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Come siamo arrivati allo stato totalitario
di Chris Hedges - chrishedges.substack.com
La democrazia americana è stata distrutta dai due partiti al potere che ci hanno svenduti alle multinazionali, ai militaristi e ai miliardari. Ora ne paghiamo il prezzo
Per oltre due decenni, io e una manciata di altri — Sheldon Wolin, Noam Chomsky, Chalmers Johnson, Barbara Ehrenreich e Ralph Nader— abbiamo avvertito che la crescente disuguaglianza sociale e la costante erosione delle nostre istituzioni democratiche, tra cui i media, il Congresso, il lavoro organizzato, il mondo accademico e i tribunali, avrebbero inevitabilmente portato a uno stato autoritario o fascista cristiano. I miei libri — “American Fascists: The Christian Right and the War on America” (2007), “Empire of Illusion: The End of Literacy and the Triumph of Spectacle” (2009), “Death of the Liberal Class” (2010), “Days of Destruction, Days of Revolt” (2012), scritto con Joe Sacco, “Wages of Rebellion” (2015) e “America: The Farewell Tour” (2018) sono stati una serie di appelli appassionati a prendere sul serio il decadimento. Non provo alcun piacere nell’avere ragione.
“La rabbia di coloro che sono stati abbandonati dall’economia, le paure e le preoccupazioni di una classe media assediata e insicura e l’isolamento paralizzante che deriva dalla perdita di una comunità, sarebbero stati la base l’innesco per un pericoloso movimento di massa”, ho scritto in “American Fascists” nel 2007. “Se questi diseredati non venissero reintegrati nella società tradizionale, se alla fine perdessero ogni speranza di trovare un buon lavoro stabile e opportunità per sé e per i propri figli – in breve, la promessa di un futuro più luminoso – lo spettro del fascismo americano assalterebbe la nazione. Questa disperazione, questa perdita di speranza, questa negazione di un futuro, hanno portato i disperati tra le braccia di coloro che promettevano miracoli e sogni di gloria apocalittici”.
Il presidente eletto Donald Trump non annuncia l’avvento del fascismo. Annuncia il crollo della patina che mascherava la corruzione della classe dirigente e la loro pretesa di democrazia. È il sintomo, non la malattia. La perdita delle norme democratiche di base è iniziata molto prima di Trump, è ha aperto la strada al totalitarismo americano.
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Per una critica della ragione militare
di Antonio Prete
Nelle guerre in corso l’orrore, giorno dopo giorno, è addomesticato, reso tollerabile perché evocato come notizia tra le notizie, come accadimento quotidiano e usuale: la stessa parola guerra finirà con essere rubricata accanto a voci come borsa, sport, cronaca nera e di costume. Le tante testimonianze di reporter e giornalisti esposti al pericolo ci trascorrono dinanzi agli occhi, con la loro immensa gravità, senza che l’indignazione dal singolo si estenda alla moltitudine, senza che il sapere del dolore sconfinato si trasformi in un grido, senza che la conoscenza diventi denuncia assidua e corale delle responsabilità.
E anche laddove alcune parole potrebbero avere in sé una più adeguata corrispondenza alla sconfinata violenza messa in atto, si ricorre ad attenuazioni, a distinzioni, a rassicuranti comparazioni storiche: la parola genocidio, usata per indicare quel che accade a Gaza, è apparsa e continua ad apparire a molti impropria (anche se il Papa e alcune inchieste delle Nazioni unite l’hanno adoperata). Un’anestesia del tragico permette di non introdurre il turbamento e l’angoscia nel ritmo delle giornate e nelle quotidiane occupazioni.
Se nei decenni trascorsi alcune guerre provocavano tra intellettuali, scrittori, artisti, forti prese di posizione, appelli condivisi, analisi – penso a quel che accadde con la prima guerra del Golfo – ora l’indignazione non trova le vie di una sua rappresentazione diffusa. E persino le condanne emesse, su certificata e incontestabile documentazione, da una Corte internazionale di giustizia suscitano riserve, distinzioni, tentativi di neutralizzazione.
