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Trump, Le Pen, AFD: abbiamo finalmente un’alternativa?

di OttolinaTV

spiegel U24065077578ucq 1440x624IlSole24Ore WebOh! Finalmente quando ci saranno Trump, Le Pen e Alternative fur Deutschland, quegli ipocriti dei progressisti globalisti la finiranno di fare guerre e di seminare il terrore in giro per il mondo; l’imperialismo dei finti buonisti è finalmente sconfitto e il popolo e la democrazia stanno per trionfare! Ce l’avrete sicuramente anche voi quell’amico un po’ speciale che, da una parte, si dichiara anti-sistema e dice di essere per la democrazia e gli interessi classi popolari e, dall’altra, esulta per tutte le vittorie elettorali della peggiore destra identitaria solo perché almeno non hanno vinto i Biden, i Macron o gli Scholz di turno (che culo!) o che, addirittura, vagheggia di improbabili alleanze tra le destre suprematiste del pianeta e le forze socialiste in nome della comune lotta al capitalismo e alla globalizzazione. Ora, se fino a qualche anno fa allucinazioni di questo tipo erano quantomeno scusabili – data l’assoluta egemonia culturale del progressismo liberale che poteva davvero far pensare ad un nemico comune – oggi invece potrebbero dimostrarsi dei deliri estremamente pericolosi perché, come si sottolinea anche in un recentissimo studio dell’istituto di scienze sociali tedesco Tricontinental, una nuova forma di destra sembra prendere sempre più piede nella politica occidentale; una destra tanto diversa dalla destra liberale e finto conservatrice a cui ci eravamo abituati negli ultimi decenni, quanto dalla destra fascista del ‘900, con la quale pure sembrare mostrare qualche inquietante analogia. Una destra, insomma, in gran parte inedita, ben rappresentata da Trump e dai suoi imitatori europei che oggi fanno il pieno alle urne e che, contrariamente al wishful thinking di qualche compagno sui generis, non sembra avere nessuna intenzione di mettere in discussione i rapporti di forza oligarchici nelle nostre società, né di porre fine alla volontà di dominio dell’Occidente sul resto del mondo. Insomma: proprio nulla di anti-sistema; una destra, anzi, che agli occhi delle tanto detestate élite transnazionali potrebbe rivelarsi particolarmente funzionale alla nuova fase storica che stiamo vivendo, tanto che potrebbe essere capace di imporre, nei prossimi anni, una vera e propria nuova egemonia culturale.

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lafionda

La visita di Meloni a Pechino e il senso delle relazioni Italia-Cina

di Alberto Bradanini

meloni xi.jpeg1. Sebbene sia trascorso appena un mese, che nel vortice di un mondo in ebollizione sembra un secolo, resta d’interesse gettare uno sguardo sul viaggio in Cina, a fine luglio, della Presidente del Consiglio. A Pechino, Giorgia Meloni è stata ricevuta con ogni decoro, alla luce della tradizionale ospitalità cinese, ma anche degli interessi che la Cina mira a tutelare nel suo rapporto con l’Italia, membro formale del G7 e una delle prime otto/nove economie al mondo. Qualche settimana prima si era recato a Pechino anche il Ministro delle Imprese e del Made in Italy, A. Urso, mentre il capo di Stato S. Mattarella concluderà in autunno un’insolita triade di viaggi istituzionali italiani in Cina.

Per comprendere il senso di tali interlocuzioni, in particolare la visita di G. Meloni, di cui questo scritto si occupa, è necessario scendere sotto la superficie per catturare quel prisma di sottintesi/malintesi solitamente rimosso per pigrizia, convenienza o pavidità. Un esercizio questo che offre altresì l’occasione per toccare altri aspetti di natura internazionale, scollegati dalla visita, ma utili alla riflessione.

A Pechino, G. Meloni ha incontrato i vertici della Repubblica Popolare, il presidente Xi Jinping, il primo ministro Li Qiang, il presidente dell’Assemblea Nazionale del Popolo, Zhao Leji, tutti consapevoli, ça va sans dire, che i due paesi hanno un peso economico e politico ben distinto, oltre ad appartenere a diversi sistemi di alleanze.

