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Il lavoro ai confini dell’Europa
di Devi Sacchetto
Per un lungo periodo le analisi sulle trasformazioni produttive si sono concentrate sullo spostamento delle strutture produttive dal cosiddetto nord al sud del mondo. In particolare a partire dal 1990, lo spostamento di capitali dall’Europa occidentale, Nord America e Giappone verso l’Asia, l’Europa orientale e l’America Latina ha subito una forte accelerazione grazie soprattutto alle imprese multinazionali. Negli anni più recenti, tuttavia, alcuni studi basati sulle catene del valore e sulle reti di produzione globali (Barrientos et. al. 2011; Henderson et al. 2002) hanno sottolineato come le strutture produttive si siano articolate, anche geograficamente, in modo molto complesso. In questo articolo presentiamo i risultati di due ricerche rispettivamente sul settore elettronico e su quello delle calzature, per evidenziare come le reti produttive globali si sviluppino non solo dal nord al sud del mondo, ma anche in direzione inversa. In particolare sosteniamo che l’organizzazione di queste reti è basata sul contesto socio-istituzionale delle diverse aree mondiali e sulla composizione della forza lavoro.
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Usa, il programma economico di Trump
Vincenzo Comito
Dall’ostilità verso i trattati commerciali alla volontà di tagliare le tasse alle imprese. Una analisi del programma economico del neopresidente Usa
Individuare con una certa accuratezza il programma economico che Donald Trump intende portare avanti appare un esercizio complicato. Questo per diverse ragioni.
Intanto perché c’è la sostanziale vaghezza di almeno alcuni punti delle sue enunciazioni programmatiche, ciò che appare, peraltro, abbastanza usuale nel caso di molti progetti politici, ma che in questo caso è aggravata dai grandi mutamenti che il neo-eletto preannuncia; di solito poi le azioni effettive dei governanti si scostano quasi sempre, almeno per una parte, dai programmi annunciati all’inizio, sia per ragioni opportunistiche, che per la realtà degli equilibri in gioco e degli interessi con cui ci si deve confrontare ex-post; infine, in particolare in alcuni campi, il presidente Usa ha poteri limitati e molte delle decisioni devono passare per il Congresso, che pur essendo a maggioranza repubblicana, su alcune questioni importanti ha delle idee differenti da quelle di Trump. Questo peraltro non appare certo un elemento consolatorio, visto che gli stessi repubblicani su molti temi hanno idee persino peggiori di quelle pessime del magnate.
Purtuttavia, alcune cose sembrano abbastanza assodate ed appare difficile che il presidente e il congresso tornino sui loro passi su di esse, mentre altre si presentano come più incerte. In queste note cerchiamo così di intravedere almeno alcune delle decisioni che si vanno preparando.
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La leggenda delle merci volanti
Lusso low cost dal Veneto alla Campania
di Devi Sacchetto
Cinque giorni dopo che lo stilista di punta ha finito di disegnare in qualche atelier parigino i nuovi modelli di Louis Vuitton, a Fiesso d’Artico (Venezia) si cominciano a produrre i prototipi che continueranno a fare la spola con la capitale francese su un aereo privato finché il campione non sarà pronto per entrare in produzione. La narrazione delle merci volanti, essenziale nella costruzione dell’immaginario del lusso esclusivo, oscura il lavoro che corre lungo tutta la filiera. La ricerca svolta per conto dell’associazione «Abiti puliti» e condotta con Davide Bubbico e Veronica Redini in tre aree di Veneto, Toscana e Campania ha cercato di rischiarare le trasformazioni nelle condizioni di lavoro nel cosiddetto sistema moda che, per quanto dimagrito, conta ancora complessivamente circa 500 mila addetti con una concentrazione in un pugno di regioni: Veneto, Toscana e Marche per le calzature e la pelletteria, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna per l’abbigliamento. In Campania, che pure non è tra le regioni centrali per i due settori, permangono realtà produttive importanti, soprattutto nell’abbigliamento, con una forte incidenza di lavoro irregolare.
Negli ultimi dieci anni le filiere dell’abbigliamento e delle calzature hanno subito un profondo processo di riorganizzazione produttiva che è stato accelerato dalla crisi economica. Un ruolo chiave è stato assunto dai grandi gruppi internazionali detentori di brand grazie alle possibilità finanziarie di investimento sulla produzione e di gestione dei canali distributivi.
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La Sinistra e l’Unione antieuropea: la fine delle illusioni
di Enrico Grazzini
La sinistra sembra illudersi che la Ue possa cambiare all'interno dell'attuale quadro istituzionale, politico e monetario. Bisogna invece rivendicare la sovranità nazionale e disobbedire al Patto di Stabilità imposto dalla Troika
Occorre una rottura, un bagno di realismo e uno scatto di coraggio di fronte a questa crisi e a questa Unione Europea che opprime e disunisce i popoli europei. La sinistra italiana ed europea guidata da Alexis Tsipras dovrebbe prendere atto della cruda realtà politica di questa UE appena rieletta e modificare la sua politica pro UE e pro euro nutrita di buone e nobili illusioni. L'ideologia dell'europeismo a tutti i costi rischia infatti di diventare inconcludente, inefficace e impopolare verso la politica economica imposta dalla UE, che è senza dubbio la principale causa della crisi senza fine che affligge drammaticamente l'Europa e l'Italia. Anche considerando che, dopo le elezioni europee, l'opinione pubblica, delusa dalla mancanza di tangibili cambiamenti positivi, diventerà prevedibilmente sempre più anti-Unione Europea.
Matteo Renzi chiede di realizzare gli Stati Uniti d'Europa e reclama la fine dell'austerità senza crescita. Renzi in questo senso è molto più coraggioso e innovatore di Enrico Letta e di Pier Luigi Bersani, il quale, quando ancora sperava di diventare premier italiano, nelle sue interviste al Wall Street Journal rassicurava sul rispetto integrale di tutte le politiche d'austerità.