Eppure quel che accade continua a mostrare un’abiezione dell’umano propria dei tempi più tragici della storia. Sui vari fronti della guerra in Ucraina in tre anni ci sono state migliaia e migliaia di vittime, da una parte e dall’altra, e la distruzione di strutture non solo militari ha portato una devastazione di regioni e di paesaggi e di relazioni tra comunità della stessa lingua difficilmente ricomponibili.
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Contro la guerra. Come si può alzare il livello della lotta?
di Carlo Lucchesi
Perché ci stiamo avvicinando al baratro di un conflitto senza ritorno nell’indifferenza generale? Perché la guerra in Ucraina e il massacro in Palestina hanno prodotto reazioni neppure minimamente paragonabili a quelle che abbiamo visto in altre simili circostanze? Perché il movimento per la pace vive di rare e piccole manifestazioni e non scuote le coscienze?
Questi interrogativi non sono all’ordine del giorno di alcuna forza politica, di alcun sindacato, di alcuna istituzione, di alcuna chiesa, sfiorano appena il mondo degli intellettuali, sembrano poco presenti persino tra le forze che meritoriamente quanto stentatamente provano a fare qualcosa.
Eppure è solo dalla risposta a queste domande che può nascere una lotta che abbia qualche possibilità di successo.
In prima battuta viene da pensare che l’assenza di partecipazione, emotiva oltre che politica, a eventi tanto tragici sia dovuta in gran parte al fatto che nel sentire comune vengono viste come guerre a noi vicine, ma non così tanto, che si tratta di due porzioni di mondo che non ci toccano direttamente, che sono destinate a restare in quegli ambiti, che non è facile farsi un’idea precisa di dove stanno le ragioni e dove i torti, perché ognuno dei contendenti almeno una piccola parte di ragione in fondo ce l’ha. E poi, comunque, finiranno là dove sono iniziate, perché nell’era nucleare non è immaginabile una guerra più grande, non è pensabile che ci sia qualcuno così folle da innescare un conflitto che metta a rischio l’intera umanità.
Considerazioni apparentemente ragionevoli come queste erano diffuse anche in un passato non molto lontano quando, però, di fronte a guerre più vicine, come quella nell’ex Jugoslavia, o più lontane, come quella in Iraq, la voglia e la capacità di reagire furono ben diverse. Dunque la risposta va cercata altrove.
Va cercata partendo da una premessa che è la sola che possa dare un senso alla battaglia per la pace contro i costruttori di guerre.
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Il fango spagnolo. Piccolo manuale sulla resistenza
di Carlos X. Blanco
Siamo in gran parte spettatori passivi di uno spettacolo imbarazzante. Lo spettacolo di un'oligarchia indecente che ha perso il contatto con la realtà e che conosce solo la lealtà al padrone che li mantiene sul palcoscenico del potere e che li rappresenta come clown arroganti.
In tutto l’Occidente è lo stesso. Si parla di “democrazia liberale”, mentre si procede a un progressivo smantellamento del Welfare State. Il “Welfare”, un tempo esisteva e corrispondeva all’offerta pubblica di alcuni servizi sostenuti dall’erario, al fine di difendere “il capitalismo” dal pericolo rivoluzionario.
La ricostruzione dell’Europa occidentale dopo il 1945, cioè quella in cui i russi accettarono di fermarsi sulla “cortina di ferro”, comprendeva qualcosa di più del famoso “Piano Marshall”: nello stesso pacchetto rientrava l’ americanizzazione intensiva dell’Europa, cioè la sua conversione in un cretino. Le rovine, le montagne di cadaveri e macerie, furono ripulite dalla tempestiva pioggia di dollari. I dollari sono serviti affinché le élite “denazificate” del nostro continente diventassero lacchè dipendenti dagli yankee. Sono diventati tirapiedi incapaci di agire con la minima autonomia di fronte alla CIA e al Pentagono, che tiravano tutte le fila. Ancora oggi questi burattini vengono pagati direttamente dalle grandi multinazionali e dalle multinazionali, dai fondi spazzini e dagli scantinati dello Zio Sam. Tutto ciò che le élite europee guadagnano, sia legalmente occupando posizioni di grande reddito e generose indennità, sia con le tangenti illegali inerenti alla loro situazione privilegiata, è denaro che scorre direttamente dalle tasche dei cittadini ai paradisi fiscali, dove i soldi sono segretamente criptati, ma i conti non sono segreti per la CIA e per le altre entità terroristiche dell'Impero Yankee. Poiché l’informazione è potere, allo scagnozzo che forma l’élite o la casta europeista e demoliberale è consentito il suo arricchimento sporco e illegale. Ma purché non rappresenti un pericolo per l’Impero. In caso contrario, attenzione! Il segreto non è più un segreto. Tutta l’élite occidentale, da Macron e Sánchez, a Meloni o Scholz, è sostenuta e minacciata allo stesso tempo dal potere atlantista-capitalista.
