Social media, realismo capitalista e post-fascismo
di Alberto Remonato
1. Esternalizzazione dell’intrattenimento
Nella raccolta di frammenti pubblicata postuma col titolo Pensieri, Pascal scrive che gli uomini non avendo potuto rimediare alla morte, alla miseria, all’ignoranza, hanno risolto, per vivere felici, di non pensarci[1]. Aggiunge che questa funzione del non-pensare è delegata al divertissement:
La sola cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertissement, che pure è la nostra più grande miseria. Infatti proprio questo, principalmente, c’impedisce di pensare a noi stessi e ci porta inavvertitamente alla distruzione. Senza di questo saremmo nel tedio, e il tedio ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Invece la distrazione ci diverte e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte[2].
L’intrattenimento, dunque, ‹‹ci porta a perderci››, a fuggire, ad alienarci da noi stessi, dagli altri, dal tempo. L’essere umano, per paura delle ‹‹proprie miserie››, rimuove la coscienza dalla propria condizione e della propria mortalità.
Nella nostra contemporaneità la funzione dell’intrattenimento è stata completamente esternalizzata. Il compito di produrre divertissement viene gestito integralmente da quella che Adorno e Horkheimer chiamano ‹‹industria culturale››, i cui prodotti appunto, ci consolano dalle nostre miserie e costituiscono la più grande delle nostre miserie; detto altrimenti: ‹‹il piacere del divertimento promuove la rassegnazione che vorrebbe dimenticarsi in esso››[3].
Come sapeva Platone, non può esserci pensiero senza eros. In una società del desiderio esausto, in cui le passioni sono sostituite da impulsi da assecondare in una coazione ossessiva e soffocante – ciò che Mark Fisher chiama ‹‹edonia depressa››, ossia ‹‹l’incapacità di non seguire altro che il desiderio››[4] – il pensiero non può costituirsi. Ne consegue l’impossibilità di immaginare un mondo altro e, dunque, il bisogno della sua messa in forma, appunto il racconto di un’alternativa. Un secolo fa Walter Benjamin osservava che ‹‹la capacità di scambiare esperienze››[5] volgeva al tramonto; oggi quel tramonto è compiuto trascinando con sé l’attesa di una nuova alba.
Il narrare è la forma naturale dell’intrattenimento. Rilevanti studi antropologici mostrano che scambiarsi esperienze avrebbe permesso di ottenere informazioni sugli individui permettendo di ampliare le relazioni, e quindi di rendere più sofisticata e complessa una comunità: la narrazione è, in una prospettiva antropologica, l’ingranaggio che ha permesso il passaggio da bande di ominidi a società complesse. Oggi intrattenersi senza l’utilizzo di altri medium risulta estremamente dispendioso. Non è un caso che in una società in cui l’incapacità di narrare – di proporre ‹‹un’altra storia›› – è divenuto il nuovo standard, sia proprio quella in cui emerge una diffusa solitudine sociale. Analogamente, non sorprende che in quest’incapacità di creare e condividere esperienze, si sia interiorizzato lo slogan thatcheriano ‹‹There is no alternative››, emblema del ‹‹realismo capitalista››.
Riprendendo Pascal, è dalla noia, dallo spazio non saturo, uno spazio bianco, che può nascere un’alternativa. Come scrive Rosa, per sviluppare qualcosa di altro occorre:
una quantità considerevole di risorse di tempo ‹‹libere›› o comunque abbondanti, che permettano di giocare, annoiarsi e starsene a oziare, perdere tempo o in ogni caso impiegarlo apparentemente male[6].
2. Social Media come condizione del realismo capitalista e dell’ascesa del post-fascismo
L’analisi che qui proponiamo invita a intendere i social media non già come strumenti comunicativi neutri, bensì come un a-posteriori trascendentale[7] che contribuisce a rafforzare due processi profondamente interrelati: 1. La naturalizzazione del capitalismo e l’interiorizzazione della sua presunta necessità («there is no alternative»); 2. L’ascesa del post-fascismo.