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La parabola degli 80 euro
Il governo Renzi e la questione della moneta
di Francesco Festa
1. Che le elezioni europee in Italia sortissero un esito così schiacciante per il governo Renzi, nessuna analisi, seppur la più lungimirante, avrebbe potuto immaginarlo. Sia per coloro che soffiavano sul fuoco della rottura europea, sia per coloro che puntavano ad una rottamazione (come la parte grillina), il 40% e più di voti assegnati al partito di maggioranza della Grosse Koalition all’italiana è un risveglio traumatico. E in più, in questa tornata elettorale si è registrata la più alta percentuale di votanti d’Europa. Tutto ciò richiede un esercizio di analisi che complichi il quadro, andando oltre quelle ragioni che rinviano alle tensioni esasperate dall’assalto grillino alla diligenza oppure alla paura per la fase storica.
Si potrebbe sostenere che il voto italiano sia il sintomo di un paese assuefatto alla crisi; abbandonato all’ultimo sentimento rimasto, la speranza, quel sentimento infame inventato da chi comanda, e che per questo le persone abbiano concesso fiducia al PD, nella speranza appunto che esso conduca il paese fuori dal tunnel. Un paese che ha fatto suo l’auspicio che la crisi passi in fretta, che sia un processo, qualcosa di ciclico e congiunturale: prima, uno step recessivo, poi, uno ristagnativo e, infine, la luce in fondo al tunnel, con i primi segnali di ripresa, occupazione, ripresa della produzione e dei consumi.
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Crisi governo: crolla il capolavoro del Peggiorista
di Pino Cabras
Crisi di Governo. A Napolitano servirebbe un progetto, ma non ha altro progetto che conservare la poltiglia. Solo che ormai questa poltiglia è polvere pronta a esplodere
La crisi di governo si incrocia da subito con una profonda crisi istituzionale. Beppe Grillo sta già chiedendo perfino le dimissioni di Giorgio Napolitano. Quando il PD e il PDL rielessero il Peggiorista del Quirinale, parlammo di «Vilipendio al Popolo Italiano ». Ci risultava ben chiaro che Napolitano Due avrebbe dato vita a un governo peggiore di quello - già disastroso - di Rigor Montis (il minor economista della nostra epoca, che Napolitano Uno aveva fatto senatore a vita per poi indirizzarlo a Palazzo Chigi). Peccavamo però di ottimismo. Nemmeno certi governi balneari di Giovanni Leone o di Amintore Fanfani al suo crepuscolo avevano congelato in modo tanto miserabile la funzione di governo quanto il governo di Enrico Letta, ora al capolinea.
Perciò la crisi rivela bene quanto siano cadute in basso le cupole delle "larghe intese". Al minimo di azione di governo (un minimo sotto zero), è corrisposto il massimo di fuga in avanti per stravolgere l'assetto della Repubblica. Nonostante la paralisi lettiana, gli "strateghi" del PD e del PDL, rifugiati sotto le vecchie ali del Peggiorista, pensavano infatti di cambiare metà della Costituzione, cioè distruggerla, proprio come piace a JP Morgan .
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QE o non QE, questo è il (non)problema...
Stefano Bassi
Ieri in molti si aspettavano che la FED (la Banca Centrale degli USA) inaugurasse la stagione del QE2 (= ripresa del Quantitative Easing = ripresa della rotativa stampa-dollari). In molti invece si aspettavano che la FED non si sarebbe ancora mossa.
Alla fin fine la FED ha messo in piedi una via di mezzo ovvero una sorta di QE 1.5.... oppure se preferire una sorta di QN = Quantitative Neutral a somma zero. Infatti il cassonetto della FED, pieno della spazzatura raccolta negli ultimi due anni di Grande Crisi, rimarrà (per ora) invariato a 2.000 miliardi di dollari circa.
Verranno usati i profitti (?...) generati dai Debiti della MBS-spazzatura (mortgage backed securities) e della Fannie-Freddie-spazzatura (rastrellata stampando a Debito dollaroni dal nulla) per finanziare l'acquisto di titoli del Debito Americano a lungo termine.
Un gioco di prestigio di alta classe: mi rifiuto di approfondire ulteriormente il suo meccanismo di funzionamento onde evitare che mi venga l'emicrania ed anche l'insonnia....
Le stime parlano di un riacquisto da 10 miliardi di $ al mese, robetta rispetto ai 14.000 miliardi di debito USA. Il QN ha lo scopo di abbassare ulteriormente i tassi d'interesse reali per stimolare investimenti/consumi e per dare un'ulteriore mano ai mutui. Che poi ci riesca è tutto un altro paio di maniche.
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Francia, cattivo esempio
Rossana Rossanda
Non è serio ridurre la questione della legge elettorale alla solita rissa fra notabili. Quali che siano i limiti della democrazia rappresentativa, considerare il problema come inesistente è una frivolezza che non ci possiamo permettere.
Il sistema elettorale «alla francese», al quale inclina Walter Veltroni, è il peggiore nei dintorni. Un presidenzialismo secco, vera e propria monarchia, senza neanche un'adeguata informazione degli elettori: Nicolas Sarkozy, scelto dal suo partito nel giro di due sedute a 2007 già avanzato, era presidente della Repubblica quattro mesi dopo. Peggio che negli Usa.
Nel sistema statunitense come in quello francese l'obiettivo è ridurre più che si può la complessità delle espressioni politiche in una società complessa. Cosa che negli Usa è, molto parzialmente, corretta da una divisione dei poteri, in Francia assai meno. E non penso a quella elementare divisione che dovrebbe darsi fra presidenza, governo e parlamento; già era poca cosa dopo la costituzione di De Gaulle del 1958, adesso sarà ancora meno, dato che secondo la commissione nominata da Sarkozy se finora toccava al presidente e al governo decidere la linea della Repubblica, d'ora in poi questo toccherà soltanto al presidente.
