fino agli anni ’90 le classi dominanti italiane erano sostanzialmente unite intorno al dominio del blocco finanziario ed industriale pubblico, al quale si alleava la grande industria privata, mentre la PMI era in parte sovvenzionata pubblicamente ed in parte incapace di politica autonoma. Il dominio del blocco pubblico e dei suoi alleati era, per ovvie ragioni, contemporaneamente economico e politico.
Dopo gli anni ’90 il polo pubblico è stato dissolto: il sistema industriale di Stato è stato dimesso e tutte le banche sono state privatizzate. All’alleanza tra blocco pubblico e grande impresa si è sostituita l’alleanza tra capitale bancario privato e grande impresa (col capitale bancario in posizione di preminenza), mentre la PMI ha assunto una posizione sempre più autonoma. Inoltre, non c’è più coincidenza immediata tra classi economicamente dominanti e classi politicamente dominanti: poiché non esiste più una “borghesia di Stato” (e cioè una borghesia che è per definizione espressione o base del Governo), il dominio politico non è più una conseguenza “naturale” del dominio economico.
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Brevi appunti di un non economista sulla crisi
di Giulietto Chiesa
Primo appunto. Andiamoci piano con i paralleli storici. È diventato di moda confrontare la presente crisi finanziaria mondiale con quella della fine degli anni '20 negli Stati Uniti.
In altri termini: i mal di testa di Barak Hussein Obama e di Franklin Delano Roosevelt hanno qualcosa in comune? Cioè la Grande Crisi del 1929 ha qualcosa a che fare con la Gigantesca Crisi del 2007-2009 (e, molto probabilmente, successivi)?
Vedo astronomiche differenze. La più evidente delle quali è che Roosevelt inaugurò di fatto l'Impero Americano sul mondo intero, mentre Obama ne sta registrando la fine. Grande presidente il primo, probabilmente grande presidente anche quest'ultimo. Ma le differenze sono enormi. FDR prese in mano le redini di un paese che era creditore complessivo verso il resto del mondo. Non c'era, in giro per il pianeta, qualcuno che non gli fosse debitore. Obama ha ereditato il comando del paese più indebitato del pianeta; un paese che non solo ha debiti da tutte le parti, ma che non è più in grado di pagarli.
Secondo appunto. Confrontiamo le classifiche dei primi venti giganti mondiali per capitalizzazione di mercato: quella del 1999 e quella del 2009. Queste cifre ci aiuteranno a capire meglio cosa significa quando un impero finisce, come lo si può addirittura quantificare. Nel 1999 l'elenco era capeggiato da Citigroup (151 mlrd $) e includeva ben 11 protagonisti del mercato finanziario anglosassone: americani (sette) e britannici (quattro). Era il quadro rappresentante plasticamente il trionfo della deregulation reagano-thatcheriana, del neoliberismo senza confini e senza alternative. Per trovare un ciclope europeo (non britannico) bisognava arrivare all'ottava posizione, dove si trovava l'UBS, la mitica Svizzera bancaria. Il primo giapponese si trova al nono posto (Bank of Tokyo-Mitsubishi). La lanterna di Diogene riusciva a trovare un altro ciclope europeo (oltre ai britannici HSBC, Lloyds TSB, Barklays, National Westminster Bank) solo all'altezza del 18-esimo posto, con lo spagnolo Banco di Santander. In sintesi America più Europa, e poco di più. Il resto del mondo contava poco o niente.
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“L’Occidente in Ucraina ha sabotato i negoziati”
Aaron Malè intervista John Mearsheimer
Il professore dell’Università di Chicago John Mearsheimer ha notoriamente messo in guardia nel 2014 rispetto alle provocazioni della NATO contro la Russia in Ucraina, avvertendo che la politica della NATO in Ucraina stava portando al disastro.
In questa intervista risponde alle domande del giornalista freelance Aaron Maté sullo stato della guerra per procura in Ucraina e sui pericoli futuri.
* * * *
AARON MATE’: Benvenuto. Sono Aaron Mate. Con me c’è John Mearsheimer. È professore emerito di scienze politiche all’Università di Chicago e attualmente scrive su Substack. Professor Mearsheimer, grazie mille per essere qui.
JOHN MEARSHEIMER: È un piacere per me essere qui, Aaron.
Vorrei la tua reazione a questo articolo del Wall Street Journal. È appena stato pubblicato. Sullo stato della tanto pubblicizzata controffensiva dell’Ucraina e sugli sforzi dell’Occidente per incoraggiarla, dice questo, e cito: “Quando l’Ucraina ha lanciato la sua grande controffensiva questa primavera, i funzionari militari occidentali sapevano che Kiev non aveva tutto l’addestramento o tutte le armi – dai proiettili agli aerei da guerra – necessarie per sloggiare le forze russe.
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Undici tesi ispirate dalla situazione greca
di Alain Badiou
È più urgente che mai internazionalizzare la causa del popolo greco. Soltanto la cancellazione totale del debito assesterà un “attacco ideologico” all’attuale sistema europeo
* * * * *
1. Il “no” di massa del popolo greco non significa un rifiuto dell’Europa. Significa un rifiuto dell’Europa dei banchieri, del debito infinito e del capitalismo globalizzato.
