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kamomodena

Il laboratorio della guerra

Tracce per un’inchiesta sull’università dentro la «fabbrica della guerra» di Modena

di Kamo

aggiungi piu circuiti 1.jpg0. Un’ipotesi a premessa

Rita Cucchiara è la nuova rettrice dell’Unimore. Prima donna ad assumere questo ruolo nella storia dell’Università di Modena e Reggio, è stata eletta a giugno 2025 al ballottaggio contro Tommaso Fabbri, con un corpo accademico votante spaccato in due.

Come gruppo di inchiesta universitario, è indicativo per il nostro discorso lo spostamento dei rapporti di forza, di bilanciamento e di potere interni all’istituzione Università dal dipartimento di Economia a quello di Ingegneria. Come vedremo, questo elemento può essere già inteso come indizio della direzione e del ruolo che l’istituzione università sta assumendo, in questa fase accelerata e acuta di crisi, sul nostro territorio inteso nelle sue connotazioni produttive e sociali, nel suo rapporto con lo sviluppo capitalistico a vocazione industriale e dei soggetti da esso messi al lavoro, e in relazione alle trasformazioni del contesto politico e capitalistico non solo locale, ma regionale, nazionale ed europeo, dentro la crisi globale che si fa stato di guerra.

La figura della nuova rettrice sta lì a esprimere questa fase di cruciale trasformazione. Partiamo da qui, cominciando a tracciare qualche punto d’inchiesta sull’università come «laboratorio della guerra», da ampliare, mettere a verifica e agire in senso militante, con punto di vista di parte.

 

1. La nuova rettrice: Rita Cucchiara

Ordinaria di ingegneria informatica e direttrice di numerosi laboratori di ricerca sull’intelligenza artificiale, Rita Cucchiara viene descritta dai giornali come il volto delle donne nelle STEM italiane, con un curriculum accademico invidiabile.

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Keir Starmer, il tracollo

di Erica Orsini

In soli 12 mesi il primo ministro britannico è passato dal trionfo alla débâcle. Intanto, Corbyn torna alla ribalta

Rage Flower Thrower Banksy 2003 Palestina 01A un anno dalla sua elezione, il premier Starmer è travolto da una crisi senza precedenti. Mentre l’ex leader laburista Jeremy Corbyn lancia una nuova iniziativa politica che in 48 ore raccoglie oltre 400.000 adesioni, Starmer rischia di perdere il controllo del Paese e del suo stesso partito. Tra errori politici, spaccature interne e difficoltà nella gestione delle emergenze, appare sempre più isolato e distante dalle promesse di cambiamento. A complicare il quadro, la sua controversa gestione della crisi israelo-palestinese. Ritratto senza veli del primo ministro britannico, scritto dalla giornalista Erica Orsini, che ha vissuto metà della vita a Londra e ha da poco pubblicato il libro «Noi e loro».

* * * *

Il 23%: è questa, al luglio 2025, a un anno dalla sua salita al potere, la percentuale di consensi tra i britannici per il premier laburista Keir Starmer. Secondo YouGo, si tratta del peggior risultato rilevato nello stesso mese tra il luglio 2021 e il maggio 2025.

Un collasso verticale, che non si è verificato per nessuno degli altri leader politici inglesi attuali, neppure per la conservatrice Kemi Badenoch, la leader dell’opposizione che pure non è particolarmente gradita agli elettori. A metà del 2024, in piena campagna elettorale, il 51% aveva un’opinione positiva del candidato Starmer, contro il 44%, ora a pensarla così sono rimasti meno della metà.

Al giro di boa del suo primo anno al potere, nel Regno Unito non c’era un quotidiano o un’emittente televisiva che non fotografasse un primo ministro in caduta libera, travolto da un’ondata d’impopolarità clamorosa, impegnato a tenere a bada sia un’opinione pubblica fortemente delusa nelle aspettative sia un forte dissenso interno.

