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giap3

Il linguaggio belligerante e il diritto di dissentire

Un estratto dal libro Guerra alla guerra

di Matteo Pucciarelli

trickolores[Esce in questi giorni per i tipi di Laterza il nuovo libro di Matteo Pucciarelli, Guerra alle guerra. Guida alle idee del pacifismo italiano.

Il capitolo 8, di cui riportiamo ampi estratti e che s’intitola «Guerra nelle parole. Il linguaggio belligerante e il diritto di dissentire», è in larga parte imperniato su un’intervista a WM1 realizzata nel settembre 2022 e sul lavoro critico fatto da Wu Ming nel pieno dell’emergenza pandemica, durante un coprifuoco dell’anima durato un biennio. Pucciarelli getta uno sguardo retrospettivo su quel lavoro, lo riconsidera e ne prolunga diverse linee.

Non capita ogni giorno – anzi, non ci era ancora capitato – di veder riconoscere legittimità e valore a quelle nostre riflessioni e prese di posizione in un testo pubblicato da una delle principali case editrici del Paese.

Il fatto che a riconoscerlo sia un giornalista che lavora a Repubblica, il quotidiano che più si mostrò forsennato nella caccia all’untore – ossia, nelle varie fasi: al «furbetto», al «negazionista», al «nomask», al «novax», al «nogreenpass» ecc. – e che oggi ha il primato della retorica guerrafondaia rende l’evento ancor più importante.

Grazie dunque a Matteo, e buona lettura. WM]

* * * *

«Narrazioni tossiche»*: è questa la definizione che il collettivo di scrittori Wu Ming ha dato a tutta una serie di distorsioni e mistificazioni di parole, in questa guerra che solo dopo si combatte con i fucili o con i droni telecomandati, con la violenza e la prevaricazione, ma prima è fatta di un sapiente e costante lavoro di decostruzione culturale.

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sinistra

Ipocrisia sulla guerra

di Sergio Farris

Marines Usa in Iraq La Presse e1582299872808Il 2023 si è aperto con un nuovo rilancio, da parte occidentale, dell'escalation militare nel confronto con la Federazione russa. Il Parlamento italiano ha votato a favore del sesto atto per l'invio di materiale bellico a Kiev.

Se non altro, dovrebbe risultare ancora una volta più nitido che dal centro dell'impero – gli USA – non si mira nel breve termine a una trattativa di pace che possa porre termine al conflitto in Ucraina.

Vinte le resistenze tedesche riguardanti l'approvvigionamento di carri armati Leopard–2 a Zelens'kyj e approvati nuovi provvedimenti di 'aiuti' finanziari e militari da immettere nel 'pozzo senza fondo' ucraino, restano pochi dubbi sul fatto che laddove la nostra classe dirigente parla di 'pace', il termine va decodificato come 'sconfitta, ritiro incondizionato dei russi e integrazione dell'Ucraina nell'ambito di influenza occidentale'.

Si alimenta una continua 'escalation' ma la si definisce ricerca della 'pace giusta'.

D'altronde, fin dal 24 febbraio del 2022 ambiguità e simulazioni semantiche sono parte integrante del racconto sulla guerra che il nostro sistema comunicativo ha avuto cura di propalare.

Il nostro apparato mediatico, riflettendo la posizione politico – culturale prevalente, ha continuamente alimentato ad arte un'interpretazione dell'evento bellico nell'est–Europa tale da trascinare l'opinione pubblica verso una presa di posizione acritica e assolutamente faziosa. Sono stati artificiosamente delineati due campi: quello dei probi democratici filoatlantisti e quello degli esecrabili filoputiniani. Chi, in questi mesi, ha cercato di riconoscere il contrasto di interessi geopolitici al fondo del conflitto, è stato condannato – per direttissima – a far parte del campo dei simpatizzanti del potere russo e, più in generale, di regimi dittatoriali.