2. Anche una parte dell’opinione nazionalista, e persino della destra estrema, ha votato “no” riguardo alle istituzioni della finanza? Al diktat dei governi reazionari europei? Ebbene, lo sappiamo che ogni voto puramente negativo è in parte confuso. La destra estrema, da sempre, può rifiutare certe cose che rifiuta pure l’estrema sinistra. Soltanto l’affermazione positiva di ciò che si vuole risulta chiara. E tutti sanno che ciò che vuole Syriza è opposto a ciò che vogliono i nazionalisti e i fascisti. Il voto non è dunque semplicemente una presa di posizione contro le esigenze antipopolari del capitalismo globalizzato e dei suoi servitori europei. È anche un voto che, per il momento, dona fiducia al governo Tsipras.
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Il coraggio di cambiare paradigma per una nuova stagione politica
Utopie Letali di Carlo Formenti
Militant
Con la caduta dei socialismi reali nell’89 e la conseguente scomparsa o ridimensionamento dei partiti comunisti legati a quell’esperienza, la sinistra – soprattutto italiana – è stata egemonizzata di fatto da un insieme di teorie e suggestioni definite, per necessità di sintesi, post-operaismo. Un insieme politico in realtà abbastanza eterogeneo, ma che ha saputo ricostruire una narrazione conflittuale di fronte alla sconfitta storica del movimento operaio e delle sue avanguardie politiche degli anni ottanta. Per meglio dire, il post-operaismo è figlio diretto di quella sconfitta, e allo stesso tempo la sua rimozione. Nonostante le differenze, anche grandi, insite nei diversi filoni post-operaisti e fra le diverse città, alcuni punti fermi tuttavia sono riscontrabili. Soprattutto, comune alle varie tendenze è la rottura con il Novecento quale secolo del primato del politico e della “parzialità organizzata” in vista di una fuoriuscita dal controllo capitalistico della produzione, in favore di un discorso tendenzialmente interclassista in cui viene esaltata la diretta politicità dei soggetti sociali, che assumono centralità politica non in base al proprio ruolo nella produzione ma piuttosto in base alla propria coscienza di sé e alla loro percezione antagonistica.
Su questa visione delle cose si innesta il discorso foucaultiano del potere pervasivo del capitale non più nella produzione, ma nella vita.
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L’eredità rimossa del ‘77 Operaio
di Gianni Rinaldini*
A quarantanni di distanza, le diverse iniziative e pubblicazioni che si riferiscono al '77, lo propongono prevalentemente come l'anno dei movimenti e del diffondersi della violenza armata organizzata e degli atti terroristici.
Scompare in questo modo il '77 operaio cioè la straordinaria presenza in campo della soggettività degli operai che dalla fine degli anni sessanta, ha rappresentato la vera novità, nei modi, nei contenuti e nelle forme per la trasformazione democratica della società.
Mi riferisco alla vertenza del gruppo Fiat, che allora coinvolgeva circa 200.000 tra lavoratori e lavoratrici, che dopo 100 ore di sciopero, si concluse nel mese di luglio con un grande successo e allo sciopero generale dei metalmeccanici promosso dalla Flm con manifestazione a Roma il 2 dicembre '77, contro le politiche economiche del governo monocolore di Giulio Andreotti, il cosidetto "governo delle astensioni" che si reggeva sul voto di "non sfiducia" del Pci, cioè sull'astensione alla Camera e sull'uscita dall'aula, al Senato.
Tutto ciò non può e non deve essere oscurato o negato nella trasmissione della memoria, perché semplicemente non aiuta a capire che cosa è successo prima, durante e dopo il '77 nella storia sociale politica di questo paese.
Per questo l'iniziativa sul '77 operaio, deve anche essere l'occasione per una riflessione sull'importanza di quella stagione.
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Grecia, la misura è colma
di Domenico Mario Nuti
Una domanda di uscita unilaterale della Grecia dall’Ue avrebbe effetto solo due anni dopo, lasciando ampio tempo per eventuali rinegoziazioni. Ma potrebbe essere un modo efficace e rapido di far venire a più miti consigli Schäuble e gli altri falchi della troika che hanno traumatizzato il paese spingendola verso il default a tutti i costi
Nei panni di Alexis Tsipras farei domanda immediatamente perchè la Grecia lasciasse unilateralmente l'Unione europea, come previsto dall'art. 50 del TUE (versione consolidata del Trattato sull'Unione europea, Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea, C 115/15, 9/5/2008).
Dall’inizio della crisi della Grecia nel 2010 la Troika (scusatemi, ora si deve dire “le istituzioni internazionali") ha impegnato nel suo salvataggio circa 245 miliardi di euro, ossia più di quanto sarebbe stato sufficiente a quell’epoca a estinguere l'intero debito greco. Tutti sanno che questi fondi non hanno beneficiato i greci ma sono andati quasi interamente a salvare le banche francesi, svizzere e tedesche dalla loro massiccia esposizione ai titoli di stato greci. E nel Financial Times del 21 aprile Martin Wolf demistifica la "mitologia" greca, tra cui il mito che "la Grecia non ha fatto nulla":
"La Grecia ha subìto un enorme aggiustamento dei saldi del suo bilancio pubblico e dei suoi conti con l’estero. Tra il 2009 e il 2014, il saldo primario di bilancio (al lordo degli interessi) si è ridotto del 12 per cento del PIL, il disavanzo di bilancio strutturale del 20 per cento del PIL e il saldo delle partite correnti del 12 per cento del PIL."