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I tre livelli dell’ideologia. Contro la guerra tra i sessi
di Pier Paolo Caserta
Prima parte
Le ideologie possono essere analizzate facendo riferimento a tre livelli interfunzionali, che si chiariscono e si rafforzano a vicenda.
In primo luogo, tutte le ideologie hanno sempre avuto una vetrina attraente necessaria a compattare e aggregare attorno a sé, ingenerando persuasione. A questo livello esterno è affidato il compito di produrre e di diffondere le parole d’ordine.
Il livello più interno e profondo è formato dal nocciolo duro che costituisce la materia sulla quale le ideologie lavorano effettivamente, plasmando la coscienza degli individui e la loro rappresentazione della realtà.
La cintura esterna espone l’individuo-massa a contenuti palesi, mentre il nucleo interno ha carattere implicito, ma è proprio su questo che viene compiuto tutto il lavoro di modellizzazione dell’immaginario.
Il livello esterno, come ho detto, è popolato delle parole d’ordine dell’ideologia. È, in altri termini, il livello delle sfere discorsive, al quale sono affidati persuasione e reclutamento. Tra queste sfere discorsive, particolare importanza rivestono gli “incipit”, cioè punti di avvio che assolvono al compito fondamentale di incanalare il discorso pubblico sui binari lungo i quali proseguirà nella direzione e con il formato previsti, in modo quasi automatico, seguendo stilemi discorsivi replicabili. Il catechismo dell’ideologia ha un bisogno fondamentale di questi “attacchi” rigidi. Sono, per esempio, tipici incipit dell’ideologia liberal e politicamente corretta: “C’è ancora molta strada da fare”, “è un problema di mentalità/culturale” ecc. Proprio in quanto avviano il discorso secondo logiche preimpostate e linee argomentative univoche, gli incipit hanno anche la funzione precipua di escludere altre sfere discorsive che si aprirebbero verso narrazioni alternative, e che devono essere inabissate nel silenzio, sprofondate nella notte dell’invisibilità e della non-rappresentanza. Per esempio, l’incipit discorsivo “è una questione di mentalità” serve a prevenire e obliare la tesi alternativa che il problema sia, invece, economico e di classe – e, quindi, sostanzialmente non di genere. I diversi tasselli delle sfere discorsive si tengono evidentemente insieme.
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La cura del linguaggio/4. “Non si può equiparare Israele e Hamas”
di Dante Barontini
Ogni tanto è indispensabile fermarsi e ragionare. Viviamo in tempi di guerra, non esiste più alcuna informazione “neutrale”, l’”obiettività” latita, la professionalità – tranne rare eccezioni cui proviamo a dar riconoscimento – è un lontano ricordo o un alibi.
La propaganda di guerra è una macchina potente, articolata, internazionale. Non è “geniale” – quelli che, “a sinistra”, piangono sulla presunta “scarsa capacità di comunicazione” dicono sciocchezze – ma è la potenza di fuoco a decidere, non la finezza dell’eloquio o dell’argomentazione. Se si controllano tutti i media principali (tv, quotidiani, ecc) il vantaggio strategico è evidente.
Consapevoli che anche queste nostre considerazioni saranno facilmente sommerse dal mare di merda che i media mainstream vomitano h24, proviamo comunque a fornire un piccolo contributo di chiarificazione che può essere utile a chi, nel discutere in mezzo alla classe, deve districarsi tra parole che sembrano aver un significato universale, ma in realtà sono sempre il contrassegno di un’ideologia posta a difesa di interessi e di un rapporto di forza che ha il terrore di esser rovesciato.
