La fine della modernità. Logiche della dipendenza e dei sistemi-mondo
di Alessandro Visalli
La centralità militare, tecnologica e della formazione del capitale[1] nell'Occidente collettivo ha avuto un inizio con l'aggiramento spagnolo del blocco turco e la distruzione delle americhe e sta giungendo dopo cinque secoli a fine. La dipendenza e assorbimento dei capitali periferici, e l'intero sistema morale, ideologico e sociale che vi è stato costruito sopra (la stessa coppia Occidente/Oriente che lo organizza) è presentata davanti agli occhi del mondo e rigettata ogni giorno di più. Il Re è ormai nudo, per questo ruggisce di rabbia come si vede a Kiev come a Gaza.
Utilizzerò Dussel[2] per cominciare il cammino in un labirinto con molti ingressi ma nessuna uscita. Una protesta di noi figli verso la vecchia madre[3], necessaria per farci adulti. Di noi moderni verso il retaggio che ci ha fatti e che scopriamo, ogni giorno di più, grondante e polveroso a un tempo. Inoltre, figlie degli antichi padri, sia anche chiaro, di quel Cortez la cui lucida armatura nascondeva un cervello senza cuore. Ma il dominio dell’Occidente è entrambe le cose allo stesso tempo: il volto aggrottato di un Padre autoritario, pronto a punire, e il dolce sorriso astuto di una Madre possessiva che trattiene nel suo grembo della quale non si può mai essere degni. Noi figli e figlie dobbiamo finalmente vederlo, se vogliamo liberarci e contribuire, finalmente, a rilasciare gli ostaggi. D’altra parte, questi ormai sono capaci di farlo da sé. Resta solo di augurare buona vita al nuovo mondo multipolare.
Se, però, qualunque cosa noi proveremo il Mondo alla fine farà da sé, e noi non siamo i maestri di nessuno per dire come deve fare, ci resta il compito di capire, vagliare e superare il nostro retaggio. Da noi e per noi.
La modernità ha molti avvii[4], ma quasi tutti sono connessi con un ciclopico evento geopolitico: l’aggiramento della centralità (e del blocco) mediterraneo. Quel mare abitato da cretesi e fenici, sbocco di egiziani e delle grandi civiltà persiane, frequentato dai greci e conteso da Cartagine e Roma, testimone del turbine arabo e poi del dominio della Sublime Porta, quindi di veneziani e genovesi. Un mare periferico, si intenda, sbocco occidentale del grande centro geopolitico dato dal mondo di lingua Farsi (dall’Afganistan agli Emirati Arabi passando, ovviamente, per la Persia), e poi indiano e cinese (da Occidente a Oriente). Troppe sono le nostre dimenticanze selettive, dalle relazioni del mondo greco classico con i maestri egiziani, e di questi con le civiltà ancora più antiche con le quali dialogavano e combattevano, alla centralità di Bisanzio, poi dell’impero-mondo mongolo, la non irrilevante presenza africana, l’impero del Ghana, poi del Mali e, dal 1468 del Songhai, ad esempio.
Fino all’aggiramento prodotto dai sovrani spagnoli e portoghesi l’Europa germanica e latina aveva due blocchi in successione a separarli dai luoghi più ricchi del mondo (l’India e la Cina): il mondo arabo e turco, e il retrostante mondo persiano. Restava solo la possibilità di aggirarlo verso Est, o verso Sud. Dal secolo XIV fu aperta quindi la via verso Occidente.
Da allora l’Europa si può pensare come centro.
Gruzinski, in un meraviglioso libro[5], racconta questa storia molto da vicino. Scopriamo che l’universo dei mexica venne trascritto[6] in quello dominante per opera delle sue stesse élite, ma assorbendone le categorie di spazio e tempo che ne costituiscono l’essenza[7]. Insieme a queste, e all’uso strategico-militare (e diplomatico) delle stesse nuove storiografie, già con l’abile Cortez, i popoli amerindi furono sospinti a considerare il loro passato pre-ispanico come colpa e arretratezza. Assorbendo, (naturalmente per il superiore bene delle loro anime immortali), religione, valori, istituzioni, gerarchie, e, forse più di tutto ciò che con esse è portato: forme di organizzazione del lavoro e il concetto dell’umano come strumento.
Il diventare ‘occidentale’ e ‘moderno’ del mondo è passato, insomma, per armi e cacciatori di schiavi, come per navi e porti, piantagioni come prime fabbriche e miniere grandi come metropoli, persino batteri e malattie, ma anche per la pretesa di ‘essere’ e necessariamente di designare come ‘non essere’ l’altro. Di ridurre tutti gli spazi a vuoto, tutti i tempi a passato[8]. È passato per la creazione dell’Oriente[9]; la designazione di ogni universo ‘altro’ a spazio tributario, sia periferico sia esotico. Si possono leggere in proposito le indignate pagine di Dussel, su Kant e soprattutto Hegel, in L’occultamento dell’’altro’[10]. Il diventare ‘occidente’ del mondo è proiettare il mito che immagina lo ‘sviluppo’ come modello unico, quello seguito dall’Europa (o meglio, quello fantasticato per l’Europa, dimenticandone le radici). È porre un “movimento necessario dell’Essere” che conduce l’umanità fuori dallo “stato di immaturità che è da imputare a se stesso”[11], e che in Hegel diventa l’automovimento dello Spirito Assoluto nella Storia che si svolge “da Oriente a Occidente”[12]. Storia che è in sé lo “sviluppo dello spirito pensante”, la ragione (ovvero la saggezza di Dio[13]) all’opera. Ciò che Hegel esprime in modo chiarissimo è che se la “storia è la configurazione dello spirito in forma di avvenimento”, e questo elemento è ricevuto dal popolo germanico, allora “di contro al diritto assoluto che egli possiede per essere il portatore attuale del grado di sviluppo dello Spirito Mondiale, lo spirito degli altri popoli non ha diritto alcuno”[14].