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lacausadellecose

Poche parole chiare sul caso Cospito

di Michele Castaldo

340.0.373264813 0006 kvbH U34005399087312jC 656x492Corriere Web SezioniSta facendo molto rumore il cosiddetto caso Cospito: i poteri dello Stato si rimbalzano le responsabilità, i partiti politici si azzuffano, il governo di centro-destra o destra si compatta, la cosiddetta sinistra va allo sbando e con essa anche il cosiddetto estremismo di sinistra, mentre gli anarchici tendono a coalizzarsi. La questione che sta facendo tanto discutere è la condizione del carcere duro del 41 bis. In un bailamme del genere riuscire a raccapezzarci qualcosa è abbastanza difficile per chi vorrebbe tenere la barra dritta di una visione anticapitalistica, che vuol dire antisistema, in una fase di per sé molto complicata. Ma, come dire, è la storia che impone delle divaricazioni.

Chiariamo perciò da subito che se la questione si ponesse nei termini di schierarsi, con lo Stato o con gli anarchici, non ci sarebbe dubbio alcuno a stare contro lo Stato che interpreta le leggi del capitale contro gli sfruttati, gli emarginati e gli immigrati per salvaguardare l’accumulazione. Questo in primis, in secundis da sempre l’oppressione e lo sfruttamento ha provocato schegge di ribellioni individuali che spesso sono state teorizzate come concezione anarchica. Dunque da una parte c’è il potere costituito e dall’altra le espressioni di riflesso agente a un dominio ritenuto a giusta ragione oppressivo. Pertanto chi non si rivede nell’ordine costituito è immediatamente attratto da chi in un modo o nell’altro lo combatte. Ovviamente – questo è un punto dirimente – si è sempre disposti a sostenere la causa di chi viene represso, come nel caso di Sacco e Vanzetti negli Usa o di Pinelli nel ’69, mentre si è titubanti di fronte ad atti e gesti cosiddetti terroristici, ovvero di piccoli attentati che però vengono ingigantiti e utilizzati dal potere costituito per scoraggiare ogni tipo di mobilitazione sociale sul problema che causa l’atto “terroristico” o anarchico.

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crs

Da Christopher Lasch al suicidio della sinistra positivista

di Lelio Demichelis

spaceship g376302c2d 1920 1536x960Christopher Lasch (1932-1994) è stato certamente un intellettuale scomodo, poco amato dalle sinistre liberal americane, dalle femministe, dagli intellettuali europei. Eppure, è stato autore di opere fondamentali come La cultura del narcisismo, La rivolta delle élite, Il paradiso in terra (tutte pubblicate o ripubblicate da Neri Pozza).

Scomodo, ma quindi necessario. Come Heidegger (facendo le debite proporzioni), che è essenziale per capire cos’è la tecnica, ma che la sinistra si rifiuta di leggere e di capire restando anzi preda di una visione idilliaca – come scriveva, criticandola, Raniero Panzieri settant’anni fa – della tecnologia. O meglio, aggiungiamo, della razionalità strumentale/calcolante-industriale che ci domina dalla rivoluzione industriale e che è essenza (andando oltre Heidegger) anche del capitale/capitalismo, poiché basati – tecnologia e capitalismo – sulla stessa logica di accrescimento illimitato e infinito di sé come mercato e profitto, oltre che come sistema tecnico, producendosi appunto quello che chiamiamo tecno-capitalismo e che trova oggi nel totalitarismo del digitale, e nella digitalizzazione delle masse, la sua ultima (per ora) fase storica. E quindi, così come un grande intellettuale di sinistra, Claudio Napoleoni, aveva letto lo scomodo Heidegger per capire cosa sia la tecnica (che non è neutra come ingenuamente credono i marxismi, ma possiede un determinismo proprio – ontologico, teleologico e teologico), così oggi le sinistre dovrebbero rileggere anche lo scomodo Lasch per capire come è cambiato il mondo e recuperare un legame con la realtà da cui si sono dissociate per inseguire lo storytelling tecno-capitalista, cioè confondendo il progresso con la tecnica (con la razionalità strumentale/calcolante-industriale) e infine con il mercato neoliberale.