Deve rilevarsi che le intese raggiunte non hanno per i due paesi una valenza di impegni formali. L’Italia, infatti, quale membro della gabbia europea, non può sottoscrivere accordi bilaterali veri e propri, una competenza questa che spetta solo alla Commissione Ue, sul cui sostegno l’Italia non ha mai potuto contare.

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carmilla

Avanti barbari!/4

Una precisazione necessaria

di Sandro Moiso

Malcom.jpg«Voi non sapete cos’è una rivoluzione, se lo sapeste non usereste questa parola. Una rivoluzione è sanguinosa. La rivoluzione è ostile. La rivoluzione non conosce compromessi. La rivoluzione rovescia e distrugge qualsiasi ostacolo trovi sul suo cammino. Chi ha mai sentito parlare di una rivoluzione in cui si incrociano le braccia per cantare We Shall Overcome? Non è quello che si fa durante una rivoluzione. Non avreste il tempo di cantare, poiché sareste troppo impegnati a impiccare.» (Malcom X, discorso alla King Solomon Baptist Church di Detroit, 10 novembre 1963)

Alcune settimane or sono, nel primo intervento intitolato «Avanti barbari!» dedicato alla recensione di un testo di Louisa Yousfi, sono state fatte alcune affermazioni che, a giudizio di chi scrive, occorre ancora approfondire e chiarire, in tutta la loro reale portata, con una serie di precisazioni. A partire da quella, contenuta nel testo di Amadeo Bordiga del 1951, che «questa civiltà […] deve vedere la sua apocalisse prima di noi. Socialismo e comunismo, sono oltre e dopo la civiltà […] Essi non sono una nuova forma di civiltà.»

Motivo per cui non vi sarà nessuna continuità tra l’ordine sociale capitalistico e la novella società futura, se questa rifiuterà i fondamenti del primo. Il comunismo non potrà essere in continuità con il capitalismo, poiché, per essere definibile come tale dovrà costituirne la radicale negazione. Infatti, soltanto la rottura dell’ordine sociale, politico ed economico del modo di produzione capitalistico, a partire dalla sua macchina statale, potrà condurre a un altro ordinamento sociale e produttivo. Destinato a negare radicalmente i valori ordinativi che una interessata interpretazione della Storia ha attribuito a ciò che si intende per civiltà.

Chi continua ad affermare il contrario dimostra soltanto di voler ancora illudere, e illudersi, che la transizione verso il nuovo mondo, non più basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta e accumulata e lo scambio mercantile e monetario, anche del lavoro prestato, possa avvenire senza scosse e senza abolire i pilastri, appena citati, che la fondano fin dalle sue origini.

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comedonchisciotte.org

Putin ha già perso! Anzi, no, Putin ha già vinto!

di Nestor Halak

napoleon 4114403 340.jpgDopo due anni e mezzo in cui la carneficina è andata avanti, ma la situazione non si è affatto risolta, mi pare si possano fare alcune ulteriori osservazioni sulla guerra in Ucraina. Sì, lo so, non sono un analista militare, perciò secondo molti non sono autorizzato a parlarne: cosa volete che ne sappia infatti un commentatore da poltrona senza neppure le stellette? Certo non sono uno dei (tanti), generali o colonnelli in pensione che vanno per la maggiore e certo a nessuno viene in mente di chiedere il mio parere.

A ben vedere si tratta delle stesse argomentazioni usate durante la “pandemia”, quando parlare era consentito unicamente ai “virologi”, una sottospecie di star televisive creata all’uopo dal mainstream. Ma siccome ero io a essere messo agli arresti domiciliari, ero io che avevo l’obbligo di punturarmi ed ero sempre io che non potevo neppure più entrare all’ufficio postale o prendere un caffè in un bar, ritenevo allora e ritengo ancora oggi di avere tutto il diritto di esprimere il mio parere.