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‘Il capitale disumano’. Ritratto di un tecnocrate, dal faceto al serio
di Alba Vastano
Draghi è oggi il premier eletto con standing ovation finale, perché tutto il sistema parlamentare odierno è conforme alle politiche neoliberiste europee di cui Draghi è il simbolo e l’esecutore. Per comprendere qual è il compito di un tecnocrate dell’austerity, basterebbe fare riferimento ad una letterina che ci arrivò il 5 agosto 2011. Ripercorrere la sua escalation nel mondo dell’alta finanza europea e l’esecuzione capitale avvenuta sugli Stati nazionali, svelando la sua vera natura di strangolatore di popoli, è un atto di chiarezza e di onestà
Via Conte. Habemus Mario Draghi al governo. I suoi ormai fedelissimi estimatori dal centro destra al centrosinistra sostengono che, da super esperto qual è, sia l’uomo che saprà risolvere in breve i tanti guai derivanti da anni di crisi dovuta all’incompetenza dei governanti precedenti. Sono in molti, infatti, nelle fila dei partiti parlamentari, a fidarsi delle competenze di alto spessore del banchiere dell’Ue. Tranne una piccola frangia di occasionali dissidenti, tutte le forze parlamentari sono entrate a far parte del bacino delle larghe intese, realizzando un’anomalia governativa che fino a ieri sembrava impossibile. Ebbene, grazie alla nuova accozzaglia politica di centro destra e centrosinistra, i fini matematici, con l’occasione, sono riusciti a superare l’impossibile fino ad oggi: sommare le pere con le mele.
Tutti a festeggiare la bizantina intesa e a magnificare sua eccellenza, mister Europe, dimenticando le beghe pubbliche da osteria, di cui sono stati attori protagonisti fino a ieri e a cui ormai eravamo, da spettatori inermi, avvezzi e quasi rassegnati. Perché le continue schermaglie parlamentari movimentavano, a volte spassosamente, le nostre giornate, specie in questi tempi spenti di pandemia, in cui l’informazione mainstream ha impennate notevoli nello share televisivo.
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Troppa flessibilità fa male ai muscoli
Carlo Clericetti
Di che cosa si parla quando si discute di posto fisso? I discorsi degli imprenditori e di molti economisti sottintendono una realtà inesistente, ossia che l'impresa non abbia possibilità di dosare il fattore lavoro secondo le esigenze produttive. Sarebbe invece più utile, guardando alla storia del XX secolo e degli ultimi 30 anni in particolare, chiedersi se la flessibilità non sia nociva per l'economia in generale e anche per il funzionamento delle imprese
Il dibattito sul “posto fisso” innescato dalla recente dichiarazione di Giulio Tremonti assume certamente, come è stato sottolineato da alcuni esponenti del centrosinistra, aspetti piuttosto paradossali in un periodo di forte crescita della disoccupazione, che peraltro cancella prima di tutto tutta la gamma dei posti a vario titolo “flessibili”. Eppure sarebbe un errore concentrarsi su quest’ultimo aspetto ed evitare quindi una discussione nel merito. Perché è proprio questo tipo di discussione che stanno invece portando avanti tutti i sostenitori della flessibilità, per riaffermare concetti che negli ultimi due decenni hanno contribuito a quel corpo di teorie diventato tanto dominante da meritare di essere chiamato “pensiero unico”.
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Non c'è più tempo per le incertezze
di Alessandro Pascale
Pubblichiamo un contributo di Alessandro Pascale sull'unità dei comunisti
Recentemente si è assistito ad un breve ma intenso dibattito a distanza sulla questione dell'unità dei comunisti. Avviato da Norberto Natali, è stato portato avanti teoreticamente da Eros Barone, suscitando una controproposta molto pragmatica di Burgio, Sidoli e Leoni. Le proposte operative di questi ultimi non sembrano per ora essere state seriamente prese in considerazione dalle organizzazioni esistenti, almeno non apparentemente... Natali e Barone hanno posto una serie di paletti sul cerchio in cui si dovrebbero includere i comunisti effettivamente tali, ma per chi sa leggere i bizantinismi della politica, nonostante l'apparente apertura, anche le proposte operative di Sidoli e compagni tendono nei fatti a chiudere entro un adeguato perimetro le forze di cui si auspica un'unità d'azione.
Non ho mai amato molto i sotterfugi, e preferisco i discorsi chiari ed espliciti. Nell'opera In difesa del socialismo reale(poi diventata nella II edizione Storia del Comunismo) ho svolto un'analisi abbastanza chiara e netta sui pregi e sui difetti della storia del movimento comunista italiano; pur essendo partito da una posizione scevra da pregiudizi, in molti casi mi sono trovato, studiando, a rimodulare in maniera consistente certi giudizi storici e politici pre-esistenti. Quel che ho capito, e che viene ben espresso dal tenore degli interventi citati, è che abbiamo un patrimonio enorme alle spalle, che dobbiamo saper utilizzare criticamente per comprendere fino in fondo gli errori che abbiamo commesso tutti nel passato, al fine di ricostruire un'organizzazione con fondamenta più solide.
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L’Ottobre in una prospettiva storica
di Alexander Höbel
Sebbene Zhou Enlai ritenesse, nel 1972, che fosse passato troppo poco tempo per trarre un bilancio della Rivoluzione francese, i 95 anni che ci separano dalla Rivoluzione d’Ottobre rendono plausibile, e per molti aspetti necessario, tentare di formulare un giudizio storico non tanto sull’evento in sé, quanto sul suo impatto sulla storia dell’ultimo secolo.
Per farlo non si può non partire da due punti: che cos’era la Russia – e che cos’era il mondo – prima del 1917, e quale è stato l’impatto sulla storia del secolo breve di un altro evento decisivo e altrettanto paradigmatico, ossia la Prima guerra mondiale. È da qui, credo, che si debba partire se si vuole acquisire fino in fondo la consapevolezza di ciò che l’Ottobre e quello che ne è seguito hanno rappresentato.
Nella Russia pre-rivoluzionaria lo zar era un “monarca assoluto”, che non doveva “rispondere delle proprie azioni a nessuno al mondo”, il suo potere era “autocratico e illimitato”; la servitù della gleba era stata abolita nel 1861, ma le riforme di Stolypin, spezzettando le comuni contadine, i mir, in piccolissimi appezzamenti privati, avevano riproposto un altro tipo di servitù, quella economica, determinata dall’aumento della polarizzazione tra contadini poveri (che spesso rivendevano il loro appezzamento) e contadini ricchi (kulaki), che accaparrandosi le terre dei primi accrescevano sempre più la propria posizione dominante nelle campagne.