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iltascabile

Il divorzio tra élite e popolo

di Paolo Mossetti

Paolo Mossetti è uno scrittore e giornalista che ha lavorato nel marketing editoriale e come traduttore. Si occupa di cultura economica, politica e conflitti su diverse riviste tra cui N+1 e le edizioni italiane di Esquire, Wired e Forbes

unnamedkhgfvfewEra il settembre 1955 e l’attentato a Plaza de Mayo aveva già cambiato la storia dell’Argentina. Il 16 di quel mese, con il bombardamento della Casa Rosada, si era scatenato a Buenos Aires il colpo di stato definitivo contro il governo di Juan Domingo Perón. Tre giorni dopo Perón si dimise e il 23 il generale Eduardo Lonardi entrò in carica. Perón andò in esilio. La maggior parte dei partiti politici, dei settori militari, della chiesa cattolica e degli uomini d’affari festeggiò l’evento, applaudendo all’installazione di una dittatura non meno brutale di quella appena rimossa.

Il nuovo corso fu chiamato Revoluciòn libertadora, e l’ambasciata statunitense affermò che il neogoverno era il più “amichevole” che avesse avuto da anni. Presto arrivarono le sparatorie e la proscrizione dei peronisti. L’odio nell’aria era tale che il contrammiraglio Arturo Rial disse agli operai comunali: “Dovete sapere che la Rivoluzione Liberatrice fu fatta perché in questo benedetto paese il figlio dello spazzino morisse spazzino”.

All’epoca, gran parte degli intellettuali argentini era militante contro il peronismo. Non era estraneo a questa tendenza lo scrittore Ernesto Sábato, protagonista per mezzo secolo del dibattito pubblico. Tuttavia questo ex militante comunista era perplesso. Come qualche altro sparuto pensatore non ancora accecato per dalla libertà conquistata, provava empatia per la tristezza che gran parte del popolo argentino provò quando il caudillo fu rovesciato. Nei mesi successivi alla caduta di Perón, Sábato pubblicò un breve saggio sotto forma di lettera aperta, mai tradotto né ripubblicato dopo la prima edizione del 1956, nel quale si interrogava sulla violenza e la natura degli eventi appena trascorsi.

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acropolis

Democrazia o guerra

di Michele Cangiani

AP23009750804675 960x600 11. La guerra dei nostri giorni

La frequenza delle guerre nell’ultimo ventennio, dopo il crollo del blocco sovietico, costringe a riflettere sul “nuovo ordine mondiale” e in particolare sui fini perseguiti su scala mondiale dalla “grande potenza” rimasta. Quanto ai mezzi, la guerra resta evidentemente in primo piano, anzi tende a diventare permanente e senza regole.

Ben prima del 1989, negli anni Settanta, era iniziata la svolta restauratrice, con le ricette della Commissione Trilaterale per la democrazia (v. Crozier, Huntington e Watanuki 1977) e con quelle monetariste per l’economia, con il neo-liberismo più o meno illiberale e antidemocratico, con Reagan, Thatcher e, prima ancora, Pinochet. Il mito di un mondo unificato dallo “sviluppo” è stato sostituito dalla preoccupazione per la “sicurezza” rispetto alle resistenze della periferia globale, le cui riserve di risorse naturali e di lavoro a buon mercato devono garantire, al centro, i profitti dell’ipertrofica finanza.

Come sempre, le guerre si spiegano in riferimento al quadro storico, all’evolversi delle istituzioni economiche e politiche, nazionali e internazionali. D’altra parte, le nuove caratteristiche della guerra sono di per sé rilevanti, e illuminanti riguardo alla situazione complessiva.

Vi sono guerre locali e periferiche, che occorre comunque comprendere in rapporto con le dinamiche globali del mercato e del potere. Vi è poi quella che potremmo definire guerra civile globale, permanente e asimmetrica. I termini pubblicitari via via inventati per designare gli episodi di questa guerra ne rivelano la novità, mentre ne dissimulano il significato: “operazione di polizia internazionale” (Iraq 1991), “Restore Hope” (Somalia 1992-93), “guerra umanitaria” (Yugoslavia, 1999), “Enduring Freedom” (Afghanistan, 2001), fino alla “guerra preventiva” contro l’Iraq.