Questa doppia dinamica non è contraddittoria; al contrario, si rinsalda reciprocamente. Il realismo capitalista genera un vuoto immaginativo e discorsivo che le destre radicali colmano con miti reazionari e soluzioni-feticcio, offuscando i veri antagonismi sociali, trasformando la politica in lotta identitaria, e conquistando, come nota Enzo Traverso, ‹‹una sorta di monopolio della critica al ‹‹sistema››, senza neanche aver bisogno di mostrarsi sovversive […] né di entrare in competizione con la sinistra neoliberale››[8].
Uno studio più approfondito delle interconnessioni tra realismo capitalista, post-fascismo e social media è già stato presentato[9]; in questa sede ci limiteremo a offrirne una sintesi.
Un fenomeno a doppio risvolto è l’iper-modulazione, concetto con cui Dominic Pettman intende quel processo di frazionamento dell’attenzione in micro-attimi personalizzati col fine di mantenere l’utente sulla piattaforma, con l’esito di a-sincronizzazione rispetto alla collettività. Ciò rende impossibile un télos politico condiviso. In altri termini, l’iper-modulazione impedisce la creazione di un pensiero filosofico e politico coerente, minando alle radici movimenti di opposizione. L’intrattenimento, volenti o nolenti, si rivela così in sinergia con il realismo capitalista. Proprio l’iper-modulazione, impedendo di auto-percepirsi come membri di una classe, favorisce la formazione di identità-feticcio, mistificando così l’identità a scapito degli antagonismi strutturali[10]. Il che fa sistema con un altro fenomeno esacerbato dall’avvento dei social media: ‹‹cavernizzazione dell’io››: l’ipertrofizzazione dell’io è una regressione introspettiva del soggetto. La riduzione del mondo a ciò che ‹‹mi piace›› porta con sé l’esclusione dell’altro. Se l’illuminismo rappresentava l’uscita dallo stato di minorità, oggi scopriamo che questa minorità in qualche modo ci piace, ci rassicura (è il passaggio dell’ideologia da sintomo a feticcio). Ecco che frammentazione e misconoscimento della realtà traumatica dell’esistente, offrono un terreno fertile per il post-fascismo, che più che presentarsi come un insieme politico, si propone come una ‹‹storia›› da raccontare, ciò che definirei ‹‹comunità ergonomica››. Con la sua capacità mitopoietica, il post-fascismo offre una mappa cognitiva meno faticosa, che non richiede di essere capita. In ultima analisi, il post-fascismo è narrativamente più interessante: il soggetto postmoderno si nutre della sua paccottiglia simbolica, di questa ‹‹pappa omogeneizzata››[11], proprio perché non gli è richiesto nessuno sforzo.
Una collettività è tanto più solida quanto i confini sono chiari tra Amico e Nemico, per riprendere la distinzione di Carl Schmitt. Se, nell’epoca cui i rapporti di classe diventano il grande rimosso della Western way of life[12], ecco che la Sinistra non ha nulla su cui fondare la propria politica, essa è destinata a rimanere priva di télos.
3. Iper-modulazione e la cancellazione del futuro
Come si è detto, l’iper-modulazione è la frammentazione attentiva in micro-attimi. Ciò non significa che l’attenzione in quanto tale diminuisca, ma subisce un processo di sovra-consumo informatico, una comminuzione mediatica che genera una medesima disposizione percettiva verso qualsiasi oggetto indipendentemente dal suo contenuto semantico. Ne deriva una equivalenza degli eventi: in un coacervo di episodi percepiti nello scorrere il feed di un qualsiasi social media (in pochi minuti passiamo da una video che mostra Gaza in macerie a un veneto che utilizza palliativi linguistici eterodossi, ecc.), ogni evento perde la sua singolarità: tutto è collocato sullo stesso piano di fruizione. La depauperazione del significato di un evento è perciò il prodotto di questa modalità di fruizione.