Non è la prima volta che lo facciamo, e i risultati in qualche misura ci confortano…
L’innovazione linguistica più usata in questi giorni è stata elaborata per minimizzare – se non rovesciare – l’impatto politico-mediatico dei mandati di cattura emessi calla Corte Penali Internazionale contro Netanyahu, Gallant e uno dei pochi capi militari di Hamas forse ancora in vita.
E’ fin troppo evidente che il dover considerare due “buoni” per definizione come “ricercati in tutto il mondo” costringe tutti i governanti e i gazzettieri occidentali a giri di parole molto simili alla lotta nel fango. anche perché viene a crollare tutto l’edificio narrativo eretto a garanzia della “superiorità morale” delle “democrazie occidentali”.
E quindi analizziamo la frase di moda, con le sue pochissime varianti.
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Lotte palestinesi in Italia
di Jacques Bonhomme
1. La Palestina vista dall’Italia
Un’effervescenza di mobilitazioni, di assemblee, di manifesti, di dichiarazioni, accompagnati da tante, tante bandiere, in una coreografia spontanea e vivace di gesti e di discorsi nelle piazze: questa è la forma sociale in cui le lotte palestinesi attraversano l’Italia. La piazza non smentisce la rete attirando soltanto sparuti gruppetti, ma moltiplica gli effetti degli articoli, dei commenti e dei comunicati con cortei e raduni di massa trascinanti e combattivi. Sembra – e forse è ben più di un’impressione – che le resistenze sociali alle nuove discipline capitalistiche del lavoro, all’impoverimento sempre maggiore di ampi settori della società e alla militarizzazione della legislazione penale nel segno delle emergenze, abbiano finalmente trovato un collante capace di unificarne gli intenti e di concentrarne gli sforzi. Così, per quanto nessuna ricomposizione di classe possa essere intravista all’orizzonte, nelle fasce sociali dove il disagio e la sofferenza sono più acute e diffuse, ossia nelle fasce sociali più o meno proletarie o proletarizzate, l’avversione nei confronti dello “stato di cose presente” viene politicizzato attraverso differenti forme di coinvolgimento nelle azioni di massa costruite e animate dalle organizzazioni palestinesi.
Occorre dissipare un possibile malinteso: non siamo di fronte a una delega triste e obliqua, a una falsificazione equivoca di compiti e di ruoli e, meno che mai, può essere maliziosamente sospettato uno spostamento sostitutivo di scopi, ascrivibile a fantomatiche dinamiche inconsce; quanto avviene è piuttosto il “riconoscimento” di una dimensione storico-mondiale della lotta dei palestinesi, di una radicalità in essa racchiusa, di una radicalità determinata da un’inevitabile frattura delle linee di espansione, di accumulazione e di conquista dell’imperialismo occidentale. La lunghissima, rinascente e multiforme guerra di popolo dei palestinesi contro le strategie concentrazionarie, le pulizie etniche e il terrore militare di Israele, è stata, infatti, l’ostacolo che ha spesso spezzato la traiettoria del riassetto neocoloniale del Medio Oriente, rendendo avvertibile la possibilità di una Rivoluzione socialista araba.
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È tutto loro quello che luccica!
di Luca Busca
Netanyahu e Gallant in realtà più che subire “conseguenze di non poco conto” sono stati “graziati”, non più rei di genocidio ma solo di “banali” crimini di guerra, d’altra parte commessi anche dalla controparte palestinese
E sì, non è un errore di stampa, “è tutto loro quello che luccica” è l’unica risposta sensata all’atavica domanda “è tutto oro quello che luccica?”. E il mandato di arresto di Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant luccica parecchio. A prima vista sembra una piccola rivoluzione, il riconoscimento di una giustizia sana che tenta di fermare anche i potenti, gli intoccabili. Non solo ma come ha brillantemente scritto Jeffrey Sachs: “il mandato di arresto della CPI per Netanyahu è anche un’accusa alla complicità USA.”