La “modernità” ha, insomma, una lunga storia, profonde radici, ma vede la luce quando la periferica Europa si fa mondo e si confronta da vicino con l’altro da sé[15]. Tuttavia, negandolo come “altro”.
Scrive Dussel:
“la ‘conquista’ è un processo militare, pratico, violento che comprende dialetticamente l’Altro come parte di ‘Se Stesso’. L’Altro nella sua distinzione è negato come altro ed è costretto, una volta sottomesso e alienato, a far parte della Totalità dominatrice come cosa, come strumento, come oppresso, come encomendado, come ‘salariato’ nelle future aziende o come africano schiavo negli stabilimenti di zucchero o di altri prodotti tropicali”[16].
Quando, terminata la ‘reconquista’ (che è anche un laboratorio) il mondo spagnolo diviene a sua volta conquistatore e colonizzatore, e insieme a flussi immensi di merci, oro, argento e schiavi, porta al continente una nuova coscienza. Quella di aver esteso i confini dell’essere a tutto il mondo. Ci vorranno altri secoli e altre conquiste (tra le quali, capitale, quella dell’India), ma il gesto è posto e sarà sempre ripetuto. L’io europeo, e quindi Occidentale, viene divinizzato e trasfigurato nell’intera tradizione della cultura e filosofia, in un “Io” incondizionato, indeterminato, infinito e assoluto[17], mentre l’Altro è ridotto a essere semplicemente pensato, ridotto a cosa, privato di parola (che, quando buca il silenzio è invariabilmente inudibile, mostruosa, retrograda, illiberale, dispotica, in una parola, “Orientale”). Viene trasfigurato anche nella teologia, quando salvezza e redenzione sono reinterpretati, nel protestantesimo, come esperienza individuale e “spiritualistica, interioristica, disincarnata”[18].
Viviamo nel momento terminale di questo gesto.
Come leggere la crisi terminale che vediamo con le lenti della teoria dei sistemi-mondo[19]? Poniamo alcuni termini, in forma di enunciati-chiave:
- Ad alto livello di astrazione nel tempo si sono succeduti cicli di accumulazione e di egemonia, spesso intervallati da crisi. In questo processo, a un certo tempo e nel corso di diverse successioni egemoniche, si è formata la centralità nella vita di quello che chiamiamo il modo di produzione capitalista,
- ‘Capitalismo’ non è sinonimo di ‘industrialismo’, neppure di ‘modernità’, è quella forma sociale nella quale si genera l’automovimento del ‘capitale’,
- ‘capitale’ non significa ricchezza, questa c’è sempre stata, è piuttosto il movimento che determina il sacrificio della vita al valore astratto, al valore per il valore, automatico, impersonale, silenzioso e totalitario,
- Nel ‘capitalismo’ tutto è feticcio di questo movimento, informato dal suo spirito dietro le spalle, prigioniero della sua logica, del suo simbolismo,
- Il capitalismo è una suprema esperienza religiosa, nella quale l’intera esistenza diviene pregna di senso ed esterna a sé stessa a un tempo, nella quale viene sacrificata,
- Al contempo, il capitalismo genera sempre una dialettica spaziale che è internamente connessa con le differenze e le relative lotte, attraverso il movimento e il potere della trasformazione della ‘vita’ in ‘valore’, esso è anche connessione ed eccedenza, ricerca costante di nuovi sbocchi per sfuggire alla riduzione dei margini, ovvero della valorizzazione,
- connessione ed eccedenza, implicano interdipendenze strutturate e gerarchiche, implicano dipendenze,
- è quindi la geopolitica del capitalismo, per il movimento interno della sua stessa logica, a creare costantemente e necessariamente economie subalterne e sistemi incompleti (attraversati da alleanze di classe estese internazionalmente e subalternità locale), è questa a creare costantemente colonialismo (esterno e interno) e imperialismo,
- la ricerca di soluzioni spaziali ai problemi generati nel tempo del ciclo di valorizzazione è il motore della competizione a scala globale che è costantemente sull’orlo della violenza,
- lo scontro tra aree centrali e dipendenze coloniali e semi coloniali non è morale, o di ‘civiltà’, è una necessità di sistema.
Questo è il senso più profondo della formula di Rosa Luxemburg, ‘Socialismo o barbarie!’[20].