Se poi si tratta di sciocchezze, va bene, che lo si dimostri, ma con ragionamenti argomentati, non con il semplice richiamo al principio di autorità. Oggi che i miei soldi, in spregio alla nostra legge fondamentale, vanno a finanziare la guerra per conto terzi del regime di Kiev anziché la pubblica sanità, mi sento in assoluto diritto di discettare anche a proposito della guerra, del resto non come analista militare, ma come cittadino in grado di ragionare, che ha seguito gli eventi e si è informato sui fatti anziché abbeverarsi unicamente alla vergognosa propaganda continuamente in onda sui media.

In particolare seguo costantemente quanto riferiscono alcuni canali alternativi come Military Summary, e personaggi come Alistair Crook, Douglas McGregor, Scott Ritter, Alexander Mercouris, Stefano Orsi, Larry Johnson, Dimitry Orlov e molti altri, i quali, più o meno unanimemente, continuano a sostenere che la guerra è già finita da almeno un anno e mezzo e i russi l’hanno vinta.

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acropolis

Capitalismo, rabbia di massa ed elezioni del 2024

di Richard D. Wolff

f940e720b0006c28f2475fb2f787895e a214fd7754664a9a90ab5ffac41e9ad8 1 1.jpgMentre Richard Wolff fa importanti osservazioni su come sia la presunta sinistra che la presunta destra abbiano abbandonato i cittadini comuni e si siano dedicati agli interessi dei ricchi, e che l’umore collettivo sia aspro e sempre più indignato, ho difficoltà con le sue affermazioni sulla “rabbia di massa”. Non vediamo movimenti di massa attorno agli effetti generalmente oppressivi del moderno rentierismo. Il neoliberismo ha fatto un lavoro così grande nel ridurre l’identificazione con le comunità e nell’indottrinare i cittadini a vedersi come attori indipendenti che i movimenti di massa e l’identificazione di massa sono quasi inesistenti. Quando si verificano, sono più spesso lungo linee tribali, non linee economiche, come sostenitori pro e anti aborto, pro e anti o anti-forti diritti trans, pro o anti genocidio israeliano e pro o anti Hair Furore.

Bernie Sanders è stato l’ultimo politico importante a tentare quello che negli anni ’60 sarebbe stato definito un’opera di sensibilizzazione. Il Partito Democratico gli si è lanciato contro a capofitto, preferendo eleggere il disastroso Biden piuttosto che vedere Sanders prevalere.

Questa pubblicità di Killer Mike per Sanders illustra la necessità di creare esplicitamente un’identità di massa sulle questioni economiche. Killer Mike inizia dicendo come aveva personalizzato la sua esperienza di uomo di colore con meno diritti, e poi è arrivato a capire che tutti coloro che non appartenevano all’1% erano oppressi:

https://youtu.be/WnWTB5MCMPk

Torniamo alla questione tribale. Quindi non solo gli USA sono gravemente carenti di movimenti di “massa”, salvo lungo linee di interessi particolari come i gunz, ma le lamentele economiche in genere mancano del senso di urgenza che hanno le questioni religiose o quasi religiose scottanti.

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comedonchisciotte.org

C’è del marcio a Washington

di Philip Giraldi - unz.com

Scott Ritter è perseguitato dall'FBI per aver invocato la pace mentre la lobby israeliana manipola le elezioni