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clarissa

Il potere di Israele

di Gaetano Colonna

La domanda, che dovrebbe sorgere spontanea, assistendo a quello che avviene nella Striscia di Gaza da molti mesi, è per quale ragione le autorità politiche dei Paesi europei non intervengano in maniera ferma nei confronti della politica di eliminazione fisica dei Palestinesi adottata con ogni evidenza dallo Stato di Israele: nonostante il fatto che quegli stessi Paesi, nelle loro ben costruite costituzioni, abbiamo scolpito nero su bianco i più alti principi umanitari

chiacchierata e1753618357571.jpgGruppi di pressione di Israele in Europa

La risposta a questa domanda, che il cosiddetto uomo della strada si pone ogni giorno ascoltando i telegiornali, ma che assai pochi politici e giornalisti osano formulare pubblicamente, è in realtà molto semplice. Basta approfondire quanto lo Stato di Israele è riuscito a costruire in decenni di abile strategia politica anche in Europa, sviluppando le fruttuose strategie già da tempo messe in atto in Gran Bretagna prima e poi negli Stati Uniti d’America.

Ci riferiamo alla creazione di quei gruppi di pressione, che nel mondo anglosassone sono chiamati lobby, il cui scopo, apertamente dichiarato e consentito dalla legge, è di esercitare un’influenza sulle istituzioni delle democrazie parlamentari occidentali, attraverso l’indottrinamento dei cosiddetti rappresentanti del popolo.

L’efficacia dell’influenza di queste lobby, da tempo riconosciuta dalla storiografia anglosassone per quanto riguarda il mondo britannico e statunitense, è ora altrettanto ben funzionante in Europa.

Una delle principali lobby che sostengono la politica dello Stato di Israele, particolarmente attiva nell’ambito delle istituzioni dell’Unione Europea, è lo AJC Transatlantic Institute, dipendente, anche finanziariamente, dalla più autorevole fra le lobby ebraiche statunitensi, lo storico American Jewish Committee (AJC).

Il lettore non deve pensare a nulla di complottistico, in quanto il TAI è ufficialmente iscritto nel registro delle lobby di Bruxelles, e dispone di discrete disponibilità economiche che si aggirano intorno ai 700mila euro annui. Come accennato, queste risorse dovrebbero provenire dallo AJC, che ha messo a disposizione in un anno 3,5 mln di dollari per attività di questo tipo in Europa, raggiungendo complessivamente, a partire dal 2005, anno di apertura dell’ufficio di Bruxelles, i 47 mln di dollari: cifra realistica questa, tenendo presente che lo AJC dispone, oltre ad un patrimonio di 250 mln di dollari, di entrate annue per 80 mln di dollari annui, provenienti da fondi donati da esponenti del mondo ebraico americano e internazionale.

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comedonchisciotte.org

Come smentire la propaganda israeliana in tempi di genocidio

di Paul de Rooij, unz.com

starving Gazans.jpgViviamo in tempi interessanti ma difficili. È evidente che i miti stiano cadendo e che le narrazioni consolidate da tempo si dissolvano quando vengono esposte alla dura e sanguinosa realtà.

In nessun altro ambito ciò è più evidente che nei miti che hanno sostenuto Israele per molti decenni.

Israele è stato dipinto come un piccolo paese fragile ma resiliente che vive in un “quartiere difficile”. Tuttavia, ora, date le incessanti guerre di Israele, gran parte di questa mitologia viene abbandonata; non è più necessaria quando l’arroganza, l’orgoglio e il sadismo guidano l’ethos israeliano. L’immagine del piccolo Davide sta cedendo il posto a quella di una creatura vendicativa e genocida, con un pizzico di Antico Testamento…

Di seguito è riportata una discussione su alcuni dei miti che stanno crollando. I miti sono costruiti su narrazioni che a loro volta sono costruite su parole descrittive. Gran parte della discussione verte sul chiarire la natura ingannevole delle parole, che a sua volta smaschererà le false narrazioni.

 

Una vera canaglia

L’esercito è venerato in Israele e si fa molto per glorificare i militari; ci sono festival con cantanti, palloncini e pompon blu e bianchi in abbondanza[1]. Le ragazze ebree americane vanno in visibilio quando incontrano i soldati abbronzati e sorridenti. Naturalmente, se si glorifica l’esercito, allora tutte le unità non possono che essere “d’élite”; anche al soldato più umile viene dato il grado di sergente; e naturalmente devono essere “i più morali” del mondo. È anche noto con il suo acronimo incongruo: IDF.