Una luce completamente nuova, soprattutto se messa a confronto con il precedente di inizio millennio, che vide i crimini di George W. Bush, come Abu Graib, Guantanamo e un milione di civili iracheni uccisi, completamente ignorati. Di contro Saddam Hussein, reo di mancato possesso di armi di distruzione di massa, venne condannato a morte da un tribunale fantoccio. “A Bagdad si è invece celebrata, per i fatti di Dujail, una farsa. I giudici sono stati nominati dall’esecutivo (il Consiglio di governo) e da esso sostituiti quando non si allineavano sulle posizioni ufficiali delle autorità o si dimostravano scarsamente efficaci. Il tribunale sin dall’inizio è stato finanziato dagli Usa, che hanno anche elaborato il suo Statuto, poi formalmente approvato dall’Assemblea nazionale irachena, nell’agosto 2005. (studiperlapace.it)
La notizia del mandato d’arresto per Netanyahu e Gallant ha suscitato immediate reazioni di entusiasmo e giubilo in tutte le tipologie di pacifisti che popolano l’articolato mondo del dissenso. Più pacate quelle dei governanti italiani con Crosetto ad affermare “la decisione della CPI, anche se sbagliata va applicata”. La Meloni con la sua consueta moderazione ha dichiarato: “Approfondirò in questi giorni le motivazioni che hanno portato alla sentenza della Corte Penale Internazionale. Motivazioni che dovrebbero essere sempre oggettive e non di natura politica”. Più determinato il “ministro degli Esteri Antonio Tajani cerca di trovare spiragli per non applicare la sentenza in Italia in caso di viaggio nel nostro Paese del primo ministro d’Israele accusato di crimini di guerra, mentre la Lega di Matteo Salvini definisce la sentenza della Corte internazionale addirittura «filo islamica».
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Nichilismo fase suprema del servilismo
di Fulvio Bellini
Premessa: non esistono presidenti americani buoni
In questo articolo non faremo un’analisi delle elezioni americane vinte da Donald Trump simile a quelle che vengono pubblicate copiosamente in questi giorni, ne faremo una da un particolare punto di vista, quello di eminenti esponenti della sinistra neoliberale italiana. Nonostante pronostici e sondaggi, per chi ancora non ha compreso che sono solo strumenti di propaganda e che tutto fanno tranne rilevare le reali tendenze di voto, Trump ha letteralmente trionfato su Kamala Harris, che invece veniva data in leggero vantaggio fino alla vigilia delle elezioni. In questo articolo non si prenderanno le parti di Donald Trump il quale, semplificando eccessivamente perché il comportamento dei tre poli elitari americani, bostoniani, texani e californiani, non è tema di questo scritto, è un oligarca destrorso che rappresenta se stesso, la sua cerchia e altri oligarchi ancor più potenti di lui, e ogni riferimento a Elon Musk è puramente voluto. Tantomeno si piangerà la sonora e meritata sconfitta di Kamala Harris, un burattino di poca qualità politica che sarebbe stata nelle mani di altri oligarchi che abitano Wall Street, il New England e i prestigiosi quartieri ebraici di New York. Abusando delle categorie morali “buoni” e “cattivi” che tanto piacciono ai propagandisti occidentali, con le loro doppie misure, e con la larghezza colla quale affibbiano aggettivi di fascista e nazista oppure democratico e liberale a vanvera e in evidente contrasto colla realtà, dobbiamo solo ricordarci che dal 1789, nomina di George Washington, non sono mai stati eletti presidenti americani “buoni”. Utile alla nostra analisi possono essere alcune osservazioni sulla tornata presidenziale americana. Donald Trump ha il merito di aver semplificato e chiarito cosa siano gli Stati Uniti oggi: una palese plutocrazia, dove un gruppo di oligarchi ben più potenti e privi di scrupoli dei famigerati colleghi russi, pagano milioni di dollari per mettere un loro rappresentante alla Casa Bianca. A differenza dell’Europa, dove la condizione di province imperiali impedisce di avere alternative politiche a neoliberismo e atlantismo, da qui il fenomeno del Partito unico evidente in molti Paesi della Ue, nella metropoli imperiale vi sono reali strategie diverse e poderosi scontri d’interessi.
