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manifesto

Un piano inclinato chiamato Italia

Marco Revelli

48ea0ebd940ce zoomSolo uno sguardo esterno, si direbbe, può ormai vedere e denunciare il degrado civile e morale del nostro Paese. C'è voluta l'Onu, nella persona dell'Alto Commissario per i diritti umani Louise Arbour, per dirci che il decreto legge sulla sicurezza e il reato d'immigrazione clandestina sono un obbrobrio giuridico. Come c'era voluta una parlamentare europea, Viktòria Mohacsi, di origine rom, a capo di una commissione d'indagine, per dire che quello che si stava compiendo in Italia aveva un nome atroce e antico, pogrom.

E che la situazione nei campi nomadi italiani «è orribile», fuori da ogni standard civile. E come c'era voluta, ancora una volta, un'autorità comunitaria per qualificare le decisioni del governo Berlusconi prese a Napoli sul problema dei rifiuti per quello che sono: pericolose, demagogiche, autoritarie e inefficaci. Prima ancora erano stati gli spagnoli, a ricordarci il significato di termini come razzismo e xenofobia.

Voci «da fuori», perché «da dentro», quasi nulla. Qualche sussurro e nessun grido. Silenzio tombale da un'opposizione ridotta a ombra di se stessa, afona e supina nella rincorsa ossequiente di un attestato di responsabilità da parte di un governo d'irresponsabili. Silenzio anche dagli «intellettuali»: quelli che potrebbero avere ascolto, ma che proprio per questo si sono assuefatti a tacere sulle questioni di fondo, scomode, che dividono. E compassata approvazione, connivenza, condivisione da parte di una stampa che definire di regime sarebbe un eufemismo perché ormai costitutivamente incapace di un ruolo critico, o di «controllo» civile, di vigilanza morale. Filistea e moralmente apatica di fronte agli eccessi del potere. Pronta a stracciarsi le vesti di fronte a un paio di bandiere bruciate in piazza, e a tacere (in tacita accettazione) di fronte ai roghi dei campi nomadi, popolati di donne e bambini. Incapace persino, nella sua assuefazione al peggio, di cogliere l'orrore che si nasconde dietro il grottesco di un capo di stato che, di fronte alla tragedia dell'olocausto per fame di cui si discute in questi giorni al summit della Fao, la butta in barzelletta, in gag da avanspettacolo sul palcoscenico globale che dovrebbe trattare della crisi alimentare...

Lo sappiamo, purtroppo, per averlo visto infinite volte nel feroce Novecento: succede, è successo, succederà purtroppo ancora che un popolo, una nazione, un sistema istituzionale d'un colpo «vadano giù». Che perdano se stessi. Il senso della misura. Coscienza e diritto. Succede quando un imprenditore politico - un partito, un gruppo, un «potere», dall'alto, incomincia a quotare alla borsa del proprio consenso i peggiori sentimenti di una massa disorientata, disgregata, posseduta dal senso di vertigine e di perdita proprio di chi avverte di star perdendo posizioni, benessere, certezze... Quando l'invidia sociale (esemplare il caso di Venezia), priva di sbocchi reali, viene incanalata verso un capro espiatorio.

E' quanto sta accadendo, qui e ora, da noi. In poche settimane, come su un piano inclinato, si è bruciato un patrimonio di civiltà giuridica e politica, di memoria, di consapevolezza del valore dei diritti e del rispetto umano, accumulato a fatica nei decenni. La parola stessa, nell'immediato, nell'atto del pronunciarla - questa stessa parola, questo stesso scrivere e denunciare - appare inutile e impotente. Lo dico con disperazione: rischia il ridicolo, nella solitudine in cui è pronunciata. Sommersa nel brusio distratto di una maggioranza impegnata altrove.

Se continuiamo a parlare, a raccontare, a denunciare, a protestare, a dissociarci e a inveire, è in qualche modo «a futura memoria». Perché la superficie del mare che si è richiuso sopra di noi resti increspata, non placata, inquieta. E perché i membri di questa piccola tribù qui raccolta, in realtà, non sanno comportarsi altrimenti che così: continuando ad opporsi. Con la consapevolezza, questa sì dolorosamente nuova, che non si dovrà, probabilmente, cercare il valore del proprio agire in un risultato immediato. In una soluzione politica a breve termine, nel tempo in cui la politica ha perso se stessa, e si avvolge e contorce, negando nel proprio agire quotidiano le ragioni finali, e alte, del proprio esistere. Che bisognerà lavorare a lunga scadenza, senza illusioni, senza speranze né scorciatoie né espedienti tattici.

Sapendo il perché, senza più chiedersi quando.

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