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gasparenevola

Sulla comunità nell’epoca liberal-democratica

di Gaspare Nevola

 

I. Ripensare la comunità oggi

 

1846 Anti Corn Law League Meeting1. Preambolo

«Stiamo attraversando anni di oltraggio alla democrazia liberale, e questo enorme disprezzo non s’è certo esaurito. Ci è stato detto che tutto ciò che c’è di orrendo nel nostro tempo è colpa del liberalismo, o peggio, del neoliberalismo… È stato incolpato di tutta l’infelicità del mondo. I predicatori di una nuova felicità si chiamano, vantandosi, post-liberali. Talvolta uno si deve stropicciare gli occhi di fronte all’intensità dell’odio per la democrazia liberale: questi stolti capiscono ciò che stanno dicendo? (…) Questo è populismo». Dato che l’autore[1] di queste parole è un intellettuale, considerato tra i più influenti nell’area progressista statunitense, mi chiedo da quali libri e studi abbia tratto le sue conclusioni e i suoi giudizi che liquidano come stoltezza populista le critiche che da tempo investono la cultura liberal-democratica e neo-liberale: dalle colonne di battaglia giornalistiche? da comizi elettorali? Sia ben chiaro, anche le chiacchere da bar-sport politico sono legittime, così come lo sono le crociate contrapposte che imperversano sui social e che rudimentalizzano il confronto pubblico. Dato, però, che l’autore qui richiamato è un intellettuale, sarebbe sano, bello e doveroso aspettarsi meno sdegno offensivo verso chi vede le cose diversamente e più pazienza e raziocinio nel trattare il tema sul quale si intrattiene. Poco giova alla comprensione dei punti di vista altrui porsi come capo di una tifoseria che sbraita e inveisce contro la parte avversa.  Di tanto in tanto, un bagno nel tacitiano sine ira ac studio è utile anche all’intellettuale militante.

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contropiano2

Un commento su “La Guerra Capitalista”

di Leonardo Bargigli*

13486745 medium e1630500710576Il volume di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli La Guerra Capitalista1 ha il notevole merito di affrontare un argomento molto complesso e poco trattato dalla letteratura economica, quale la centralizzazione del capitale.

Nella prima parte, e nell’appendice 1, gli autori introducono efficacemente il proprio oggetto di studio, fornendo al lettore una utile guida alla letteratura. In particolare, sottolineano opportunamente la differenza tra concentrazione della ricchezza e centralizzazione del capitale.

Con il primo termine, si indica l’accumulazione della ricchezza nelle mani di un numero sempre più ristretto di proprietari. Con il secondo termine, si indica invece la concentrazione, in poche mani, del controllo sull’impiego della ricchezza accumulato da tutte le classi sociali. Mentre l’evidenza empirica sul primo fenomeno è abbondante, lo stesso non può dirsi per il secondo2.

Nella seconda parte del volume gli autori presentano i propri originali risultati, che si riferiscono ad una particolare definizione di centralizzazione in termini di net control. Quest’ultima grandezza è definita come “il valore intrinseco del capitale controllato seguendo tutti i percorsi diretti e indiretti delle partecipazioni azionarie” (p. 107).

Mettendo tra parentesi i problemi metodologici3, concentriamoci sul messaggio principale. I risultati presentati dagli autori evidenziano che la proprietà delle imprese quotate a livello internazionale è concentrata nelle mani di un nucleo ristrettissimo di azionisti. In particolare, nel 2016 l’80% del valore del mercato azionario globale era controllato dall’1% degli azionisti (p. 115), e questa quota si era in precedenza ridotta del 25% a partire dal 2001, con un’accelerazione a partire dal 2006 (p. 116).

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machina

Per un pacifismo disincantato

di Valerio Romitelli

0e99dc 026a5406617147c9848ee4f3111a82b0mv2«Perché ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei e io e tanti altri, perché non la prendiamo come una delle molte e penose calamità della vita? La guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente, in pratica assai poco evitabile […] finché esistono stati e nazioni pronti ad annientare senza pietà altri stati e altre nazioni, questi sono necessitati a prepararsi alla guerra...».

Questi alcuni dei passi più interessanti della risposta data da Freud ad una lettera inviatagli da Einstein nel 1932, quando i postumi della Prima guerra mondiale non erano affatto estinti e i primi vaghi presagi di quella che sarà la Seconda guerra mondiale stavano già baluginando.