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Fine anno, fine della corsa?
di Sandro Moiso
Quello che infastidisce maggiormente nello spettacolo di Mafia capitale è l’accento posto sull’eccezionalità del caso romano, la sorpresa che tutti i media sembrano mostrare nei confronti di quello che non è altro che un caso (tutt’altro che anomalo) di corruzione amministrativa e politica quotidiana nell’Italia degli scandali legati all’Expo, al Mose e a molti altri ancora. Ma, ormai, il termine Mafia ha preso il posto dell’Uomo Nero, di Freddie Krueger, di Walter White e di qualsiasi altra figura dell’immaginario più diabolico e viene sbandierato ad ogni piè sospinto per dimostrare che ciò che c’è di marcio nella società attuale non dipende dai rapporti di classe e dall’appropriazione privata della ricchezza sociale prodotta, ma da poche figure negative che guastano i sani rapporti sociali basati sui principi del capitalismo e che possono anche arrivare a minacciare gli equilibri politici faticosamente raggiunti.
Da una parte dunque i buoni servitori dello Stato (e del Capitale) e dall’altra i corrotti, le anime perse che non hanno saputo resistere alle seduzioni del Grande Tentatore (di solito un singolo uomo, ex-terrorista di destra oppure capo-bastone di un clan, il solito “grande vecchio” che la sinistra istituzionale ci ha insegnato a vedere dappertutto). Anche se sappiamo tutti che questa narrazione è falsa, come la promessa di Renzi di resistere fino al 2018.
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Togliatti e la democrazia in Italia
Luigi Pandolfi
Cinquant'anni fa, il 21 agosto del 1964, moriva a Yalta Palmiro Togliatti. Di seguito un mio scritto sulla strategia del segretario del Pci nel dopoguerra, sul Partito nuovo e la costruzione della democrazia in Italia, tratto dal libro "Un altro sguardo sul comunismo. Teoria e prassi nella genealogia di un fenomeno politico" (Prospettiva, 2011).
Non c'è dubbio che il PCI sia stato, con una certa coerenza almeno fino ai primi anni settanta, parte integrante del movimento comunista internazionale, che aveva nell'Unione sovietica e nell'esperienza della Rivoluzione d'Ottobre, il suo punto di riferimento storico-politico e ideologico, la sua radice fondante. Un'ovvietà, si potrebbe dire.
Altrettanto vero è che, già a partire dai primi anni quaranta, segnatamente con il ritorno di Togliatti in Italia nel 1944, il Partito Comunista Italiano abbia profondamente rinnovato la sua strategia di lungo periodo, ragionando sulla necessità di inserirsi pienamente nel sistema democratico in formazione, adeguandosi sia organizzativamente che culturalmente alla nuova evenienza.
La "svolta di Salerno" non fu un espediente tattico per prendere tempo, in attesa del momento propizio per la rivoluzione, per l'instaurazione in Italia di un regime politico sul modello sovietico. No. Si trattò di una svolta vera, con implicazioni importanti sia sul piano teorico e programmatico che sul piano organizzativo.
L'idea di Togliatti, che alla lunga si rivelerà vincente e di grande forza propulsiva, era quella di costruire nel nostro paese un partito di massa che, sebbene regolato da una forte disciplina interna, avesse la capacità di attrarre sui contenuti della sua politica porzioni molto larghe della società italiana. Un partito che, pur non perdendo la sua natura classista, sapesse coniugare conflitto sociale e politica istituzionale, radicamento municipale e autonoma rappresentanza di classe.
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Il fumo e l'arrosto della farsa fiscale
Scritto da Leonardo Mazzei
Prima sì, poi no; poi ancora sì e di nuovo no. Ora siamo al nì, ma di sicuro non è finita.
Se si trattasse soltanto di rincorrere gli annunci ed i controannunci sulla riduzione della pressione fiscale potremmo limitarci ad un po’ di ironia, a commento di una farsa un po’ stantia ma recitata con tanto impegno anche in queste prime settimane dell’anno. Ma dietro al fumo c’è anche l’arrosto, e se la diminuzione del carico fiscale è semplicemente impossibile, il vero obiettivo è una ulteriore redistribuzione della ricchezza verso l’alto. La cosa significativa – in un paese dove tutti amano riempirsi la bocca con la Costituzione – è che questo aspetto sia dato per scontato non solo da Berlusconi, ma anche dai suoi “oppositori” ufficiali.
«Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività» (art. 53 della Costituzione). Come mai questo principio costituzionale è dato ormai per dissolto? Come mai questa dissoluzione integrale è perseguita sia da chi la Costituzione la vuole stravolgere, sia da chi almeno a parole dice di difenderla?
La chiacchiera politica di queste settimane si svolge infatti secondo uno schema ben preciso, in cui la discussione è su riduzione sì, riduzione no; mai sul tipo di redistribuzione da attuare, come se tutti fossero già d’accordo sulla drastica riduzione del numero di aliquote, cioè sull’affossamento del principio della progressività.
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Il grande freddo
di Lapo Berti
Il termine forse più usato e abusato negli anni o decenni passati è quasi certamente “crisi”. Lo si è declinato in un’infinità di modi. Si è parlato di crisi politica, di crisi economica, di crisi finanziaria, di crisi ambientale, di crisi sociale, di crisi morale, di crisi religiosa. Di un’ulteriore e possibile declinazione non si è parlato o si è parlato molto poco, quasi incidentalmente, o, addirittura non si è voluto parlare: di crisi di civiltà
Una crisi di civiltà?