ritter 750x430.jpgUna cosa che si può dire dell’Amministrazione del Presidente Joe Biden è che, quasi ogni settimana, c’è qualcosa di nuovo ed emozionante di cui discutere. Di recente, la sua demenza galoppante ci ha regalato un discorso di abdicazione durato 11 minuti, in cui Joe ha annunciato che non si sarebbe candidato per un altro mandato presidenziale. Ha farfugliato che stava facendo questo passo nonostante il suo desiderio di continuare. Il Presidente, che ha 81 anni e che negli ultimi tempi si è fatto notare soprattutto per il suo carente stato mentale che lo porta a cadere dalle scale, si è sentito in dovere di dire che ritiene che i suoi risultati come Presidente “meritino un secondo mandato” e che “nulla può ostacolare la salvezza della nostra democrazia”. Ha anche affermato di essere ”il primo presidente in questo secolo a riferire al popolo americano che gli Stati Uniti non sono in guerra in nessuna parte del mondo”, anche se gli USA occupano militarmente alcune parti della Siria, bombardano lo Yemen e sono impegnati in attività antiterroristiche in Iraq, oltre a sostenere logisticamente e con l’intelligence i grandi e crescenti conflitti in Ucraina e a Gaza. Biden ha promesso che “difenderà” Israele in caso di attacco, presumibilmente indipendentemente da chi il Primo Ministro Benjamin Netanyahu assassinerà o bombarderà per provocare una guerra contro Libano, Siria e Iran. Joe ha infine celebrato la nomina di Kamala Harris come erede designata allo Studio Ovale dopo aver eliminato il fastidioso e assertivo Donald Trump, che, presumibilmente, è colui che straccerà la Costituzione degli Stati Uniti e “distruggerà la democrazia” se gliene verrà data la possibilità.

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sbilanciamoci

La Meloni, la Cina, l’auto

di Vincenzo Comito

La presidente del Consiglio ha avuto colloqui di alto livello, a partire da quello con Xi. Ma non si è portata alcun dossier aperto. Anche sull’auto e l’ingresso di produttori cinesi in Italia, mentre si decidono dazi in Europa, non si notano passi avanti

DSC 4793 PP.jpgI risultati degli incontri della Meloni in Cina

La gran parte degli atti e delle dichiarazioni dei membri di questo governo, a partire da quelli di Giorgia Meloni, si possono, almeno a parere di chi scrive, tranquillamente classificare in tre ampie categorie: quelli negativi, quelli di pura propaganda, quelli infine del tutto inutili. Per quello almeno che si sa, il viaggio della presidente del Consiglio in Cina appartiene a quest’ultima categoria sia sul fronte economico che su quello politico.

Il successo del viaggio nel paese asiatico di una delegazione straniera si misura il più delle volte con il peso economico dei progetti da realizzare annunciati; si parla così di accordi, cifrati di solito in dollari, per 1 miliardo, 5 miliardi, 20 miliardi e così via. Di tutto questo nei documenti degli incontri non c’è alcuna traccia e neanche un vago accenno. Il ministro D’Urso assicura che le intese concrete seguiranno. Vedremo…

Cina e Italia hanno firmato in effetti un accordo triennale che, dopo il recente raffreddamento dei rapporti tra i due paesi, in teoria delinea dei meccanismi per rafforzare e rilanciare la cooperazione in diversi ambiti. L’elenco è molto lungo e comprende quasi tutto; sono citati i settori dell’industria e del commercio, gli investimenti, la tutela della proprietà intellettuale e delle indicazioni geografiche, l’agricoltura e la sicurezza alimentare, l’ambiente e lo sviluppo sostenibile, la cultura e il turismo, il contrasto alla criminalità organizzata, senza infine dimenticare l’istruzione. Come ha scritto qualcuno, una bella cornice, ma manca il quadro.

Si è poi parlato in particolare di veicoli elettrici e di energia pulita, oltre che di intelligenza artificiale.

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linterferenza

Circa Trump

di Alessandro Visalli

harris trump 690x362.jpgIncombe la fase finale delle elezioni americane. Ogni quattro anni viene riproposto questo spettacolo dai toni profondamente religiosi del duello tra ‘messia’. Un giudizio di Dio accuratamente imbastito da mani sapienti. Con gran rullo di tamburi, il “popolo” viene chiamato a scegliere quale front man si dovrà fare carico di rappresentare la disgregazione che nutre il cuore dell’impero occidentale. Esiste, probabilmente, un nesso funzionalmente necessario tra questa disgregazione e la ciclica riproduzione di una guerra civile ritualizzata capace di fornire l’alias di un sistema di valori comunitari rispettivamente orientati gli uni contro gli altri. L’assenza di autentici elementi di connessione comunitaria, in un ambiente ultra-frammentato sotto ogni profilo, e nel quale la promessa della prosperità (unico sostituto plausibile della salvezza ultramondana nella quale collettivamente non si crede più) per troppi si allontana generazione dopo generazione, rende, in altre parole, necessario per poter funzionare quanto basta da conservare il proprio auto-attribuito ruolo mondiale, che sia messo in scena un sostituto. E allora si cerca la salvezza mondana non già nell’identificazione di nemici collettivi scelti dall’effettiva gerarchia sociale operante (ovvero, in quello che una volta si chiamava il ‘nemico di classe’), quanto in presunti nemici della ‘nazione’. Nemici, che sono, insieme all’identificazione di ciò che è la ‘vera’ nazione, interni e trasversali. Contro questi si alza un messia.