Per iniziativa del circolo Maggio Filosofico da più di vent'anni attivo nei dintorni di Bologna, questo giustamente famosissimo scambio epistolare è stato assunto come punto di avvio per una o più conferenze sul fenomeno bellico dal punto di vista di filosofia, psicologie e scienze umane, alla luce di quanto sta accadendo con la guerra in Ucraina. Dandone notizia mi spendo anche nel perorare la causa di simili discussioni di livello problematico più intenso rispetto a quello della cronaca e dei suoi commenti più o meno informati, convinto che solo così si possa sollecitare l'intelligenza dell'enorme e irreversibile portata epocale di quanto sta avvenendo in questa guerra e col diretto coinvolgimento in essa di Italia ed Europa.

Segue dunque qualche congettura a questo proposito.

* * * *

I

Tornando ai passi appena riportati della risposta di Freud, dove sta dunque il loro particolare interesse? Sta nel rimettere in discussione l'intuitivo approccio pacifista che Einstein supponeva e che lo stesso Freud finisce per far proprio, ma previa una elaborazione non scontata dei suoi presupposti.

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sfero

Propagande e “complottismi”

di Andrea Zhok

20230121T184641 cover 1674326800899Quando si parla di propaganda e di manipolabilità della popolazione è un luogo comune, spesso ripreso, quello per cui il livello culturale sarebbe una variabile decisiva, in quanto capace di ostacolare l’influenzabilità dei soggetti. Questo assunto, oltre al pregio di essere gradevolmente consolatorio per chi di cultura si occupa, sembra seguire un semplice sillogismo. Dopo tutto uno non è facilmente ingannabile sulle cose che conosce, chi ha un’istruzione superiore per definizione dovrebbe conoscere più cose, ergo chi ha un’istruzione superiore dovrebbe essere meno ingannabile. Questo ragionamento è tanto apparentemente intuitivo quanto sciaguratamente sbagliato.

È possibile distinguere due forme distinte di manipolabilità soggettiva, che possiamo nominare schematicamente come manipolabilità (da istruzione) primaria e manipolabilità (da istruzione) terziaria.

 

1) Sulla manipolabilità primaria

Per istruzione primaria si intende la scuola dell’obbligo, e oggi possiamo considerare questo livello di istruzione come livello base, assumendo che tutti i cittadini ne abbiano goduto. Soggetti che abbiano limitato la propria istruzione a questo livello tendono ad entrare per primi nel mondo del lavoro con mansioni a basso tasso di specializzazione. Chi abbia questo retroterra culturale (naturalmente al netto della coltivazione autonoma di propri interessi) è sensibile ad alcune specifiche forme di manipolazione: quelle che fanno uso di una retorica della semplificazione e di appelli ad un presunto buon senso comune.

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intellettuale collettivo

Guerra, crisi e sfide per il futuro

di Alessandro Pascale

Relazione sulla politica estera e le ricadute economiche e sociali per il Comitato Scientifico di Democrazia sovrana e popolare, 14 gennaio 2023

robot 2301646 1280Vorrei iniziare ricordando la particolarità del periodo storico che stiamo vivendo, segnato dalla crisi dell’impero statunitense e dall’ascesa di un mondo multipolare caratterizzato dall’egemonia crescente della Cina comunista. È in questo quadro che dobbiamo situare gli eventi degli ultimi anni, compresa la guerra alla Russia e la pandemia COVID.

Il mantenimento stabile nell’ultimo secolo di un assetto imperialista ha fatto sì che l’Occidente abbia potuto fondare il proprio benessere sullo sfruttamento del “terzo mondo”. Il passaggio alla globalizzazione neoliberista, avvenuto dagli anni ‘70, ha però mostrato tutte le contraddizioni del sistema capitalistico, facendo perdere sul lungo termine competitività all’Occidente. La guerra in corso non è quindi un evento episodico e casuale, ma la risposta delle élite transnazionali occidentali alla perdita del controllo monopolistico dei mercati ricchi di risorse dell’Africa, dell’Asia, dell’America latina.