Il termine forse più usato e abusato negli anni o decenni passati è quasi certamente “crisi”. Lo si è declinato in un’infinità di modi. Si è parlato di crisi politica, di crisi economica, di crisi finanziaria, di crisi ambientale, di crisi sociale, di crisi morale, di crisi religiosa; di crisi di nervi, verrebbe da aggiungere. Di un’ulteriore e possibile declinazione non si è parlato o si è parlato molto poco, quasi incidentalmente, o, addirittura non si è voluto parlare: di crisi di civiltà. Eppure, è forse questa la prospettiva che ci consentirebbe di considerare e di comprendere più in profondità le tante crisi che ci angosciano e, più in generale, le dinamiche sociali, economiche, politiche lungo le quali sta scivolando la nostra civiltà. Il grande antropologo Ernesto De Martino vi avrebbe forse trovato la materia per delineare un’ennesima “apocalisse culturale”.
Forse, come l’ambiente fisico in cui viviamo, anche l’ambiente sociale è soggetto all’alternanza di ere calde o temperate in cui la vita fiorisce e si espande e di ere glaciali in cui la vita si ritira e combatte duramente per conservarsi. La sensazione cui vorrei offrire il supporto di qualche riflessione più accurata è che ci stiamo avviando verso una sorta di glaciazione sociale, perché stanno venendo meno alcune delle spinte vitali, espansive, che hanno sospinto la precedente fioritura.
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Questa non è Sparta, questa è Salamina
Eurogruppo, eurocentrismo, nomadismo
Akis Gavriilidis
La congiuntura attuale, in Grecia e oltre la Grecia, è segnata dai tentativi di dare senso a quanto avvenuto con le negoziazioni di febbraio all’interno dell’Eurogruppo. Fonti vicine al governo greco cercano di presentarne i risultati come una «vittoria» mentre altri, tanto fuori quanto dentro SYRIZA, affermano che si tratta invece di una «sconfitta» o di una «capitolazione». Quest’ultima impressione a me pare presupporre una concezione della strategia eurocentrica e maschilista (o fallologocentrica, per usare il neologismo di Derrida); una concezione organizzata attorno all’immagine della battaglia finale nella quale uno deve dimostrare coraggio e avere la meglio sull’avversario. Per le ragioni alle quali ho accennato, non condivido l’idea che una «vittoria» consista in questo. Cercherò allora di leggere la strategia (ammesso che ci sia) applicata dal governo greco nelle negoziazioni e ciò che ha ottenuto (ammesso che ci sia) attraverso le lenti di due assiomi strettamente legati tra di loro:
— Il potere non è una cosa, né una sostanza, ma è la capacità di agire sulle azioni (Foucault)
— Una buona strategia consiste nel non cercare di schiacciare le forze del tuo avversario ma nell’usarle, specialmente quando quelle forze sono drasticamente superiori alle tue (precetto tradizionale delle arti marziali asiatiche).
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La Repubblica fondata sul profitto
di Alessandra Algostino
«Ogniqualvolta un notabile di Coketown si sentiva maltrattato – vale a dire, ogni volta
che non gli si permetteva di fare il comodo suo e si avanzava l’ipotesi che potesse essere
responsabile delle conseguenze dei suoi atti – si poteva star certi che costui se ne sarebbe
uscito con la terribile minaccia che, piuttosto, avrebbe “gettato tutti i suoi beni nell’Atlantico”»
C. Dickens, Hard Times. For These Times, 1854
Il conflitto capitale-lavoro e la scelta della Costituzione
La storia della destrutturazione dei rapporti di lavoro è ormai lunga, dalle prime leggi sulla flessibilità al c.d. collegato lavoro, dalle concertazioni sul welfare agli “accordi” di Pomigliano e Mirafiori. Il lavoro, che la Costituzione disegna come strumento di dignità della persona e mezzo di emancipazione sociale, come fondamento della «Repubblica democratica» e trait d’union fra democrazia politica e democrazia economica, è sempre più solo merce. Il diritto dei lavoratori, che evoca diritti e garanzie, che ha come soggetto non la vendita di mano d’opera quanto la vita delle persone, è mistificato nella retorica dei lavori, della competitività, della “libertà” contrattuale del singolo lavoratore. La precarietà si ammanta e diviene flessibilità, quando non vuole essere ancor più affascinante e si fa flexicurity. La piena occupazione è sostituita dalla «propensione ad assumere» che, nel quadro dell’«efficientamento del mercato del lavoro», passa «attraverso una nuova [de-]regolazione dei licenziamenti» (così nella Lettera inviata dal governo italiano all’Unione europea, 26 ottobre 2011). Datori di lavoro e sindacati (nelle loro sigle maggiormente rappresentative a livello nazionale) concordano nel centrare le relazioni industriali sul profitto delle imprese (la loro competitività e produttività), nella prospettiva ordoliberale che da ciò possano discendere benefici per l’occupazione e le retribuzioni (per tutti, da ultimo, l’Accordo siglato il 28 giugno 2011 tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil).
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Sull'anniversario della cosiddetta unità d'italia come forma di feticismo storico
di Michele Nobile
Le autocelebrazioni ufficiali sono sempre mistificanti perché volte a far apparire «vissute» e «popolari» istituzioni che della vita sociale sono pietrificazioni, concrezioni di apparati burocratici che ad essa si sovrappongono nel tentativo di dominarne e governarne le contraddizioni.
Massimamente mistificante sarà dunque l’autocelebrazione dell’apparato degli apparati, cioè dello Stato: qui la mistificazione coincide con la rappresentazione della forma-Stato come un feticcio che assorbe e congela il vissuto storico reale, che lo restituisce in una forma da cui le contraddizioni sono espunte o neutralizzate.
L’autocelebrazione dell’unità d’Italia che ha luogo in questi giorni è mistificante nella sua stessa concezione e denominazione.