Chiaramente ogni quattro anni, puntualmente, ci viene raccontato con grande spesa e fine capacità retorica che la scelta è epocale. Si tratta invero di designare l’anticristo o il vero messia. Colui (o colei) il quale porterà il bene e la pace al mondo, colui che comprende e riunisce in sé tutto l’essenziale e individua il punto cruciale e dirimente.

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comedonchisciotte.org

Trump e il complottismo

di Nestor Halak

caricature 2069820 1280.jpgImmediatamente dopo il tentativo di assassinare Trump, ancora prima di conoscere esattamente cosa fosse successo, su internet già fiorivano decine di differenti ipotesi “alternative” che ci davano avviso di quanto le cose potessero essere diverse da come apparivano. Ancora prima che ci fosse una “teoria ufficiale” da smentire, già la smentivano.

Né sono stati da meno i media mainstream che fin da subito hanno fatto il possibile per minimizzare l’accaduto, per ironizzare sull’accaduto, per insinuare dubbi sulla “realtà” dell’accaduto che poteva essere in fondo anche una “rappresentazione”. Meglio non parlarne affatto, ma se proprio un accenno vogliamo farlo, non chiamiamolo attentato, piuttosto incidente, non usiamo la parola assassinio, sottolineiamo il lato umoristico: da subito sono cominciate a circolare vignette ironiche e prese in giro, tanto da far sospettare che ci siano professionisti pagati per questo.

A pochi minuti dall’”incidente” già circolavano tesi che si trattasse di un falso, magari organizzato dallo stesso Trump a scopo di propaganda, magari si era buttato per terra e aveva aperto una bustina di salsa di pomodoro per fare il drammatico: può essere, ma allora perché gli spari non erano a salve, perché ci sono morti e feriti? Ma, forse gli spari erano veri, ma si mirava al pubblico: un paio di morti aggiungono drammaticità e sapore di verità! Uno spettatore in più o in meno, che differenza fa? Be, per loro qualcuna ne fa. Maga lives don’t matter! Però il proiettile sembra essere passato pericolosamente vicino alla testa… Ma no, era tutto calcolato! E poi certa gente si ucciderebbe pur di far sembrare vero un attentato!

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lafionda 

La locomotiva arresta la sua corsa: la crisi della Germania

di Paolo Arigotti

1685368528 bundestag.jpgLa Germania era definita fino a poco tempo fa la locomotiva dell’Europa, ma le cose stanno cambiando, e molto rapidamente.

Il paese sta affrontando una grave crisi, economica e sociale, che si trasforma inevitabilmente anche in politica.

Crisi energetica, pandemia e flussi migratori sono le motivazioni principali, assieme a una frattura tra quella che fu la Germania ovest e la ex DDR, la repubblica democratica tedesca che per circa 40 anni rimase nell’orbita sovietica, fino alla caduta del regime comunista nel 1989, cui fece seguito, a nemmeno un anno di distanza dal crollo del muro, la riunificazione, o per meglio dire l’annessione[1]. Nonostante le aspettative che caratterizzarono quella fase storica, i lander orientali hanno finito per essere controllati dagli ex connazionali d’occidente, che non solo hanno riservato per sé la quasi totalità delle posizioni che contano – con la ragguardevole eccezione della ex Cancelliera Angela Merkel, nata ad Amburgo ma cresciuta nella ex Germania est[2] – ma che si sono garantiti la proprietà degli apparati produttivi e del patrimonio immobiliare[3].