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Contraddizioni sull'Ilva e non solo
di Antiper
Qualche giorno fa il GIP Patrizia Todisco ha disposto il fermo di 6 impianti “a caldo” dell'Ilva di Taranto ipotizzando il rischio di un “disastro ambientale” consapevolmente prodotto “per la logica del profitto”
“Non vi sono dubbi sul fatto che tale ipotesi criminosa sia caratterizzata dal dolo e non dalla semplice colpa. Invero, la circostanza che il siderurgico fosse terribile fonte di dispersione incontrollata di sostanze nocive per la salute umana e che tale dispersione cagionasse danni importanti alla popolazione era ben nota a tutti...”
“... La piena consapevolezza della loro attività avvelenatrice non può non ricomprendere anche la piena consapevolezza che le aree che subivano l’attività emissiva erano utilizzate quale pascolo di animali da parte di numerose aziende agricole dedite all’allevamento ovi-caprino...”
“... Le sostanze inquinanti erano sia chiaramente cancerogene, ma anche comportanti gravissimi danni cardiovascolari e respiratori. Gli effetti degli Ipa e delle diossine sull'uomo non potevano dirsi sconosciuti...”
“... Non vi è dubbio che gli indagati, adottando strumenti insufficienti nell’evidente intento di contenere il budget di spesa, hanno condizionato le conseguenze dell’attività produttiva per la popolazione mentre soluzioni tempestive e corrette secondo la migliore tecnologia avrebbero sicuramente scongiurato il degrado di interi quartieri della città di Taranto...”
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Sul populismo di sinistra
di Renato Caputo
È possibile un populismo di sinistra?
Dinanzi ai successi del populismo, ci si interroga
se per tornare a vincere ci sia bisogno del cosiddetto populismo di sinistra
Come è noto, l’attuale governo italiano si autodefinisce, per bocca del suo stesso presidente e garante del contratto fra le due anime che lo compongono, populista. Quello di Salvini è esplicitamente un populismo di destra, di stampo essenzialmente sciovinista, che contrappone il popolo italiano – occultando così le contraddizioni al suo interno fra le diverse classi sociali – agli stranieri immigrati. In tal modo nasconde la contraddizione oggettiva fra l’interesse dei capitalisti a sfruttare la forza-lavoro, per estrarre il massimo plus-valore, e l’esigenza dei salariati di minimizzare tale sfruttamento.
Ciò favorisce evidentemente la classe dominante, che porta avanti anche inconsapevolmente la lotta di classe dall’alto, semplicemente facendo funzionare senza opposizioni significative il modo di produzione capitalista e le sovrastrutture liberali, che hanno proprio questo fine intrinseco. Anche se tale fondamento, in quanto tale, non appare, anzi, è occultato dal “naturale” carattere di feticcio che assume la merce, il denaro e lo stesso capitale, che non appaiono come prodotti del lavoro salariato, ma degli strumenti per il suo dominio. Inoltre il populismo nazionalista di destra tende a offrire al malessere della maggioranza dei ceti sociali subalterni – che subiscono, senza nemmeno avvedersene, il dominio della classe dominante e la sua lotta di classe condotta in modo sempre più unilaterale dall’alto – un capro espiatorio molto più facile, almeno apparentemente, da combattere, ovvero gli stranieri che aspirano a prendere il loro posto di lavoro, la loro porzione di “Stato sociale” e che, in ogni caso, con la loro semplice presenza rendono il proletario e il sottoproletario italiano più facilmente ricattabili.
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Podemos visto dall’alto
di Felice Mometti
Le vicende interne a Podemos delle ultime settimane mostrano quanto sia complicato il periodo che sta attraversando. Il venir meno del monopolio di un’immagine antisistema, messo in discussione dalla formazione di destra di Ciudadanos, la scarsa partecipazione alle primarie (16% degli aventi diritto) per le candidature alle prossime elezioni politiche, lo scontro interno sulle procedure democratiche da adottare e sulle alleanze elettorali stanno a indicare la natura delle difficoltà che deve affrontare nei prossimi mesi. Un clima interno reso ancor più difficile dai recenti sondaggi che lo collocano dietro sia al Partito Popolare sia al Partito Socialista. Un ingorgo di contraddizioni che sta mettendo a dura prova la leadership del partito. Se e come verranno affrontate e, nel caso, risolte queste contraddizioni influirà in maniera determinante sul futuro di Podemos. Nel frattempo può essere utile, per avere qualche strumento in più, guardare alla recente produzione politica e teorica delle tre figure pubbliche con maggior riconoscimento politico: Pablo Iglesias1, presidente del partito e candidato primo ministro; Juan Carlos Monedero2, tra i fondatori di Podemos, che è stato responsabile del programma e del processo costituente del partito, dimessosi tre mesi fa dal gruppo dirigente ristretto; Inigo Errejon3, attuale responsabile della strategia e della comunicazione per la segreteria politica.
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L’ultima vittoria del lulismo
di Homero Santiago
Questa analisi del voto brasiliano dello scorso ottobre è eccentrica rispetto a quelle che di solito pubblichiamo su ∫connessioni precarie. A scriverla è un giovane studioso che si è apertamente schierato per la presidente Dilma Roussef. La sua analisi, tuttavia, ha per noi motivi di interesse. In primo luogo può contribuire a sprovincializzare un dibattito di movimento in Italia sempre più segnato dalla convinzione che esista una sorta di delegittimazione preventiva del sistema politico-istituzionale, dipinto costantemente sull’orlo della sua crisi finale in quanto preda della sua corruzione e della sua incapacità di rispondere alle richieste di ampie quote di popolazione. Questa descrizione ha innegabili elementi di realtà. L’analisi che punta sulla progressiva e quasi inarrestabile decomposizione del sistema politico non si riesce tuttavia a spiegare come sia possibile che questo stesso sistema politico riesca costantemente a riprodursi e a ottenere insperate aperture di credito anche da parte di coloro che sembra non rappresentare. Se ci limita alla descrizione della realtà non si spiegano molte cose in Italia e si comprendono anche meno cose che capitano non lontano dall’Italia, per esempio in Grecia con Syriza o in Spagna con Podemos. Il Brasile ha livelli altissimi di corruzione e parte della realtà sociale è letteralmente irrappresentabile dal sistema politico. Eppure, dopo le manifestazioni oceaniche e gli scontri di piazza contro il rincaro dei prezzi dei trasporti pubblici e contro la coppa del mondo di calcio, le elezioni non sono state semplicemente un rituale passaggio di riproduzione del sistema politico.