Quel che accadde il 17 marzo 1861 non fu affatto il compimento dell’unificazione italiana ma la promulgazione della legge che faceva di Vittorio Emanuele il re d’Italia (legge , approvata il 26 febbraio dal Senato e il 14 marzo dalla Camera). Si tratta della nascita del Regno d’Italia, costituito in seguito ai plebisciti ed alle annessioni che, nell’arco dei diciotto mesi precedenti, avevano progressivamente esteso il regno di casa Savoia fino a comprendere la Lombardia, l’Italia centrale tranne il Lazio, il Mezzogiorno.
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La faccia nascosta dell’epidemia
di Antonio Vercellone
Molti sono i giornalisti e gli intellettuali che, negli ultimi tempi, si sono cimentati nel descrivere, spesso con dovizia di particolari, lo scenario che ci si presenterà dopo l’epidemia.
Queste analisi scontano necessariamente due limiti. Primo: le dimensioni di questa crisi non permettono di mantenere il distacco necessario a immaginarne ragionevolmente gli esiti. Secondo – ed è questo ciò che più rileva – tali esiti dipendono in gran parte dalla comprensione critica che, su ciò che sta accadendo, come collettività siamo in grado di costruire.
Ed è questo che dovrebbe allora occuparci e, soprattutto, preoccuparci.
La sensazione, infatti, è che l’emergenza stia legittimando una narrativa pericolosa, che reca come implicito il fatto che il solo metterla in discussione o problematizzarla rende colui che lo fa una specie di nemico della salute pubblica, che si sottrae a una tanto stucchevole quanto fittizia “unità nazionale”, alla quale saremmo tutti chiamati.
In altre parole, o uno si compra l’intera retorica di #iorestoacasa, dell’inno nazionale dai balconi, degli arcobaleni attaccati alle finestre e del quotidiano decreto del Governo (retorica sdoganata in modo più o meno nauseabondo da cantanti, presentatori e sportivi su canali social e tv) o si viene automaticamente tacciati di non aver compreso la gravità della situazione e di volersi sottrarre alle proprie responsabilità.
Ora: che questo virus rappresenti una tragedia immane e che i principi di solidarietà, prevenzione e precauzione impongano a ognuno di noi di restare in casa, di limitare gli spostamenti e di attuare le ormai note norme di distanziamento sociale, è un dato incontestabile, sul quale non si può che essere d’accordo. Si deve, tuttavia, poter dire che la narrativa attraverso cui queste necessità sono veicolate è a tratti scivolosa, pericolosa e non scevra di profonde criticità.
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Critica del neoliberismo e critica dell’europeismo devono procedere assieme
Fabio Cabrini intervista Domenico Moro
Il titolo del tuo ultimo libro “La gabbia dell’euro” non lascia spazio a troppe interpretazioni. Ci spieghi, in sintesi, perché la zona euro dovrebbe essere intesa come una camicia di forza dalla quale liberarsi il prima possibile? Cosa rispondi alle critiche di coloro che vedono nell’uscita, dati gli attuali rapporti di forza, un evento che andrebbe ad avvantaggiare esclusivamente i partiti nazionalisti?
DM: L’integrazione europea, in particolare quella monetaria, aliena alcune importati funzioni – bilancio e moneta – dallo Stato alle istituzioni sovranazionali europee. Lo scopo è sottrarre le decisioni economiche fondamentali all’influenza dei Parlamenti, ossia alla sovranità popolare e ai lavoratori, allo scopo di ricondurle sotto il controllo dello strato superiore e fortemente internazionalizzato del capitale. L’integrazione europea modifica, insieme al funzionamento delle istituzioni dello Stato, anche i rapporti di forza tra classi sociali, lavoratori salariati e capitalisti, a favore di questi ultimi. Per questa ragione, in Europa al centro di una politica democratica e favorevole alle classi subalterne non può che esserci il superamento dell’euro e dei Trattati, in pratica il superamento della Ue. Dire che per uscire bisogna aspettare rapporti di forza favorevoli è sbagliato. Infatti, se uscire espone a dei rischi e rimanere è disastroso, qual è l’alternativa? Una tale posizione è ingenua e impolitica, condannando alla irrilevanza e all’impotenza qualsiasi posizione politica progressiva e di classe. I rapporti di forza si modificano attraverso la politica, cioè mediante la creazione di consenso e la costruzione di organizzazione attorno a posizioni forti e adeguate alla fase storica. Uscire dall’euro è una di queste posizioni, anzi al momento è quella centrale, imprescindibile nella definizione di un programma di sinistra e socialista.
A maggio si terranno le elezioni europee. A parte che un eventuale spostamento dei rapporti di forza si andrebbe a realizzare in un organo, il Parlamento europeo, dal peso specifico assai relativo, c’è anche da dire che il PPE e il PSE, forze che si richiamano a un europeismo di matrice neoliberale, quasi certamente manterranno la maggioranza. Insomma, ad oggi sembra alquanto difficile immaginare, come fanno alcuni sovranisti di destra, dei cambiamenti sostanziali circa gli equilibri vigenti. Cosa ne pensi?
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Settarismo e politica estera
Michele G. Basso
Agli inizi del movimento operaio il carattere di setta era pressoché inevitabile, a causa delle persecuzioni, della clandestinità e dell’influenza delle stesse organizzazioni rivoluzionarie borghesi. La Lega dei Giusti non sfuggiva a questa regola. Il superamento di tali limiti e la trasformazione in partito di classe avvenne sotto l’influenza di due fattori: il trasferimento del centro a Londra, dove era possibile il contatto con la classe operaia, e l’influenza crescente della forma più aggiornata di comunismo, elaborata da Marx ed Engels. Quest’ultimo li pose in contatto con i cartisti. Il primo congresso (estate del 1847), sotto la spinta di Engels e Wolff (Lupus), spazzò via tutto ciò che vi era di vecchio, regolamenti forme organizzative arcaiche, la terminologia settaria, e si costituì in partito di classe. Al vecchio motto “Tutti gli uomini sono fratelli” subentrò “Proletari di tutto il mondo unitevi!”. In certi paesi, per ovvi motivi, fu necessario mantenere la clandestinità, ma il programma venne diffuso a livello internazionale. Il secondo congresso incaricò Marx ed Engels di redigere il Manifesto.