Che la pace non sia in effetti salutare per l’Occidente era emerso dagli esiti del World Economic Forum, che a partire dalle elaborazioni di Klaus Schwab ha lanciato la necessità di un “great reset” per garantire il rinnovamento del processo di accumulazione capitalistica occidentale: in estrema sintesi mentre non si fa nulla per cancellare gli enormi squilibri dovuti ad un’economia finanziaria ipertrofica, totalmente sganciata dall’economia reale, si lancia l’idea di una conversione economica in senso ecologicamente sostenibile.

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carmilla

Un contadino nella metropoli degli anni ‘70

di Alessandro Barile

Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate rosse, Pgreco 2023, pp. 352, € 20,00.

e777ea2cf7016a7d2228609e1e6d87b6La ripubblicazione di Un contadino nella metropoli a dieci anni dalla morte del suo autore, Prospero Gallinari (1951-2013), è opportuna almeno per due motivi. Il primo, rimettere in circolazione un libro stranamente introvabile, nonostante la prima edizione affidata a Bompiani, la notorietà della persona, l’attenzione (a volte genuina, più spesso morbosa) riguardo agli anni Settanta e alla lotta armata nel nostro paese. Vi è poi l’occasione di celebrarne il ricordo a dieci anni dal suo funerale-evento: al cimitero di Coviolo, Reggio Emilia, il 19 gennaio 2013 si convocarono spontaneamente un migliaio di persone, compagni di tutta Italia, reduci e giovani, brigatisti, non brigatisti, anti-brigatisti, chiunque si sentì toccato da una morte che sembrava trascinare con sé un’intera epoca. Una foto di gruppo, tra parenti spesso litigiosi, eppure accomunati, e non solo dal ricordo umano.

Ma la ripubblicazione di questo libro di «ricordi di un militante delle Brigate rosse» può servire anche ad altro, forse di più importante, o almeno di più utile. È un libro di memorie, e come tale è andato a suo tempo ad ampliare la già vasta produzione memorialistica sugli anni Settanta. Una memorialistica che, negli ultimi venti anni, ha dapprima lasciato spazio alla contro-memorialistica delle vittime (delle vittime reali ma, molto più di frequente, delle vittime indirette: familiari, amici, conoscenti); per poi cedere il passo a una storiografia che si è andata occupando molto di anni Settanta e del loro enigma indecifrato. La ricostruzione storica è rimasta però alquanto sterile. Nell’attuale, spasmodica, convalida di un suo statuto scientifico, la ricerca storica ha generato una tecnicizzazione degli eventi studiati. Siamo stati così invasi di libri sul lungo Sessantotto italiano, sulla lotta armata e sulla «strategia della tensione», sui profili umani e su quelli disumani.

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economiaepolitica

La guerra capitalista

di Roberto Romano

Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli: La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, 2022

39b177c3 2091 477f 9e26 124fac1992b6 xlLa guerra capitalista di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, arricchita dalla postfazione di Roberto Scazzieri, riprende e attualizza una delle più importanti tesi di Marx: la tendenza verso la centralizzazione del capitale, “una tendenza verso la centralizzazione del capitale in sempre meno mani, che disgrega l’ordine liberaldemocratico e alimenta la guerra militare tra nazioni”. Come sottolineano gli autori nella introduzione, all’interno del libro viene spiegato e approfondito “il legame tra centralizzazione capitalistica e assedio alla democrazia” (p. 9). L’intuizione di Marx relativa al processo di centralizzazione dei capitali viene pertanto trattata e approfondita alla luce delle recenti dinamiche economiche internazionali. La forza della legge relativa alla centralizzazione del capitale viene aggiornata e sistematizzata grazie alla network analysis. Gli autori calcolano un nuovo indice di network control che misura la percentuale degli azionisti detentori dei pacchetti di controllo della parte preponderante del capitale azionario quotato nelle borse (p. 99-137). In tal modo è possibile pervenire al “valore intrinseco del capitale controllato seguendo tutti i percorsi diretti e indiretti delle partecipazioni azionarie” (p. 107) .