Contrastate l’immagine affascinante dell’esercito israeliano con le sue azioni a Gaza, in Cisgiordania e oltre. I cecchini israeliani prendono di mira i bambini, con punti extra per le donne incinte (è persino possibile acquistare una maglietta con il logo “un colpo, due morti”).

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jacobin

Il nuovo Deep State tecnologico

di Paolo Gerbaudo

Si sta formando un nuovo blocco militar-industriale-informatico, con nuove aziende come Palantir o Anduril che si sono alleate al trumpismo, e approfittano dell’economia di guerra

Deep State tecnologico jacobin italia 2048x746.jpgNegli inebrianti anni Novanta neoliberisti, il tecno-ottimismo raggiunse i suoi estremi più imbarazzanti. Intrisi del fatuo immaginario di quella che Richard Barbrook ha definito «ideologia californiana», lavoratori del settore tecnologico, imprenditori e ideologi tecno-visionari hanno identificato la tecnologia digitale con un’arma per la liberazione e l’autonomia personale. Questo strumento, proclamavano, avrebbe permesso agli individui di sconfiggere l’odiato Golia rappresentato dallo Stato, allora ampiamente individuato nei fallimentari colossi del blocco sovietico in implosione.

Per chiunque abbia una conoscenza superficiale delle origini della tecnologia digitale e della Silicon Valley, questa avrebbe dovuto essere, fin dall’inizio, una convinzione ridicola. I computer furono un prodotto degli sforzi bellici dei primi anni Quaranta, sviluppati come mezzo per decodificare messaggi militari criptati, con Alan Turing notoriamente coinvolto a Bletchley Park.

L’Eniac, o Electronic Numerical Integrator and Computer, considerato il primo computer multiuso utilizzato negli Stati uniti, fu sviluppato per compiere calcoli applicati all’artiglieria e per supportare lo sviluppo della bomba all’idrogeno. Come sosteneva notoriamente G.W. F. Hegel, la guerra è lo Stato nella sua forma più brutale: l’attività in cui la forza dello Stato viene messa alla prova contro quella di altri Stati. Le tecnologie dell’informazione sono diventate sempre più centrali in questa tipica attività statale.

Qualcuno potrebbe ancora credere al mito della Silicon Valley nata spontaneamente dagli hacker che saldavano circuiti nei loro garage. Ma la realtà è che non avrebbe mai preso vita senza il supporto infrastrutturale dell’apparato di difesa statunitense e dei suoi appalti pubblici, che garantiscono la redditività commerciale di molti prodotti e servizi che oggi diamo per scontati.

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lantidiplomatico

False flag rivisitate. Srebrenica-Isis, certezze o dubbi?

di Fulvio Grimaldi

McCaIN.jpgNei giorni scorsi abbiamo dovuto subire il tornado, ricorrente intorno a ogni dannato 11 luglio, del trentennale del cosiddetto massacro, per molti genocidio, di Srebrenica in Bosnia che, secondo i celebranti, sarebbe avvenuto quel giorno dell’anno 1995, a conclusione della guerra di disfacimento della Federazione jugoslava. Per inciso, nella furia di commemorare quell’evento, arricchito costantemente di nuove macabre scoperte di salme dissotterrate e da dissotterrare negli anni a venire, anche ben trent’anni dopo, neanche il più rispettabile cronista o commentatore riesce a osservare almeno un frammento della buona regola del dubbio, visto il cui prodest, o almeno dell’attenzione a versioni altre del fatto.

Che pure ci sono. E abbondanti e autorevoli, condotte con strumenti di verifica storica e scientifica. Tale è la disponibilità, tra indolenza, complicità e assoggettamento a quanto prevale nella narrazione pubblica, irrobustita da un’alluvione di immagini e testimonianze dirette, date per inoppugnabili. Ogni voce alternativa, ogni seme di dubbio, magari della dimensione di un granello di sabbia nel potentissimo ingranaggio, ha ormai assunto il carattere della blasfemia. 8000 vittime s’è detto e 8000 restano.