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L’uso in comune dei beni
di Gino Sturniolo
Intervento svolto in occasione della presentazione di Beni Comuni, volume monografico della rivista Il Ponte, a cura di Mario Pezzella, il 26 aprile, a Messina. Gino Sturniolo è il portavoce del movimento No Ponte di Messina
“Il capitalismo sta per finire. La prova: il crollo dell’Unione Sovietica”. Con queste parole Anselm Jappe inizia la sua introduzione aL’onore perduto del lavorodi Robert Kurz (pubblicato in Italia da Manifestolibri nel 1994). Secondo le tesi dell’autore tedesco e della rivistaKrisis, con la quale ha collaborato negli anni novanta, la crisi del sistema di produzione basato sullo sfruttamento industriale si evidenzia più clamorosamente laddove presenta maggiori rigidità. Laddove, evidentemente, si presenta a maggiore comando statale. Il crollo dell’Unione Sovietica non dimostrerebbe, quindi, la superiorità dell’economia di mercato, bensì il soccombere delle sue manifestazioni meno concorrenziali.
Le tesi sostenute da Kurz hanno, a mio modo di vedere, a che fare con quanto esposto da Lanfranco Caminiti inBreznev in Calabria,un articolo pubblicato nel 1991 sulla rivistaLuogo Comune,nel quale veniva proposta una lettura del Sud come luogo dove vennero sperimentate nel trentennio postbellico politiche “socialiste”. “E’ come se in Italia si sia realizzato un socialismo regionale e che, ben lungi dalla solita individuazione della zona tosco-emiliana come base rossa, questa macchia di socialismo reale sia stato il Meridione. E proprio come all’Est le macchine statali socialiste sono andate in crisi, la struttura statale nel Sud… va a pezzi e con clamoroso rovinio”.
Di quelle politiche Caminiti ricorda, senza particolari sottolineature critiche, che “l’unico posto al mondo con un livello di produttività operaia bassa come a Tblisi fosse stato l’Alfa di Pomigliano d’Arco”.
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L’impresa pubblica competitiva. Una proposta
Ernesto Screpanti*
L’entrata o la mera minaccia di entrata di una impresa pubblica nei diversi settori industriali e finanziari potrebbe servire ad indurre le imprese private già operanti ad evitare pratiche monopolistiche.
L’impresa pubblica competitiva (IPC) è definibile come un’impresa di proprietà pubblica che opera in competizione con imprese private. I suoi manager sono esposti a un vincolo di bilancio duro, nel senso che il governo non sarà pronto a ripianare qualsiasi perdita, e hanno l’obbligo di pareggiare il bilancio entro un arco temporale di medio periodo, pena il licenziamento. Nei costi può essere incluso un profitto normale da utilizzare per l’autofinanziamento della crescita e delle innovazioni. Non è tenuta a distribuire profitti, ma può finanziarsi sul mercato del credito, prendendo a prestito tutto quello che vuole, se riesce a persuadere i prestatori.
Produce beni privati in settori caratterizzati da relativa omogeneità dei prodotti e delle tecnologie. La relativa omogeneità dei prodotti assicura la sensibilità dei ricavi alla competizione di prezzo. La relativa omogeneità delle tecnologie, intesa come una situazione in cui tutte le imprese del settore hanno facile accesso alla stessa tecnologia, assicura l’uniformità del saggio di profitto se c’è uniformità dei prezzi.
Lo scopo principale dell’IPC è di costringere le imprese private a praticare prezzi concorrenziali, impedendo comportamenti collusivi e sfruttamento oligopolistico dei consumatori.
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Le Favole di Salvini
di coniarerivolta
Leggenda vuole che molti e molti anni orsono uno sbruffone si vantasse sguaiatamente delle sue gesta. In particolare sosteneva, lo sbruffone, di poter saltare da un piede all’altro del colosso di Rodi. La leggenda racconta anche che non ci volle poi molto a verificare la consistenza delle fanfaronate dello sbruffone. Bastò infatti che uno degli astanti proponesse all’incauto millantatore “Hic Rhodus, hic salta” (fai conto che questa sia Rodi, facci vedere quello che sai fare), per riportarlo a più miti consigli.
Molta acqua è passata sotto i ponti da allora, eppure una vicenda simile si ripete in questi giorni di fronte ai nostri occhi. Secondo un copione già visto, Matteo Salvini ha passato le ultime settimane, non a caso coincidenti con la campagna elettorale, a promettere grandi sconvolgimenti. Basta con l’austerità che ci soffoca! No all’adesione cieca a regole di bilancio che causano disoccupazione e miseria! E se all’Europa non va bene, peggio per lei, ce ne faremo una ragione! Apparentemente il trucco ha funzionato, ancora una volta. Nonostante un anno di governo all’insegna dell’austerità e della continuità totale con i governi che l’hanno preceduto, il leader della Lega è riuscito di nuovo a presentarsi all’elettorato come l’(unica) alternativa ai sacrifici imposti dai Trattati europei e a capitalizzare un impasto esplosivo di rabbia e rancori di una piccola e media borghesia sempre più incattivita. Nelle ore immediatamente successive alle elezioni, Salvini ha rincarato la dose, promettendo una rivoluzione fiscale quantificabile in 30 miliardi di euro di tagli alle tasse, sotto forma di flat tax per i redditi delle imprese e delle famiglie con un reddito fino a 50.000 euro. Il tutto infarcito dal campionario standard con cui Salvini ha mascherato il suo nulla negli ultimi 12 mesi: “non sto a impiccarmi a un parametro, un numero o una regoletta”, “l’era della precarietà e dell’austerità si è conclusa”, non ci importa di “rispettare gli zero virgola”.