Uno dei corollari di tale equivalenza degli eventi è l’incapacità di riconoscere e valutare il nuovo in quanto tale. La carica sovversiva, detronizzante o puramente critica di un contenuto, viene recepita come semplice novità, mero espediente per aumentarne l’attrattiva. In altri termini, l’effetto di questo coacervo di contenuti consiste nella privazione del soggetto delle proprie coordinate temporali e spaziali. La saturazione mediatica impedisce di concepire un ‹‹prima›› e un ‹‹dopo››, un ‹‹uguale›› e un ‹‹diverso››: non esiste né passato né un futuro: siamo gettati in un eterno presente che ha smarrito le categorie di davanti e dietro, di progresso e arretratezza.
Si tratta di un particolare presentismo, di un presente saturo di sé stesso, che non fa altro che cementificare l’ordine vigente. Detto brutalmente, l’effetto di questo presente iper-esteso induce a vivere il capitalismo come fine della storia. L’iper-estensione del presente, e quindi la mancanza dell’autopercezione come soggetti storici, conduce alla cancellazione del futuro, e al ritorno del passato sotto forma di mito.
In questa estensione indefinita dell’hic et nunc, viene meno la possibilità di individuare segmenti di spazio e di tempo discreti. Non esiste alternativa significa proprio questo: il soggetto postmoderno, gettato in un’attualità totalizzante, è impossibilitato a troncare il legame che ha con il presente, a trascenderlo, poiché tutto è già-sempre qui e ora. Da ciò si spiega non soltanto, come osserva Bauman, l’impossibilità di un’avanguardia nella postmodernità[13], ma soprattutto, una prospezione del futuro, ormai cancellato e sostituito da un iper-esteso presente. In conclusione, si può paradossalmente affermare che i social network costituiscono la massima realizzazione della celebre esortazione oraziane: ‹‹carpe diem quam minimum credula postero››.
L’iper-modulazione può essere altresì intesa come l’apoteosi del processo di elevazione del ‹‹privato››, della riduzione dell’orizzonte del desiderio al puro Io. Il desiderio cioè perde ogni sua dimensione condivisa, inter-soggettiva, schiacciandosi ad un’intra-soggettività solipsistica. Correlativamente, privato di ogni riconoscimento esterno, il soggetto si spinge inevitabilmente alla sua ricerca perversa. Ogni tentativo di risonanza viene allora compensato attraverso strategie succedanee volte ad accrescere la visibilità della propria immagine nello spazio dei social network o alla partecipazione a comunità ergonomiche prive di un vero e proprio rito iniziatico che non sia il semplice follow.
Come ogni materialista storico sa, la coscienza di classe è un fenomeno di auto-coscienza collettiva che si veicola nel singolo, il quale dialetticamente si riconosce partecipe di una classe. Ma senza (coscienza di) classe, in quanto relazione dialettica, il singolo permane individuo e non può agire nella prassi. Ne deriva l’incapacità dell’individuo postmoderno di farsi non soltanto soggetto per la libertà, ma, soprattutto, predicato della lotta per l’emancipazione. La verticalizzazione dell’Io produce una ‹‹concentrazione dell’esperienza in un sentire egocentrico puntuale necessario intensivo, in cui il soggetto tanto guadagna in attualità di sé, quanto perde in capacità di distendere la propria esperienza e di vedere il mondo, cioè anzitutto sé stesso in relazione ad altri››[14].
Di conseguenza, reso impraticabile lo sviluppo di una coscienza di classe nello spazio ipermodulato dei social media, diviene irrealizzabile una trasformazione profonda dal basso (benché non dall’alto). L’attuale configurazione dei social media produce infatti l’alienazione dalla coscienza di essere entità sociali:
Il capitalismo disconnette: presuppone una vita interiore fatta di segmenti eterogeni che non convivono o che si succedono a brevissima distanza, senza che questo sia un problema; presuppone quella blanda schizofrenia di cui ogni occidentale del XXI secolo fa esperienza ogni giorno, e che rappresenta l’equivalente psichico del consumo in quanto forma di vita e modo di essere nel mondo[15].