E’ una cifra che fa colpo. Non per nulla sarebbero 8000 anche i curdi sterminati da Saddam ad Halabja. Altro evento contestato, perfino dagli americani. Eppure, se 8000 fanno genocidio, cosa fanno i 150.000 calcolati da Harvard e Lancet a Gaza? Per Radio Radicale, 8000 sarebbero i trucidati dal regime siriano di Assad. Qualcuno ha contato 8000 vittime del Covid a Wuhan e 8000 precise sarebbero le vittime annuali dell’influenza in Italia e figuriamoci se non erano 8000 gli ebrei italiani deportati in Germania, mentre quanti pensati che siano, per Repubblica, i minori morti per incidenti stradali in Europa se non 8000? Come erano certamente 8000, prima ancora che qualcuno arrivasse munito di pallottoliere, i morti del terremoto 2016 tra le impenetrabili montagne del Nepal.

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machina

I valletti dell'Apocalisse

I governi occidentali e l'impunità di Israele

di Alberto Toscano

0e99dc fb6e25d3a4154e769b53e3765793bcbfmv2La responsabilità dei governi occidentali nel genocidio in corso a Gaza è enorme. Ciò che sta emergendo con chiarezza è il fallimento conclamato del cosiddetto «ordine internazionale liberale». Un ordine che non solo non ferma i genocidi, ma legittima e protegge la violenza sistematica di Israele, che viene per definizione considerata un atto di autodifesa. Mentre si concede carta bianca a Netanyahu, i governi dell'Occidente continuano a intrecciare proficui rapporti con il suo complesso militare-industriale.

Come ci ricorda Alberto Toscano, nel suo rapporto From Economy of Occupation to Economy of Genocide la relatrice speciale dell'Onu Francesca Albanese è esplicita: «se il genocidio non si è fermato, è anche perché è un’impresa redditizia. Rende, e rende molto».

Le lezioni della guerra in Iraq sono ancora davanti ai nostri occhi: la complicità delle élite «democratiche» occidentali producono effetti duraturi, e continueranno a farsi sentire per anni.

* * * *

Il 2 luglio, il Parlamento britannico ha votato per inserire il gruppo Palestine Action nella lista delle organizzazioni terroristiche. La decisione è arrivata dopo l’ultima azione diretta del gruppo, avvenuta il 20 giugno, quando alcuni attivisti hanno danneggiato due aerei da rifornimento in volo Voyager presso la base di Brize Norton, da cui partono regolarmente voli verso la RAF Akrotiri, la base situata a Cipro da cui sono decollati centinaia di voli di sorveglianza su Gaza. Mentre il governo britannico insiste sul fatto che le operazioni di ricognizione sono finalizzate esclusivamente alla localizzazione e al salvataggio degli ostaggi, gli attivisti sostengono che la condivisione di informazioni d’intelligence con Israele implichi la complicità del Regno Unito in crimini di guerra.

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lantidiplomatico

Trump, Epstein e il Deep State

di Chris Hedges* - Scheerpost

njgoaubugueIl rifiuto da parte dell'amministrazione Trump di rendere pubblici i documenti e i video raccolti durante le indagini sulle attività del pedofilo Jeffrey Epstein dovrebbe mettere fine all'idea assurda, abbracciata dai sostenitori di Trump e dai liberali creduloni, che Trump smantellerà il Deep State. Trump fa parte, e da tempo, della ripugnante cricca di politici – democratici e repubblicani –, miliardari e celebrità che guardano a noi, e spesso a ragazze e ragazzi minorenni, come merce da sfruttare per profitto o piacere.

L'elenco di coloro che gravitavano nell'orbita di Epstein è un vero e proprio Who's Who dei ricchi e famosi. Tra questi figurano non solo Trump, ma anche Bill Clinton, che avrebbe fatto un viaggio in Thailandia con Epstein, il principe Andrea, Bill Gates, il miliardario degli hedge fund Glenn Dubin, l'ex governatore del New Mexico Bill Richardson, l'ex segretario al Tesoro ed ex presidente dell'Università di Harvard Larry Summers, lo psicologo cognitivo e autore Stephen Pinker, Alan Dershowitz, il miliardario e amministratore delegato di Victoria's Secret Leslie Wexner, l'ex banchiere di Barclays Jes Staley, l'ex primo ministro israeliano Ehud Barak, il mago David Copperfield, l'attore Kevin Spacey, l'ex direttore della CIA Bill Burns, il magnate immobiliare Mort Zuckerman, l'ex senatore del Maine George Mitchell e il produttore hollywoodiano caduto in disgrazia Harvey Weinstein, che si divertiva nei perpetui baccanali di Epstein.