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Trump, Ahou Daryaei, tifosi del Maccabi: tre casi di propaganda emozionale
di Luca Busca
Negli ultimi anni la comunicazione mainstream si è fatta sempre più violenta e meno credibile. Il suo scopo sembra essere solo quello di dividere l’opinione pubblica in due fazioni, a loro volta frammentate in infinite frange, e di alimentare lo scontro in modo da rendere inconsistente il dissenso. Senza un’opposizione coesa e attiva, i crimini, come il genocidio palestinese, commessi quotidianamente contro l’umanità dai regimi propagandati da questo tipo di comunicazione diventano ammissibili, giustificabili.
Le occasioni per vedere all’opera questo sistema di comunicazione sono infinite. Per chi lavora nel settore riuscire a stare dietro a questa macchina propagandistica è un’impresa ciclopica, non si fa in tempo a disattivare una trappola che i media mainstream ne urlano un’altra all’unisono sulle loro prime pagine. Solo negli ultimi giorni è stato dato ampio rilievo a tre di questi inganni. Il primo, la netta vittoria di Trump alle elezioni presidenziali statunitensi, ha avuto grande risonanza in virtù della sua rilevanza internazionale. Gli altri due, la ragazza in biancheria intima che passeggia in un campus universitario in Iran e il pestaggio di tifosi del Maccabi in trasferta ad Amsterdam, pur incidendo molto meno sulla vita sociale occidentale, hanno avuto grande risalto nella propaganda di regime.
Nel primo caso la campagna elettorale della Harris è stata impostata, almeno in Italia dove comunque nessuno avrebbe potuto votarla, come l’ultima spiaggia per salvare la democrazia dal baratro trumpiano. Un po’ come nel Bel Paese i post-democratici del PD si presentano come baluardo contro il fascismo dilagante. Il risultato è stato identico in entrambi i paesi e ormai in buona parte del mondo Occidentale: i fascisti dipinti di rosso (chiamarli “sinistra” mi sembra una bestialità) vengono sistematicamente battuti dai fascisti di nero vestiti, nulla cambia e il Capitale trionfa sovrano.
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La notte della ragione
di Matteo Nucci
Viviamo tempi di una mestizia atroce. Ci siamo collettivamente consegnati a un’interpretazione della realtà così priva del minimo senso critico che davvero mancano le parole. Si tira avanti mettendo da parte l’orrore pur di evitare la rabbia che scava negli intestini. Forse sarebbe anche sano rinchiudersi nella propria fortezza, se non fosse così pericoloso. Se il futuro non si facesse sempre più fosco. Gli episodi di Amsterdam sono un caso di scuola. Torniamoci sopra.
Le vicende degli scontri seguiti alla nota partita di calcio fra Ajax e Maccabi Tel Aviv hanno invaso le prime pagine dei quotidiani europei evocando lo spettro dell’antisemitismo. Ammetto di essere rimasto prima sconcertato, poi turbato dalla rabbia, e infine impaurito. Si tratta di una deriva pericolosissima, un gorgo inerziale a cui temo che non sarà semplice sottrarsi. Un pantano in cui miopia e ignoranza unite a un basso calcolo politico e ideologico, rischiano di riportarci davvero di fronte all’orrore.
La storia di questi giorni, infatti, potrebbe essere lasciata correre come uno dei classici casi in cui la superficialità dei resoconti dominante in questi tempi ha spinto le cose un po’ troppo in là. Purtroppo però si inscrive in un contesto che la rende significativa, anzi appunto esemplare. Ma andiamo con ordine. E cominciamo da quel che è accaduto. Ossia una storia del tutto diversa dai resoconti della stampa dominante. Non sto facendo riferimento a fonti alternative di una presunta controinformazione. Parlo dei rapporti offerti dalle autorità e in particolare dalla polizia di Amsterdam. I fatti sono stati spiegati più volte.
I tifosi israeliani del Maccabi, già noti per le posizioni razziste estremiste, sono sbarcati ad Amsterdam gridando slogan di questo genere “A Gaza non ci sono più scuole perché non ci sono più bambini olé olé olé”, “Let the IDF fuck the Arabs”, “Morte agli Arabi” e via dicendo (circolano testimonianze video esaurienti). Poi, in una città in cui la sensibilità per il genocidio a Gaza è alta, divisi in gruppetti sparsi per le vie, hanno strappato bandiere palestinesi pacificamente appese alle finestre dei palazzi, per distruggerle o bruciarle (in questo caso, almeno due sono i video davvero imbarazzanti).