Al tempo dell’Internazionale, il problema si ripresentò in forme diverse. Molti non compresero che, se il proletariato non ha patria, ciò non significa ignorare la funzione storica della nazione, e la necessità di appoggiare i movimenti di liberazione nazionale. Bisognava lottare contro il rifiuto di fatto della politica estera e convincere l’Internazionale a battersi per la liberazione della Polonia. Marx voleva porre – come disse una volta- “tra l’Europa civile e la barbarie della Russia Zarista, una barriera di venti milioni di eroi”.
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Rottura della continuità storica o recupero della tradizione?
Giangiorgio Pasqualotto
Prosegue con questo intervento di Giangiorgio Pasqualotto (titolare della cattedra di estetica dell’Università di Padova e cofondatore dell’Associazione “Maitreya” di Venezia per lo studio della cultura buddhista) , il dibattito a cura di Amina Crisma sul libro di Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. I precedenti interventi di Paola Paderni Luigi Moccia, Ignazio Musu e Guido Samarani sono stati pubblicati nella rubrica “Osservatorio Cina” di questa rivista . Il prossimo intervento è di Attilio Andreini.
* * *
Il più recente libro di Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato (Il Mulino, 2015) è un’ opera importante: non solo per la consueta acribia analitica messa in gioco dall’autore, né solo per la sua chiarezza espositiva, né soltanto per la capacità di produrre sintesi con argomenti enormi (come quelli dell’incredibile sviluppo economico cinese e della millenaria tradizione confuciana), ma soprattutto perché ci risulta che il suo sia il primo tentativo di cercare le radici profonde di un’operazione che appare a tutti gli effetti – e non solo agli ‘occhi’ europei – assolutamente inedita ed inaudita: proporre gli antichi insegnamenti di Confucio come modello di vita e di sviluppo per la Cina del futuro.
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Il tracollo dell’imperialismo italiano
Michele G. Basso
I contaballe governativi possono raccontare che l’Italia non farà la fine della Grecia perché è ancora un grande paese manifatturiero, ma la Confindustria li smentisce. “L’Italia scende all’ottavo posto nel manifatturiero, scavalcata dal Brasile. Perse in 12 anni 120.000 fabbriche” (il Sole- 24 ore) . “In sei anni quindi l’Italia è passata dal quinto all’ottavo posto”. (1) Infatti era superata solo da Usa, Cina, Giappone e Germania. la perdita in termini relativi era prevedibile da chiunque, visto lo sviluppo di paesi giganteschi come Brasile e India; ma si è aggiunta quella in termini assoluti, con un crollo della produzione. Anche in altri settori, come finanza e agricoltura, dove l’Italia non aveva posizioni di vertice, la crisi si è fatta sentire, e persino nel campo del turismo, dove l’enorme patrimonio artistico e storico è trascurato e in pericolo, come a Pompei, o insidiato dalla speculazione edilizia grazie anche all’incuria criminale dei governi. Quanto al caos dei trasporti odierno in Italia (non solo negli aeroporti, ma anche nei treni dei pendolari e in quel fenomeno inaudito che è la Salerno – Reggio Calabria) si tratta di un sintomo assai chiaro della decadenza dell’imperialismo italiano. Non sono fenomeni nuovi, imprevedibili, e scritti che ormai hanno quasi un secolo ne spiegano le cause. Sentiamo Lenin:
“L’imperialismo puro, senza il fondamento del capitalismo, non è mai esistito, non esiste in nessun luogo e non potrà mai esistere.” “Se Marx diceva della manifattura che essa è la sovrastruttura della piccola produzione di massa, l’imperialismo e il capitalismo finanziario sono una sovrastruttura del vecchio capitalismo. Se ne demolite la cima, apparirà il vecchio capitalismo.””…il caos dei trasporti… esiste anche negli altri paesi, persino nei paesi vincitori. Orbene, che cosa vuol dire il caos dei trasporti nel sistema imperialistico? Il ritorno alle forme più primitive della produzione mercantile.” (2)
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Vaccini obbligatori: fenomenologia del positivismo scientista a sostegno delle politiche tecnocratiche
di Bazaar
Il dibattito sui vaccini obbligatori, e sulle misure da prendere per chi non rispetta la profilassi, infiamma da tempo.
Graziano Delrio esulta a causa dell’approvazione del decreto Lorenzin in un modo piuttosto singolare: « Ha vinto la ragione, ha vinto la scienza ».
https://twitter.com/graziano_delrio/status/1037353981994065921
Insomma, un decreto legislativo che dovrebbe essere frutto della dialettica politica intorno ai dati empirici offerti dalla dialettica scientifica, si trasforma in uno scontro politico in cui una parte – la parte finanziariamente e mediaticamente egemone – professa di promuovere prometeicamente un sapere obiettivamente vero, definito “scientifico”. Questa parte politica esprime biasimo verso la controparte, che trova perlopiù consenso in chi si informa al di fuori dal circuito mediatico mainstream, e che viene tacciata di essere “insipiente”, “ignorante” del metodo scientifico, “credulona” e affetta da “pregiudizi”: che soffre di un patologico “analfabetismo funzionale”.