Disconnessione, schizofrenia e consumo si intrecciano così in un flusso fatto di intensità, di picchi di godimento momentanei che si esauriscono e si rinnovano ininterrottamente, rendendo materialmente possibile agli individui riconoscersi come enti partecipi ad una inter-soggettività. Parafrasando Mike Watson, non si tratta del fatto che un dialogo politico coerente sia difficile attraverso i social media: è impossibile in gran parte a causa dei social media[16], giacché ‹‹La velocità con cui le piattaforme Internet aggiornano le informazioni per mantenere l’attenzione degli utenti è di per sé sufficiente a scoraggiare il pensiero lineare o la riflessione››[17]. L’‹‹elevato turnover della produzione e della ricezione››[18] dei prodotti culturali impedisce, da un lato, la formazione di uno spazio collettivo, e dall’altro dissolve la percezione discreta del mondo in un eterno presente.
[1] Blaise Pascal, Pensieri (1670), trad. it. di C. Carena, Einaudi, Torino 2004, p. 105.
[2] B. Pascal, cit., p. 19.
[3] Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo (1947), trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2010, p.151.
[4] Mark Fisher, cit., p.59.
[5] Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov (1936), in Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, 2014, p. 247.
[6] H. Rosa, cit., p. 83
[7] Si tratta di una condizione di possibilità retroattiva e storica, ossia di una condizione materiale che, innestandosi in processi storici preesistenti, spinge tali processi alla loro estremizzazione, rendendoli, se non necessari e inevitabili, quantomeno difficilmente alterabili.
[8] Enzo Traverso, Le metamorfosi delle destre radicale nel XXI secolo (2015), trad. it. di A. Garbarino, Feltrinelli, Milano 2019, p. 16.
[9] Alberto Remonato, Il fascismo dell’intrattenimento. Social media, realismo capitalista e post-fascismo (Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari Venezia) 2025.
[10] Cfr. Mimmo Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo, nottetempo, Milano 2024.
[11] Furio Jesi, Cultura di destra, nottempo, Milano 2025, p. 285.
[12] G. Mazzoni, cit., 2015, p. 98.
[13] Zygmunt Bauman, La postmodernità, o dell’impossibilità di un’avanguardia, in Il disagio della postmodernità (1997), trad. it. di V. Verdiani, Mondadori, Milano 2002, p. 106.
[14] Francesco Botturi, La generazione del Bene. Gratuità ed esperienza morale, Vita e Pensiero, Milano 2009, p. 211.
[15] G. Mazzoni, cit., 2015, p.78.
[16] Mike Watson, cit., 2024, p. 38.
[17] Ibidem.
[18] Ivi, p. 78.
Comments
Il neoliberalismo fascista si era già affermato e consolidato in precedenza, così come la rimozione di ogni categoria marxiana e del riferimento alla consapevolezza ideologica della guerra di classe. Per quanto riguarda il propagandismo e la mistificazione, secondo finalità di cementificazione dell’ordine capitalistico, erano già una specialità dei media e giornali tradizionali rigorosamente controllati dalla classe dominante, come per esempio constatò F. Fortini, quando scrisse ottanta righe su cosa fosse il comunismo per un supplemento satirico, ultima opzione rimasta per pubblicare, in assenza di internet all'epoca.
La sinistra, più che diventare vittima del rimosso dei rapporti di classe, si adeguò alla promozione del neoliberalismo fascista e questa sarebbe ancora un’altra storia sul “vuoto immaginativo e discorsivo” generato dal “realismo capitalista” e dalla “iper-modulazione”.