Tra questi figurano anche studi legali e avvocati di alto livello, procuratori federali e statali, investigatori privati, assistenti personali, addetti stampa, domestici e autisti. Tra questi figurano anche numerosi procacciatori e protettori, tra cui la fidanzata di Epstein e figlia di Robert Maxwell, Ghislaine Maxwell. Tra questi figurano anche i media e i politici che hanno spietatamente screditato e messo a tacere le vittime, e hanno usato la forza contro chiunque, compresi alcuni giornalisti coraggiosi, cercasse di smascherare i crimini di Epstein e la sua cerchia di complici.

Molte cose rimangono nascoste. Ma alcune cose le sappiamo.

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La rinascita (atlantista) del militarismo tedesco

Da BlackRock alla Bundeswehr: il riarmo della Germania secondo Merz

di Thomas Fazi

Il nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz, già rappresentante del colosso finanziario BlackRock, avvia un massiccio riarmo militare, rompendo con la tradizione pacifista postbellica. Con investimenti senza precedenti e un deciso allineamento all’atlantismo, Berlino abbandona l’Ostpolitik e adotta una postura aggressiva nei confronti di Mosca. Eppure, dietro la retorica della sovranità, si cela una crescente subordinazione strategica. Ma Merz deve fare i conti con un profondo dissenso interno, soprattutto tra i giovani

Battle of Borodino on 26 August 7 September 1812 by Peter von Hess result«Vogliamo rendere la Bundeswehr la forza armata convenzionale più forte dell’Ue». Al vertice Nato all’Aja, lo scorso 25 giugno, il nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz ha presentato il suo piano per il riarmo tedesco. Con un investimento da 400 miliardi di euro e l’obiettivo di portare la spesa militare al 5% del Pil, non si tratta di una semplice modifica di budget, ma della cancellazione dell’identità strategica tedesca post-1945. Una rivoluzione che affonda le radici nella completa interiorizzazione dell’ideologia atlantista da parte della classe dirigente.

Il piano di riarmo della Germania e l’aggressiva postura anti-Russia non è un ritorno del nazionalismo tedesco, ma il suo opposto. Le politiche messe oggi in atto non derivano da una fredda ricerca degli interessi nazionali tedeschi, ma nella loro negazione. Sono l’espressione di una classe politica che ha interiorizzato così profondamente l’ideologia atlantista da non riuscire più a distinguere tra strategia nazionale e lealtà transatlantica.

Questa è la conseguenza a lungo termine di come la questione tedesca è stata «risolta» dopo la Seconda guerra mondiale: attraverso l’assorbimento della Germania nell’«Occidente collettivo» sotto la tutela strategica americana. Per gran parte del periodo postbellico la leadership tedesca ha cercato di bilanciare questo assetto con la difesa dell’interesse nazionale, ma negli anni successivi al colpo di Stato in Ucraina, l’ala «americana» dell’establishment tedesco ha cominciato a prendere il sopravvento. Con Merz, che in passato è stato un rappresentante BlackRock, è saldamente al comando.

Oggi la leadership pensa solo in termini di allineamento a un progetto occidentale le cui priorità sono spesso definite altrove. In un editoriale pubblicato il 23 giugno sul Financial Times, per esempio, Merz ed Emmanuel Macron hanno nuovamente ribadito il loro impegno nella relazione transatlantica e nella Nato (che ha sempre comportato la subordinazione strategica dell’Europa a Washington), nonostante i recenti gesti retorici verso una politica europea più autonoma.

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iltascabile

Bernard-Henri Lévy: ideologo dell’Occidente?