Secondo Repubblica il Capo dello Stato avrebbe dichiarato che: «Nei confronti della scienza non possiamo esprimere indifferenza o diffidenza verso le sue affermazioni e i suoi risultati » e che «Non sempre l'uomo interpreta bene la parte di Ulisse alla ricerca della conoscenza e nel saper distinguere il vero dal falso ».
La Lorenzin, di cui porta il nome il decreto, avrebbe invece dichiarato che: « Si tratta di una vittoria della scienza su ignoranza e pregiudizio ».
Secondo il segretario del maggior partito dell’opposizione Maurizio Martina: «è stata battuta la loro visione oscurantista », ovvero la “visione” della controparte politica non favorevole all’obbligo vaccinale.
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Sul Trattato del ribelle di Jὒnger
di Salvatore Bravo
Ernest Jὒnger è stato un Ribelle, un non allineato, ha vissuto il lungo secolo che ci ha preceduto “il secolo breve” con il coraggio delle idee che si fanno carne e diventano parole. Ha smascherato la mediocrità conformista degli intellettuali che hanno omaggiato la fine della natura umana e con essa ogni paradigma di verità. Il postmodernismo con la sua razionalità debole, un esempio è il pensiero debole di Vattimo, ha contribuito a spezzare il senso di ribellione, favorendo l’accettazione omologante all’interno del paradigma dell’economia. Ha denunciato la bandiera del “non impegno”, consapevole che non è sufficiente la negazione, ma essa deve trasformarsi in impegno per la libertà. Di intellettuali come Jὒnger sentiamo tutti nostalgia e ne avvertiamo il terribile vuoto: “horror vacui” è la nostra condizione. La sinistra è dialettica, vive del polemos, ogni cultura ed identità necessitano della differenza per misurare in senso qualitativo la propria storia. Il pensiero di Junger ci sollecita a dare risposte a sollecitazioni che benchè formulate da una prospettiva altra, non possono che essere condivise. La forza plastica che ne possiamo trarre è d’ausilio per tollerare le difficoltà della resistenza nel contesto-mondo irrazionale in cui la comunità pensante pare arretrare, per lasciare spazio al deserto dell’ultimo uomo, all’anomia collettiva. E. Junger tratta del tempo anonimo della società dello spettacolo nel quale l’omogeneità e la linearità sono gli attributi di espressione del tempo incardinato nella produzione, e che trasforma gli uomini in consumatori. E’ il regno animale dello spirito secondo la definizione di Hegel.
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Guerre vere e guerre immaginarie. Sull'uso del concetto di geopolitica
di Marco Bertorello
“Siamo entrati nella terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti” ha dichiarato recentemente il Papa prospettando il rischio di un nuovo conflitto planetario. Ma, nonostante il forte ritorno ai nazionalismi, l’allarme del pontefice pare infondato perché non sussistono le condizioni politico-economiche per tale evenienza e la globalizzazione – per quanto multilaterale e asimettrica – rimane il fulcro centrale
Il Papa ha sostenuto ripetutamente che la terza guerra mondiale sarebbe iniziata. Su “Repubblica” ha affermato che «Siamo entrati nella terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli»[1] e successivamente sul “Corriere della sera” ha ribadito in maniera ancor più perentoria «Io ho parlato di terza guerra mondiale a pezzi. In realtà non è a pezzi: è proprio una guerra»[2]. Le affermazioni del Papa vengono interpretate come una provocazione, una metafora per denunciare un contesto fatto di crescenti conflitti militari, ma al contempo contribuiscono a confondere le idee su ciò che sta accadendo. Dico subito che questo modo di leggere le vicende del mondo contemporaneo non mi convince e proverò a spiegare perché.
Va registrato che le affermazioni del Papa hanno rafforzato, per certi versi si potrebbe dire sdoganato, un esteso sentire a sinistra che legge i conflitti militari in corso dentro un più generale contesto di guerra finendo, in alcuni casi, per dare la stura a un nuovo «campismo», cioè a una nuova divisione del mondo in blocchi politico-economici già militarmente in conflitto tra loro. Ovviamente questa visione viene sviluppata con modulazioni differenti, ma in tutti i casi è indice di una certa propensione a leggere gli attuali conflitti regionali dentro un processo più ampio e ben più drammatico.
Una versione sofisticata e problematizzata è proposta anche dalla rivista «Limes» che vi ha dedicato un numero intero dall'emblematico titolo «La terza guerra mondiale?»[3] e con il medesimo titolo ha organizzato un Festival, a Palazzo Ducale di Genova, che ha visto la partecipazione di 8.000 persone. Numeri che parlano dell'attenzione al tema.
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La miccia corta del debito estero
di Pitagora*
Tassazione creativa e crisi economica fanno esplodere il debito pubblico. Con la metà dei titoli in mano straniera, lo stato italiano balla sull'orlo del burrone. E non sarà lo scudo fiscale a salvarci
Mentre negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei si iniziano ad intravedere i primi spiragli di superamento della crisi, reale e finanziaria (è di meta giugno la notizia che le principali banche americane hanno rimborsato al Tesoro oltre 50 mld di dollari), la crisi tende a peggiorare in Italia.