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Chris Hedges: Scheda di valutazione dei genocidi
di Chris Hedges* - Scheerpost
Un rapporto delle Nazioni Unite, pubblicato di recente, descrive con agghiaccianti dettagli i progressi compiuti da Israele a Gaza nel tentativo di sradicare “l'esistenza stessa del popolo palestinese in Palestina”. Questo progetto genocida, avverte minacciosamente il rapporto, “si sta ora diffondendo in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est”.
La Nakba o “catastrofe”, che nel 1948 vide le milizie sioniste cacciare 750.000 palestinesi dalle loro case, compiere più di 70 massacri e impadronirsi del 78% della Palestina storica, è tornata con gli stessi effetti. È il prossimo e, forse, ultimo capitolo di “un trasferimento e una sostituzione forzata a lungo termine, intenzionale, sistematica e organizzata dallo Stato, dei palestinesi”.
Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, che ha pubblicato il rapporto, intitolato “Genocidio come cancellazione coloniale”, lancia un appello urgente alla comunità internazionale affinché imponga un embargo totale sulle armi e sanzioni a Israele fino a quando il genocidio dei palestinesi non sarà fermato. Chiede a Israele di accettare un cessate il fuoco permanente. Chiede che Israele, come richiesto dal diritto internazionale e dalle risoluzioni delle Nazioni Unite, ritiri i suoi militari e coloni da Gaza e dalla Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est.
Come minimo, Israele, non controllato, dovrebbe essere formalmente riconosciuto come uno Stato di apartheid e persistente violatore del diritto internazionale, afferma Albanese. Le Nazioni Unite dovrebbero riattivare il Comitato speciale contro l'apartheid per affrontare la situazione in Palestina e sospendere l'adesione di Israele alle Nazioni Unite. In mancanza di questi interventi, l'obiettivo di Israele, avverte Albanese, probabilmente si realizzerà.
Potete vedere la mia intervista con Albanese qui.
“Questo genocidio in corso è senza dubbio la conseguenza dello status eccezionale e della prolungata impunità che è stata concessa a Israele”, scrive l' esperta. “Israele ha sistematicamente e palesemente violato il diritto internazionale, comprese le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e gli ordini della Corte penale internazionale.
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C'era una volta l'America
di Algamica*
Le elezioni americane erano molto attese quasi che esse avrebbero deciso le sorti del mondo su una serie di problemi in modo particolare in Occidente, ma – senza che ci nascondiamo la realtà – anche nel resto del mondo. Queste elezioni hanno eletto Trump. E ora?
Anticipiamo la nostra tesi: l’America non potrà più essere quella che finora è stata. Cerchiamo allora – brevemente – di chiarire ciò che è stata e perché non potrà più essere tale. Altrimenti parliamo del nulla.
Una prima considerazione
Le elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America appena consumatesi hanno rilevato un passaggio in avanti nella tendenza non lineare verso il crack degli Stati Uniti per come la storia moderna ha caratterizzato in maniera eccezionale l’America in relazione al resto del mondo contemporaneo che, recentemente, si affaccia sul comune mercato. Un passaggio, quello elettorale, che in Occidente dichiaravano essere storico e determinante per il futuro stesso delle democrazie occidentali.
Nell’aprile del 2023, in prefazione al libro di Michele Castaldo Modo di produzione e libero arbitrio, scrivevamo che negli ultimi 3 anni, «…nel cuore pulsante del capitalismo mondiale, gli Stati Uniti, abbiamo visto e sentito risuonare più volte l’infrangersi della cristalleria, mentre a Tel Aviv, in Israele, si assiste al persistere dei raduni di centinaia di migliaia di israeliani nelle proteste denominate “giornata della disgregazione”. Mentre scrivo questa prefazione, dalla California al cuore dell’Europa i capitali fuggono dalle banche, che inevitabilmente collassano e questa fuga non può più essere spiegata dallo schema delle bolle finanziarie che occasionalmente esplodono…».