Ritratto di un disturbatore diplomatico.

di Paolo Mossetti

Bernard Henri Lévy ideologo dellOccidente.jpgIl sogno è stato quello di raccogliere l’eredità di Voltaire, Zola e Sartre, incarnando l’ideale del grande intellettuale pubblico francese. Per quasi quarant’anni Bernard-Henri Lévy, filosofo più a suo agio come performer che dietro a una cattedra, ci è riuscito. Con una clausola, secondo i suoi nemici: diventando un abile ideologo, capace di travestirsi da paladino dell’umanesimo per difendere l’esistente. Un globetrotter da 150 milioni di euro sul conto in banca le cui parole hanno funzionato, con straordinaria costanza, come proiettili sparati sempre nella stessa direzione: quella dei nemici dell’Occidente. Polemista, reporter, esteta, seduttore, consigliere di presidenti e soprattutto disturbatore diplomatico, BHL ‒ l’acronimo con cui lo chiamano in Francia ‒ continua a dominare la scena intellettuale europea come una figura mitologica.

Nato a Beni Saf, in Algeria, nel 1948, Lévy appartiene a una famiglia ebraica sefardita che si trasferì in Francia quando lui aveva sei anni. Figlio di un ricco industriale del legno, Lévy è cresciuto in un contesto agiato, intellettualmente esigente e profondamente consapevole del proprio privilegio. Ha frequentato l’École Normale Supérieure, sotto la guida di intellettuali come Louis Althusser e Jacques Derrida. Invece di restare nell’ambito del mondo accademico, però, Lévy ha deciso presto di fare della figura pubblica la sua vera opera. È diventato giornalista e corrispondente di guerra, coprendo la guerra di indipendenza del Bangladesh nel 1971. Nei primi anni Settanta è stato anche tra i fondatori del movimento dei Nouveaux philosophes, una corrente antitotalitaria che si scagliava contro il marxismo, l’URSS e i dogmi della sinistra radicale ereditati dal maggio del Sessantotto.

È stato in quegli anni che, secondo il suo stesso racconto, nasceva il filosofo engagé. Insieme ad André Glucksmann, Alain Finkielkraut e Pascal Bruckner ha rivendicato la sua partecipazione alla lotta studentesca per farne un ingrediente biografico decisivo, salvo poi attaccarla nei decenni successivi, per il suo lascito nella morale sessuale, i diritti umani, la religione e l’antisemitismo.

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cassettiaperti.png

Il caso del caso Moro ep. 7

Complotti di ieri e di oggi

di Davide Carrozza

1571299371408 1536x2048logo.JPGIn quel mare magnum impazzito che rappresenta l’epopea del complottismo sul caso Moro, in quella selva di teorie strampalate e di scienza incompiuta, a cui è dedicata questa serie di articoli, ci occupiamo oggi di due teorie complottiste (chiamarle così sembra quasi un complimento) di ieri e di oggi. La loro dislocazione temporale (1995 e 2025) contribuisce alla comprensione della vastità del fenomeno e di quanto duratura sarebbe stata l’eredità storica di quel tragico evento. Mi viene in mente Cassio davanti al corpo di Giulio Cesare, appena pugnalato a morte dai congiurati, che esclama “In quante epoche future questa nostra scena solenne verrà recitata di nuovo, in nazioni ancora non nate e in lingue ancora sconosciute”. Vera fu questa premonizione per il Giulio Cesare di Shakespeare e per il regicidio più famoso della storia. Altrettanto vera potremmo dire sarebbe questa affermazione per il più famoso “regicidio” della nostra storia repubblicana, il sequestro e l’assassinio dell’On. Aldo Moro, evento per il quale in 47 anni si inonderanno fiumi di inchiostro, si produrranno centinaia di migliaia, secondo alcuni milioni di pagine di documenti ufficiali (spesso ignorate) e si racconteranno una serie innumerevoli di balle con vari scopi funzionali (per le molteplici motivazioni del complottismo si veda l’episodio 2 di questa serie). Le due storie potrebbero annoverarsi fra quelle che non ce l’hanno fatta, il cui eco è stato talmente irrilevante da non potersi annoverare forse nemmeno realmente fra le teorie complottiste “ufficiali”, talmente insensate a volte da non convincere nemmeno chi le aveva sdoganate, in uno dei due casi per ammissione stessa del suo creatore, quelle che Vladimiro Satta con un tocco un po’ romantico chiamerebbe romanzi d’appendice del caso Moro.

 

Complotti di ieri

Nel lontano 2000 l’ex agente dei servizi segreti Antonino Arconte, nome in codice G-71, viene attraversato da un’improvvisa epifania, ricordandosi a 22 anni di distanza di essere stato destinatario di un compito delicatissimo e urgentissimo attinente al caso Moro.