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La strategia di Obama: separare la Russia dall'Europa
di Gaetano Colonna
Nei giorni immediatamente precedenti la celebrazione dei settant'anni dallo sbarco alleato in Normandia, la Casa Bianca ha assunto delle posizioni ufficiali sulla situazione nell'Est europeo che meriterebbero molta maggiore attenzione di quella che l'Europa, concentrata sui risultati elettorali e sulla perdurante crisi economica, gli ha riservato.
Il 3 giugno scorso, infatti, è stata ufficialmente lanciata la European Reassurance Initiative, con la quale il presidente americano ha richiesto al Congresso degli Stati Uniti un miliardo di dollari, da iscrivere nel bilancio della difesa statunitense 2015 tra le Overseas Contingency Operations (OCO), per finanziare una serie di misure di carattere militare che il governo Usa intende adottare. Intensificazione, utilizzando a rotazione truppe americane, di addestramento ed esercitazioni congiunte nel territorio degli alleati europei di più recente accessione; pianificazioni congiunte con gli stessi Paesi, per accrescere la loro capacità di programmazione di quelle attività; potenziamento delle capacità di risposta degli Usa a supporto della NATO, mediante la predisposizione di strutture di pre-posizionamento di equipaggiamenti e truppe; aumento della partecipazione della flotta Usa alle attività NATO, per potenziarne la presenza nel Mar Baltico e nel Mar Nero; crescita della capacità di Paesi "stretti alleati" ex-sovietici, come Georgia, Moldova e Ucraina, di collaborare con gli Stati Uniti e la NATO, e di sviluppare le proprie forze di difesa.
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Hereafter, Tahrir
di Augusto Illuminati
Dopo lo tsunami della richiesta di rinvio a giudizio e della rabbiosa reazione del Caimano contro magistrati e istituzioni abbiamo un assaggio umbratile di futuro come la protagonista dell’inizio del film ha dell’aldilà. Silenzio, luce filtrata, figure familiari ma indistinte. Ci passano davanti ectoplasmi della scena politica italiana: il saggio Presidente che ammonisce gli sfasciacarrozze, il nano pelato con satiriasi bionica, l’astuto Pierferdi, casanova prudente, l’orco devoto in mutande, l’inutile Bersani a maniche rimboccate, il ghignante La Russa in mimetica, il verme Frattini all’improvviso accortosi che il cuore del casino è il Mediterraneo e non Santa Lucia, il trasognato Fini impotente a gestire gli organigrammi del suo neo-partito. Esistono, ma non ci dicono nulla del nostro futuro, se non di un’infinita transizione verso il dissolvimento –dell’economia, dell’unità nazionale, dello spirito civico: qualsiasi cosa significhi! Esistono ma sono scavalcabili, come le patetiche transenne da cui il 13 scorso era blindato Montecitorio. Domina nel palazzo un senso di smarrimento che non lascia presagire nulla di buono, come se il cupio dissolvi dell’opposizione avesse contagiato anche la maggioranza. Stiamo freschi!
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Il sindacato in mezzo al guado
Giuliano Garavini
Il sindacato ancora non riesce a scegliere se divenire definitivamente un sindacato "concertativo", cioè concentrato sul negoziato con il Governo in carica e l'offerta di servizi alle imprese, o un sindacato impostato su conflitto, partecipazione e l'eguaglianza fra i lavoratori
Una volta in mezzo al guado ci stava il Partito comunista. Non seppe scegliere alla fine degli anni Settanta se trasformarsi definitivamente in un credibile partito socialdemocratico, oppure se riprendere le fila di una serrata critica del capitalismo che gli avrebbe imposto un rinnovamento del suo armamentario ideologico e un legame con i fermenti sociali più innovativi.
Oggi in mezzo al guado c'è il sindacato, il quale ancora non riesce a scegliere se divenire definitivamente un sindacato "concertativo", cioè concentrato sul negoziato con il Governo in carica e l'offerta di servizi alle imprese, o un sindacato impostato su conflitto, partecipazione e l'eguaglianza fra i lavoratori.
Nel 1993 i sindacati confederali avevano scelto insieme la concertazione, credendo di avere di fronte interlocutori credibili e fissandosi il grande obiettivo della partecipazione con il gruppo di testa alla moneta unica. In nome di questo "obiettivo Europa" essi hanno chiesto sacrifici ai lavoratori, che sono stati rilevanti, e hanno chiesto garanzie sugli investimenti. Nessun investimento sui servizi e le infrastrutture del Paese è stato realizzato ma solo privatizzazioni, mentre l'obiettivo dell'euro è stato, quello sì, centrato.
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La crisi di governo e i bisogni degli italiani: mancano 100 miliardi di euro l’anno
di Davide Gionco
Mentre l’Italia, ovvero molti milioni di italiani (non un concetto generico, ma persone, con le loro famiglie, il loro lavoro) continua ad essere immersa nei suoi gravi problemi sociali ed economici, ecco che ci ritroviamo in una crisi di governo, da cui francamente si fa fatica a vedere degli sbocchi positivi, che possano garantire una situazione “meno peggiore” di quella precedente.
Naturalmente è già partito il teatrino di tv e giornali sulle possibili nuove elezioni o sulle possibilità che venga formata una diversa maggioranza politica in Parlamento.
I vari partiti non perdono occasione di dire di non avere timore di presentarsi alle elezioni, proponendosi agli elettori come alternativa seria all’attuale ex maggioranza politica.
Per favore, scendiamo dalla giostra della “politichetta”!
Non stiamo giocando il campionato di calcio, dove l’importante è che la nostra squadra vinca la partita, per poter poi sventolare la nostra bandiera.
L’Italia continua ad avere milioni di persone in povertà assoluta ed altri milioni di persone a rischio di cadere in povertà.
L’Italia continua ad avere milioni di disoccupati e molti milioni di persone che tirano a campare, con lavoretti part-time, con datori di lavoro che li sfruttano, con l’Agenzia delle Entrate sempre pronta a tartassare le nostre piccole e medie imprese portandole senza remore al fallimento, con le poche aziende che sono riuscite a sopravvivere puntando sulle esportazioni e che ora devono fare i conti con le guerre dei dazi ed il calo di domanda dei vicini paesi europei, causato dalle politiche europee di austerità. Una tassazione da record mondiale, unita a servizi pubblici sempre più scadenti e inaccessibili.