Attraverso l’impiego di un modello vettoriale autoregressivo bayesiano (che viene ben spiegato in modo molto chiaro nella appendice a cura di Milena Lopreite e Michelangelo Puliga) Brancaccio, Giammetti e Lucarelli possono mettere in relazione la politica monetaria delle Banche Centrali con gli indici di centralizzazione precedentemente ricavati: una politica monetaria restrittiva, cioè un aumento dei tassi di interesse, “conduce a una riduzione del net control, ovvero alla riduzione della frazione di azionisti di controllo del capitale” (p. 124).

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laboratorio

La corruzione politica come strumento del capitale

di Domenico Moro

CorruzioneRecentemente il tema della corruzione politica ha riacquistato una notevole visibilità a causa delle inchieste della magistratura belga su ex e attuali eurodeputati, accusati di aver ricevuto denaro da parte del Qatar e del Marocco. A quanto sembra, la corruzione, elevata a sistema organizzato, ruoterebbe attorno a una Ong, Fight Impunity, nel cui Board siedono personaggi politici noti come Emma Bonino e Federica Mogherini[i], e il cui presidente è Pier Antonio Panzeri, un ex deputato europeo in quota Pd, che è stato arrestato[ii]. Panzeri è stato membro della direzione del Pd e prima ancora segretario generale della Camera del lavoro di Milano. Oltre a Panzeri sono risultati coinvolti anche il segretario della Confederazione dei sindacati mondiali ed ex sindacalista della Uil, Luca Visentini, e altri deputati del gruppo parlamentare europeo dei socialisti e democratici (S&D), tra cui la vicepresidente del Parlamento europeo, Eva Kaili, che è stata arrestata e sospesa dalle sue cariche.

L’inchiesta è caduta come una tegola sulla testa dei socialisti europei e su quella del Pd, già in difficoltà per la sconfitta alle recenti elezioni politiche e alle prese con la preparazione di un congresso e di primarie, che si preannunciano complicate. Tuttavia, non si può dire che, stando all’attualità, la corruzione riguardi solo l’Europa e il Parlamento europeo. Recentemente Ftx, una piattaforma di criptovalute statunitense, è fallita ed è stata accusata di frode, tanto che il suo fondatore, Sam Bankman Fried, è stato arrestato alle Bahamas per conto delle autorità statunitensi e rischia una condanna a 115 anni di prigione.

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paginauno

La guerra che fingiamo non ci sia

di Maria Rita Prette

Incontro-dibattito sul libro La guerra che fingiamo non ci sia di Maria Ri­ta Prette (Sensibili alle foglie, 2018), presso il Leoncavallo Spazio Pubbli­co Autogestito, Milano, 6 novembre 2022

7nytghyCredo sia molto importante parlare della guerra, una parola diventata un po’ tabù: nel senso che come Paese sono una trentina d’anni che fac­ciamo guerre, anche se non le dichiariamo più e le chiamiamo con altri nomi. A ben vedere, quando ho fatto questo lavoro, anch’io ho faticato a chiamare ‘guerra’ le cose che ho incontrato, perché hanno un caratte­re sleale e feroce che va ben oltre il modo in cui i conflitti sono stati concepiti dall’umanità fino al 1991. Dobbiamo quindi guardare queste nuove forme delle guerre per come si esprimono, per come vengono fatte, per i dispositivi che attuano, a partire dal momento in cui hanno cominciato a essere realizzate in queste modalità, ossia: non più due e­serciti che si confrontano.

Forse la seconda guerra mondiale è stato il conflitto ‘di passaggio’ verso questo nuovo modo, caratterizzato soprattutto dall’utilizzo dell’a­viazione; ormai ci siamo abituati al fatto che si bombardino delle città, dei quartieri, dei Paesi, che li si rada anche al suolo. Penso che dovremo rifletterci, perché bombardare una città e raderla al suolo - come han­no fatto gli americani a Dresda nel 1945 e come abbiamo fatto noi in tutti Paesi in cui siamo stati, dalla Somalia all’Afghanistan, alla Libia, alla Siria - vuol dire colpire dei civili. Questo è il primo tabù che viene rotto dalle nuove forme della guerra: a morire sono principalmente i civili, molto meno i soldati.