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kamomodena

L’Italia al fronte. Destre globali e conflitto sociale nell’era Trump

di Mimmo Porcaro

La fabbrica della guerra 8 1448x2048.pngIntroduzione

«La fabbrica della guerra» è un ciclo di incontri organizzato a Modena, ospitato dal Dopolavoro Kanalino78, con l’obiettivo di cercare chiavi per comprendere e afferrare la complessità della fase storica in cui siamo immersi, nella quale eventi sempre più accelerati fanno sfuggire la leggibilità del presente. Come coordinata interpretativa abbiamo voluto usare la guerra perché pensiamo sia il grande fatto sociale centrale, la determinante che sta riorganizzando tutto il nostro mondo e le altre dimensioni di questo momento storico, la realtà in cui siamo collocati.

La tendenza alla guerra delle società capitalistiche è diventato un fatto innegabile, lo vediamo sempre più concretamente; ed è una dinamica che arriva a toccarci sempre più direttamente; in altri termini, un fenomeno che sta trasformando non solo il sistema internazionale in cui abbiamo vissuto finora, ma anche la nostra vita quotidiana. Attraversati da questa dinamica, cambiano in profondità i nostri territori, le nostre città, i nostri quartieri, e insieme a loro stili di vita, bisogni, aspettative, punti di vista, comportamenti sociali.

Per i militanti è diventato dunque imprescindibile comprendere queste trasformazioni per agirle, e potenzialmente per ribaltarle. Come recita un vecchio slogan: «Chi pensa deve agire». Noi crediamo che per agire bene bisogna prima pensare bene, ed è questo l’obiettivo del ciclo di incontri.

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comedonchisciotte.org

Il progetto Trump si sta disfacendo?

di Alastair Crooke - strategic-culture.su

La fiducia è tutto. E questo "capitale" si sta erodendo rapidamente

SPACE X 02 930x520 1.jpgIl conflitto tra Musk e Trump (almeno per ora) ha una qualità decisamente “televisiva”. Ma non lasciatevi ingannare dall’intrattenimento. Il litigio illustra una contraddizione fondamentale nel cuore della coalizione MAGA. È molto probabile che questa contraddizione possa esplodere più avanti e finisca per innescare la lenta decadenza del Progetto Trump.

Un momento cruciale delle ultime elezioni americane era stato quando gli oligarchi tecnologici ultra-ricchi della Silicon Valley erano passati dal sostegno ai Democratici a quello a Trump. Questo aveva portato sia denaro, sia la tanto agognata possibilità per l’America di conquistare il monopolio dell’archiviazione globale dei dati, dell’IA e di quello che Yanis Varoufakis chiama il “capitale cloud“, ovvero la presunta capacità di estrarre una rendita (cioè tariffe) per l’accesso alla presunta enorme riserva di dati dell’America e alle piattaforme associate delle Big Tech. Si riteneva che un tale monopolio dati avrebbe conferito agli Stati Uniti la capacità di manipolare il modo in cui il mondo pensa e decide i prodotti e le forme di pianificazione considerati “cool”, alla moda.

L’idea era anche che un monopolio sui centri dati potesse essere potenzialmente redditizio quanto quello statunitense del dollaro, utilizzato come principale valuta commerciale, [un monopolio sui centri dati] che avrebbe potuto generare importanti afflussi di capitale per compensare il debito.

La caratteristica esplosiva di una coalizione tra oligarchi tecnologici e populisti MAGA, tuttavia, è che entrambe le fazioni hanno visioni inconciliabili – sia per affrontare la crisi strutturale del debito americano, sia per il futuro culturale dell’America.

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carmilla

Il genocidio di Gaza tra decolonizzazione e competizione vittimaria

di Fabio Ciabatti

Pankaj Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Milano 2025, pp. 320, € 20,00.