Nel primo trimestre dell’anno il Pil è calato del 6 per cento rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente; le previsioni di consenso parlano di una riduzione dell’ordine del 5 per cento nell’intero anno; nel 2010 viene preventivata una stabilizzazione dell’economia piuttosto che una ripresa. Il deficit pubblico è visto in aumento con l’azzeramento dell’avanzo primario (pari al saldo della spesa pubblica al netto della spesa per interessi). In ogni caso, nel prossimo biennio, la disoccupazione aumenterà sensibilmente.
Inoltre, per il nostro Paese si susseguono i comunicati di una revisione al ribasso delle stime economiche e di finanza pubblica da parte degli organismi internazionali (Ocse, Fmi,…), e dai centri ricerca (Banca d’Italia, Confindustria, …). La progressiva revisione al ribasso delle previsioni costituisce un ulteriore grave motivo di preoccupazione, sebbene la crisi finanziaria mondiale abbia messo in evidenza che le previsioni degli economisti non siano attendibili.
La diversa reazione dell’economia italiana rispetto a quella di altri paesi europei e statunitense dipende da una molteplicità di ragioni, alcune legate alle politiche economiche del governo, altre alla situazione strutturale del Paese.
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L'intera strategia del salvataggio è inadeguata?
Un articolo di J. Stiglitz e la risposta di R. Cook di Globalresearch
***
Ripensiamoci prima che sia troppo tardi
di Joseph Stiglitz
La recessione americana sta entrando nel suo secondo anno, e la situazione sta solamente peggiorando. La speranza che il Presidente Obama sia in grado di tirarci fuori dai guai è affievolita dal fatto che la distribuzione di centinaia di miliardi di dollari alle banche non è riuscita a rimetterle in sesto, e nemmeno a ridare vita al flusso dell’erogazione dei prestiti.
Ogni giorno ci fornisce una prova ulteriore che le perdite sono superiori a quanto ci si aspettasse e che ci sarà bisogno di sempre più denaro.
Alla fine viene posta la domanda: forse tutta l’intera strategia è inadeguata? Forse quello di cui c’è bisogno è un ripensamento sostanziale. La strategia Paulson-Bernanke-Geithner era basata sulla constatazione che il mantenimento del flusso del credito fosse essenziale per l’economia. Ma era anche basata sull’incapacità di comprendere alcuni dei mutamenti fondamentali nel nostro settore finanziario avvenuti dalla Grande Depressione, addirittura negli ultimi vent’anni.
Per qualche tempo c’è stata la speranza sarebbe bastato abbassare a sufficienza i tassi di interesse, inondando l’economia di denaro; ma settantacinque anni fa, Keynes spiegava perché, in una flessione analoga a questa, la politica monetaria è probabilmente inefficace, un’azione di scarsissimo effetto.
Poi c’è stata la speranza che se il governo fosse stato pronto ad aiutare le banche con sufficiente denaro – e per sufficiente s’intende molto – la fiducia sarebbe stata ristabilita, e con il ristabilimento della fiducia i prezzi dei beni sarebbero aumentati e si sarebbe ristabilita l’erogazione dei prestiti.
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Perché John Mearsheimer incolpa gli Stati Uniti per la crisi in Ucraina
Isaac Chotiner intervista John Mearsheimer
Il New Yorker pubblica un'intervista al prof. John Mearsheimer, politologo e studioso delle relazioni internazionali tra i più autorevoli e conosciuti nel suo campo, una assoluta autorità in materia, in cui lo studioso svolge una argomentata e severa critica alla politica estera americana degli ultimi decenni e più in generale dell'occidente, accusati di una pericolosa mancanza di realismo e di una grave miopia nei confronti del vero concorrente degli USA, che non è la Russia, ma la Cina
Il politologo John Mearsheimer afferma da anni che l'aggressione di Putin nei confronti dell'Ucraina è causata dall'intervento occidentale. Gli eventi recenti gli hanno fatto cambiare idea? Mearsheimer è stato uno dei più famosi critici della politica estera americana dalla fine della Guerra Fredda. Forse meglio conosciuto per il libro che ha scritto con Stephen Walt, "The Israel Lobby and US Foreign Policy", Mearsheimer è un sostenitore della politica delle grandi potenze, una scuola di relazioni internazionali realistiche che presume che, in un tentativo egoistico di preservare la sicurezza nazionale, gli stati agiranno in via preventiva per anticipare gli avversari. Per anni, Mearsheimer ha sostenuto che gli Stati Uniti, spingendo per espandere la Nato verso est e stabilendo relazioni amichevoli con l'Ucraina, hanno aumentato le probabilità di una guerra tra potenze nucleari e hanno gettato le basi per la posizione aggressiva di Vladimir Putin nei confronti dell'Ucraina. Infatti, nel 2014, dopo che la Russia ha annesso la Crimea, Mearsheimer ha scritto che "gli Stati Uniti e i loro alleati europei condividono la maggior parte della responsabilità per questa crisi".
L'attuale invasione dell'Ucraina ha rinnovato il dibattito di lunga data sulle relazioni tra Stati Uniti e Russia. Sebbene molti critici di Putin abbiano sostenuto che avrebbe perseguito una politica estera aggressiva nei confronti delle ex repubbliche sovietiche indipendentemente dal coinvolgimento occidentale, Mearsheimer mantiene la sua posizione, secondo la quale gli Stati Uniti sono colpevoli di averlo provocato. Di recente ho parlato con Mearsheimer per telefono. Durante la nostra conversazione, che è stata modificata per ragioni di lunghezza e chiarezza, abbiamo discusso sul fatto se la guerra in corso avrebbe potuto essere evitata, se ha senso pensare alla Russia come a una potenza imperiale e quali sono i progetti di Putin sull'Ucraina.
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