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Trump torna sul trono di un’America in crisi
di Roberto Iannuzzi
Come già durante il primo mandato ottenuto nel 2016, Trump rappresenta un sintomo – non la causa – della crisi degli Stati Uniti, e di certo non ha in mano la ricetta per arrestarne il declino
Non è stato un testa a testa, come annunciavano tutti i sondaggi. Donald Trump ha vinto con grande margine, aggiudicandosi almeno 295 collegi (270 sono necessari per ottenere la presidenza) e lasciando Kamala Harris a 226 (dati quasi definitivi).
Il magnate repubblicano ha prevalso nei principali swing states (Wisconsin, Pennsylvania, Michigan, Georgia). Cosa non scontata, si è aggiudicato anche il voto popolare, con oltre 73 milioni di preferenze (la Harris è rimasta a 69).
I repubblicani hanno ottenuto la maggioranza al Senato (almeno 53 seggi) e sembrano avviati a mantenerla anche alla Camera. Trump ha attirato il voto della classe lavoratrice, dei giovani, dei neri, degli ispanici. Una vittoria che appare schiacciante su tutti i fronti.
Le ragioni del tracollo democratico
Come hanno fatto i democratici a perdere di fronte a un avversario che essi vedevano come un ex presidente due volte posto sotto impeachment, un criminale, un fascista, un buffone continuamente dileggiato?
Ecco alcune risposte a questo interrogativo, che perfino il New York Times ha saputo chiaramente elencare a posteriori: la designazione della Harris, un candidato debole, durante un frettoloso e antidemocratico processo di successione al presidente uscente Joe Biden; la sua incapacità di differenziarsi da quest’ultimo; la sua sciocca insistenza nel definire Trump “un fascista”, la quale implicava che anche i suoi sostenitori lo fossero; la sua eccessiva dipendenza dalle celebrità affiancata a un’evidente inabilità a formulare una motivazione convincente per la sua candidatura.
Nemmeno la guerra di sterminio condotta da Israele a Gaza, con la piena complicità e collaborazione dell’amministrazione Biden, ha favorito i democratici.
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Votare contro il cattivo di turno
di Nicola Melloni
Le elezioni presidenziali Usa sono l'ultimo esempio della tendenza alle urne degli ultimi anni: scegliere il meno peggio. Ma siamo sicuri che serva davvero a sventare il pericolo delle destre?
Con le elezioni statunitensi che si avvicinano, torna centrale il dibattito sul cosiddetto voto per il meno peggio – che prevede di votare Kamala Harris per cercare di fermare il pericolo rappresentato da Donald Trump. Nulla di nuovo, in Italia siamo abituati almeno dal 1994 e dal voto «contro» Berlusconi e raramente «a favore» dell’altra coalizione – anche se in verità già Indro Montanelli invitava a votare la Democrazia cristiana «turandosi il naso» per fermare un altro pericolo, quello comunista.
La logica del meno peggio è particolarmente importante in periodi di polarizzazione e grande tensione politica, quando chi abbiamo davanti non è solo un avversario ma un nemico che mette a rischio l’esistenza stessa della democrazia. Ecco allora che davanti a un rischio del genere, l’unica cosa da fare è un «fronte comune», il cui collante è la difesa della libertà, e la lotta contro fascismo, razzismo, intolleranza. Un compito nobile, il cui costo è però, spesso, la rinuncia a un programma politico coerente o che parli ai bisogni concreti delle persone. La situazione è poi esasperata da sistemi politici bi-partitici o bi-polari, dove la vittoria dell’uno è la sconfitta dell’altro.
Se da una parte, dunque, la sconfitta dell’altro è la determinante principale del voto, dall’altra la politica attuale sembra esistere solo intorno alla vittoria elettorale, che par quasi esser diventato l’unico mezzo per far politica, spesso dimenticando il ruolo chiave che le opposizioni dovrebbero giocare nella polis democratica. Ci viene spesso ripetuto che solo al governo si possono cambiare le cose, anche se «cosa» cambiare rimane spesso molto vago. Ed è la sinistra che viene costantemente chiamata a baciare il rospo, per ovvi motivi.
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