Il mondo dopo gaza.jpgSentimento di impotenza di fronte alla tragedia, senso di “colpa metafisica” per non aver fatto tutto il possibile per evitare l’abisso, sensazioni di vertigine, di caos e di vuoto. Il libro Il mondo dopo Gaza ci descrive queste angoscianti emozioni del suo autore, lo scrittore e saggista indiano Pankaj Mishra, di fronte al terrificante destino riservato ai palestinesi. Reazioni più che giustificate se è vero che la posta in gioco, politica ed etica, non è mai stata così alta come quella che ci propongono le vicende della martoriata Striscia di terra tra Israele ed Egitto: le atrocità commesse a Gaza, approvate senza vergogna dall’élite politica e mediatica del cosiddetto mondo libero e sfacciatamente rivendicate dagli israeliani, non si limitano a minare la nostra fiducia nel progresso, ma mettono in discussione la nostra stessa concezione della natura umana, soprattutto l’idea che essa sia capace di empatia.

L’antisemitismo, oramai lo sappiamo, è stato cinicamente trasformato nella foglia di fico dietro cui si nasconde la ferocia di un genocidio trasmesso in diretta. Ma “La narrazione secondo cui la Shoah conferisce legittimità morale illimitata a Israele non è mai apparsa più debole”.1 Infatti “molta più gente, dentro l’Occidente e fuori, ha iniziato ad abbracciare una contronarrazione secondo cui la memoria della Shoah è stata pervertita per consentire degli omicidi di massa, mentre al tempo stesso si oscurava una storia più ampia di moderna violenza occidentale al di fuori dell’Occidente”.2

Come è possibile che tanta atrocità abbia un appoggio internazionale così ampio, nonostante il comportamento israeliano neghi alla radice qualsiasi forma di autorappresentazione della civiltà occidentale? Certamente ci sono fondamentali ragioni di natura geopolitica. Ma c’è anche qualcosa di più che ha a che fare con il fatto che il cosiddetto mondo sviluppato si rispecchia in qualche modo nello stato sionista.

Tra i movimenti maggioritari c’è un forte senso di identificazione con uno stato etnonazionale che scatena la sua forza letale senza alcun vincolo. Questo spiega, molto meglio di qualsiasi calcolo di interesse geopolitico ed economico, la sorprendente complicità di molti occidentali in quella che è una trasgressione morale assoluta, vale a dire un genocidio3.

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lantidiplomatico

I volenterosi carnefici di Gaza

di Marcello Faletra

720x410c5koi60.jpgBambini col cranio forato, intere famiglie cinicamente massacrate, ambulanze colpite da missili, un intero popolo ridotto alla fame fino a crepare, ospedali bombardati senza scrupolo, giornalisti deliberatamente uccisi (oltre 200), navi umanitarie sequestrate in acque internazionali...cos’altro ancora dopo quasi 60.000 morti accertati e 170.000 dispersi, di cui 21.000 bambini? Nonostante ciò, la mattanza continua con la volontaria complicità del civile Occidente, che invia armi e sostegno morale per concludere la mattanza (Stati Uniti, Germania e Italia in primis).

Nel 1996 lo storico Daniel J. Goldaghen pubblicò un corposo pamphlet il cui titolo provocò un forte dibattito tra gli storici: I volenterosi carnefici di Hitler. La tesi del libro consisteva nel fatto che per capire il passaggio all’atto dell’eliminazione degli ebrei non erano sufficienti teorie che si basavano sulla coercizione all’eccidio (i militari erano costretti a uccidere), ne tanto meno che la responsabilità cadesse ai soli organizzatori dello sterminio, “meschini burocrati”. Ciò che restava ancora da indagare in modo approfondito, era la partecipazione individuale di intere masse popolari, di singoli intellettuali, di figure appartenenti agli apparati propagandistici di stampa, e indotti a promuovere la necessaria eliminazione degli ebrei. Il libro indagava il passaggio dall’astratto al concreto: dietro una struttura burocratica vi sono eserciti costituiti da singole persone, le quali interiorizzano gli ordini, vestono le idee, praticano i pregiudizi e li mettono in opera. Un intero sistema votato alla violenza fino allo sterminio, che non potrebbe esistere senza questi volenterosi carnefici.

Per fare un genocidio occorre una complessa macchina non solo burocratica (statale) e militare, ma si rende necessaria la partecipazione attiva di tutti i singoli individui, che chiamiamo astrattamente “pubblico” o “masse”, oppure “popolo”. A ciò, naturalmente, si aggiunge il lavoro della macchina astratta, incarnata dal politico, dal lobbista, dal propagandista, dal giornalista.