I servizi pubblici vanno verso lo scatafascio: la sanità ridotta ai minimi termini dai continui tagli, al punto che mancano medici ed infermieri per curarci, per la manutenzione degli edifici pubblici ridotta al punto che molti edifici sono inagibili, per investimenti nelle infrastrutture (non solo nei trasporti, ma anche nelle telecomunicazioni, nella formazione professionale, nella ricerca, nell’energia…).
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America Latina: cosa fare dopo l’arretramento progressista
Le teorie di Andre Gunder Frank e di Albert O. Hirschman a confronto
di Riccardo Evangelista
Nonostante le ambiziose politiche economiche degli ultimi vent’anni, l’America Latina sta cambiando colore politico. Le lezioni da trarre sono molteplici
1. Suggestioni dalla fine del sogno progressista latino-americano: introduzione
La vittoria dell’ultraconservatore Jair Bolsonaro alle elezioni presidenziali brasiliane dello scorso ottobre sembra segnare un punto di non ritorno nella politica economica del continente latino-americano. Il variegato e altisonante ciclo progressista, iniziato con l’elezione di Evo Morales in Bolivia nel 1998 e poi proseguito con il trionfo di Hugo Chávez in Venezuela nel 1999, di Lula in Brasile nel 2002, di Néstor Kirchner in Argentina nel 2003 e di Rafael Correa in Ecuador nel 2007, può ritenersi concluso. Quelle speranze concrete di profondo cambiamento[1] si sono infrante sotto i colpi delle ravvicinate vittorie elettorali dei nuovi governi conservatori in tutti o quasi i paesi simbolo della precedente svolta progressista. Per di più, i successi delle destre hanno fatto ampiamente leva su una retorica di feroce opposizione verso l’espansione della spesa sociale promossa in maniere e tempi differenti dalle sinistre, ritenendola una perversa espressione di spreco, motivo di corruzione e sintomo di improvvisazione politica.
Una non nuova teleologia del fallimento rischia così di annichilire le istanze riformatrici dell’America Latina: ogni tentativo di trasformazione in senso più egualitario della struttura economica latino-americana è davvero destinato a fallire, conducendo in modo perverso alla reazione delle classi dominanti e quindi a un ciclico ritorno al passato? In termini più generali, è possibile individuare una qualche legge ferrea che ratifichi la caducità delle riforme economiche in nome di un ordine immutabile delle cose?
Due economisti profondamente critici della teoria economica mainstream, Albert O. Hirschman e Andre Gunder Frank, hanno avuto modo di imbattersi direttamente nelle difficoltà che le politiche progressiste tendono a incontrare in America Latina, arrivando a conclusioni agli antipodi di fronte al problema del sottosviluppo e della disuguaglianza economica. Ripercorrere il loro approccio metodologico, in particolare le critiche che Hirschman rivolge a Frank, conduce a interrogarsi in maniera paradigmatica sugli atteggiamenti di politica economica, ancor prima dei provvedimenti concreti, che ogni tentativo di critica dell’ordine esistente può manifestare di fronte al fallimento delle istanze trasformatrici.
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Huawei, Cina, Usa e la lotta per il primato tecnologico
di Vincenzo Comito
La disputa tra Cina e Stati Uniti, e l’accordo commerciale che si sta discutendo, a partire dal primato della compagnia Huawei nella tecnologia G5. Con l’Europa in ordine sparso. Ma delle 20 più grandi imprese nelle tecnologie avanzate, 11 sono statunitensi e 9 cinesi. Nessuna europea
Cosa sta succedendo alla Huawei
Intorno ai casi di Huawei, la grande compagnia di telecomunicazioni cinese, si vanno sviluppando da qualche mese molte questioni e diversi interrogativi, insieme a parecchia confusione. Appare importante soffermarsi sulle vicende di questa impresa, cruciali da molti punti di vista, per valutare tra l’altro in che direzione sta andando l’innovazione tecnologica nel mondo, come si presenta poi il quadro della situazione competitiva tra Cina e Stati Uniti, quali i risultati dei tentativi sempre più marcati di un’applicazione extraterritoriale delle leggi americane, quali infine i possibili sviluppi delle vicende relative nel prossimo futuro.
Il peso della società nei suoi mercati di riferimento
Preliminarmente ad un’analisi del quadro politico della situazione, appare opportuno ricordare il posizionamento della società cinese sui suoi due mercati principali, gli smartphone e gli apparati per telecomunicazioni.
Il mercato dei telefonini
Qualche settimana fa la Apple annunciava che l’azienda stava vendendo meno smartphone che in passato a causa di un rallentamento generale del mercato cinese. Si trattava di un annuncio che in realtà affermava al massimo solo una mezza verità.
E’ certamente vero che il mercato cinese degli smartphone sta rallentando, non si sa se temporaneamente o meno, ma è anche vero che la Apple sta vendendo di meno nel Paese anche, se non soprattutto, perché essa sta perdendo quote di mercato a favore dei produttori cinesi ed in prima fila di Huawei. Quest’ultima invece sta collocando sempre più prodotti non solo sul mercato interno, ma anche all’estero (tranne che negli Stati Uniti, dove il suo sviluppo è sostanzialmente impedito politicamente). E la Apple sta lentamente perdendo quote su tutti i mercati, non soltanto in Cina.
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La lotta al feticcio e l'indifferenza su Banca Centrale indipendente e Costituzione
di Quarantotto
1. In margine all'analisi critica compiuta da Alberto Bagnai su Goofynomics, relativa alla presa di posizione di Luciano Gallino, così come ai tentativi di dialogo che, con grande pazienza e disponibilità, partono da Sergio Cesaratto, vale la pena di fare alcune riflessioni ulteriori.
In termini pratici, l'azione critica di Alberto e Sergio visualizza la radiografia di una sinistra non più riconoscibile come tale (proprio se riferita alle sue tradizionali coordinate: cioè comprensione dell'assetto dei rapporti di produzione e tutela effettiva della classe lavoratrice): il massimo che si può ottenere (faticosamente e con bassa probabilità di successo) è che da sinistra non si aggredisca e non si rifiuti chi propone analisi razionali di recupero della democrazia sociale!
2. E' chiaro che chi si identifica, a livello di base, con queste ormai consolidate pulsioni e se ne sente rappresentato/a, soffre della stessa dissonanza cognitiva che abbiamo qui più volte illustrato e che risulta figlia del combinato tra antiberlusconismo inerziale come unico punto autolegittimante identitario e internazionalismo antisovranista, avulso da ogni comprensione effettiva della radice del fenomeno.
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Welfare, spesa pubblica, pensioni e crescita
Inganno senza fine
di Quarantotto
1. Dunque, secondo Eurostat, l'Istat dell'Unione europea, l'Italia ha una delle più basse spese pubbliche pro-capite in €uropa. Capirete, dunque, che un paese che si trovi a "dover" riprendere a crescere per poter far quadrare i conti, - cioè, in soldoni, a dover avere un PIL finalmente in crescita (dopo tre anni consecutivi di recessione indotta da manovre fiscali) per garantirsi un gettito crescente e rispettare i limiti di deficit strutturale di medio termine (flessibilizzati dall'UEM)- non "dovrebbe" procedere a tagli della spesa pubblica.
Neppure per garantire un'attenuazione della pressione fiscale che, peraltro, è proclamata a voce...ma non risponde alle attuali indicazioni del DEF.
Come potere vedere qui, effettuati corretti ed elementari calcoli sul rapporto tra PIL e entrate dello Stato (che, a onor del vero, non includono soltanto quelle tributarie, sebbene le privatizzazioni tendano a intaccare notevolmente le altre voci di entrate, in specie da dividendi):
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PRIORITA’ USA AD HAITI: BLOCCO AERONAVALE E OCCUPAZIONE MILITARE PER IMPEDIRE L’ESODO VERSO LA FLORIDA
di Lucio Manisco
Incapacità degli Stati Uniti d’America di gestire l’assistenza umanitaria ad Haiti? A questo interrogativo si rifanno le critiche mosse dai mass media al governo di Washington per il caos del dopo terremoto che in due settimane ha aggiunto qualche decina di migliaia di morti ai 200.000 del sisma.
I fatti, non le opinioni, dimostrano che le priorità degli Stati Uniti sono ben diverse, sacrificano anche se non azzerano gli intenti umanitari e si articolano su una mobilitazione di mezzi bellici senza precedenti in tempi di pace.
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Paul Sweezy, “La teoria dello sviluppo capitalistico”
di Alessandro Visalli
Il libro di Paul Sweezy è una esposizione elementare della teoria marxiana edita per la prima volta nel 1942 e che qui si legge nella edizione introdotta da Claudio Napoleoni per la Boringheri (la prima edizione era di Einaudi) che omette solo la parte sull’imperialismo. Del resto, come bene dice Napoleoni, sul tema del capitalismo monopolistico e dell’imperialismo l’autore, con Paul Baran, tornerà durante tutti gli anni cinquanta e sessanta.
Il testo curato da Napoleoni include anche numerosi contributi successivi alla “teoria del valore” ed in particolare ad uno dei punti sui quali Sweezy si sofferma di più: il problema della trasformazione in prezzi del valore-lavoro incorporato nelle merci (ma da “realizzare” nella circolazione). In merito sono presenti i contributi di Dobb, Winterniz, Seton e Meek. L’economista italiano nel suo commento valorizza lo schema proposto da Sraffa, per il quale è necessario, al fine di impostare la trasformazione, conoscere anche il modo in cui ogni merce include i diversi input di lavoro (esempio per l’intervento delle macchine, o dell’istruzione dei lavoratori) e la loro relativa distribuzione nel tempo al quale sono stati rilasciati, uno per uno. Resta il fatto che mentre all’origine di ogni produzione c’è sempre il lavoro (tutto dipende dal lavoro dell’uomo sulla natura), per il marxismo questo si annulla, viene sussunto, in un altro da sé, costituendo il ‘capitale’ che è ciò in cui si trasferisce la forza produttiva. Ne deriva che ciò che è in realtà produttivo non è il lavoro, ma il capitale.
Il secondo tema messo in evidenza da Napoleoni nel testo è il trattamento delle crisi produttive, sul quale sono descritte (e rigettate) le critiche di Bohm-Bowerk e Pareto, ma anche di Lange e Samuelson. Sweezy farebbe, in tal caso, una distinzione troppo netta tra tre generi di crisi presenti nel testo marxiano: “crisi da caduta del saggio di profitto”, crisi da “sproporzioni” e crisi da “sottoconsumo”.
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Una scommessa politica
Benedetto Vecchi
La coerenza è un elemento che va sicuramente incoraggiato in un presente opaco e segnato da repentini cambiamenti del punto di vista di chi lo interroga criticamente. Talvolta, però, la coerenza induce a semplificazioni e a riprodurre pregiudizi che poco fanno comprendere l'analisi critica che viene proposta. È questo il caso di Carlo Formenti nel testo pubblicato su queste pagine qualche giorno fa relativo all'analisi del libro La Rete. Dall'utopia al mercato di chi scrive, pubblicato da manifestolibri. Esprimo l'imbarazzo che anima questa risposta, perché quando si scrive un testo ci si espone all'analisi di chi lo legge. La critica, anche feroce, fa parte delle modalità di comunicazione dentro la sfera pubblica.
È il rischio e, cosa più importante, funzione propria della discussione pubblica far emergere punti di vista tra loro diversi e conflittuali tra loro. Carlo Formenti manifesta il fatto che il libro lo ha letto con attenzione. Di questo non posso che essere contento, indipendentemente dalla critiche dure espresse senza le odiose e talvolta ipocrite cerimonie del bon ton: i suoi argomenti vanno al di là del libro e investono il tema, caro ad entrambi, dello sviluppo di un punto di vista adeguato alla critica del capitalismo contemporaneo, dopo il lungo inverno della controrivoluzione neoliberista e della crisi radicale che ha investito i rapporti sociali emersi da quella controrivoluzione. Per questo penso che una risposta alla sue critiche possa essere espressa.
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