Non è un caso se è soprattutto in questa parte del paese che si registra la più forte ascesa politica delle destre, a cominciare da AFD[4], una forza politica che, piaccia o meno, vede al proprio interno nostalgici del nazismo, nonostante la compagine politica affondi le sue radici nella iniziativa di alcuni docenti universitari e intellettuali, contrari alla moneta unica europea, risalente a meno di venti anni fa. Allo stesso tempo, crolla la fiducia nel partito socialdemocratico (SPD) dell’attuale Cancelliere Olaf Scholz, che alle ultime europee non ha raccolto neanche il 14 per cento dei voti (13,90 per essere precisi), certificando l’emorragia di consensi e la protesta insita nel voto, che ha fatto dell’AFD il secondo partito (15,90), dopo la CDU- CSU (30).

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giubberosse 

Il "fattore T"

di Enrico Tomaselli

photo 2024 07 11 17 13 29.jpgEssendo fortunosamente scampato all’attentato a Butler, Trump veleggia verso una assai probabile vittoria alle presidenziali di novembre. Ed è assai probabile che anche l’America sia scampata – almeno per ora – allo scoppio di una guerra civile; se fosse morto, le possibilità che si innescasse una reazione a catena erano davvero forti.

Chiaramente, l’attentato in sé è stato un evento game changer; a questo punto per i democratici la partita è sostanzialmente persa, e quindi non ha più senso cercare un candidato alternativo a Biden. Non avrebbe senso bruciare adesso una candidatura spendibile tra quattro anni. Ma faranno bene a trovare in fretta un frontman (o una frontwoman…), e a prepararlo per la sfida: J.D. Vance è giovane e grintoso (e la sua biografia, ‘Elegia americana’, è un bestseller).

Se Trump confermerà le previsioni, e verrà eletto presidente per la seconda volta, avrà dinanzi a sé un arco di tempo limitato per sviluppare la sua politica; e anche se Vance è – come dice qualcuno – un suo clone, non è detto che verrà eletto nel 2028.

In questa finestra temporale si troverà di fronte numerose sfide, sia interne che internazionali, e i due aspetti sono intrecciati.

Tanto per cominciare dovrà risanare l’economia del paese – anzi, dovrà risanare il paese. Che ha un debito pubblico di 33.000 e passa miliardi. Dovrà probabilmente scontrarsi con una fortissima resistenza istituzionale da parte dei dem, a ogni livello, e ovviamente fare i conti col deep state (che è totalmente bipartisan, quindi saldamente presente anche tra le fila repubblicane). Per quanto la sua elezione sarà probabilmente trionfale, e questo taciterà il dissenso tra i rep, le divergenze non tarderanno a emergere.

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comedonchisciotte.org

Il vecchio male

di Chris Hedges - chrishedges.substack.com

Dopo vent’anni sono tornato nella Palestina occupata, allora ero un reporter del New York Times. Oggi ho sperimentato ancora una volta il male viscerale dell'occupazione di Israele

orrore 700x430.jpgRamallah, Palestina occupata: Ritorna di colpo, la puzza di fogna, il gemito dei diesel, i lenti veicoli per trasporto truppe israeliani, i furgoni pieni di nidiate di bambini, guidati da coloni dai volti pallidi, certamente non di qui, probabilmente di Brooklyn o di qualche parte della Russia o forse Gran Bretagna. Poco è cambiato. I checkpoint con le loro bandiere israeliane bianche e blu punteggiano le strade e gli incroci. I tetti rossi degli insediamenti coloniali – illegali secondo il diritto internazionale – dominano le colline sopra i villaggi e le città palestinesi. Sono cresciuti di numero e si sono ingranditi. Ma rimangono protetti da barriere antibomba, filo spinato e torri di guardia, circondati dall’oscenità di prati e giardini. In questo paesaggio arido, i coloni hanno accesso a fonti d’acqua abbondanti che ai palestinesi sono negate.

Il tortuoso muro di cemento alto 26 metri che corre lungo i 440 chilometri della Palestina occupata, con i suoi graffiti che invocano la liberazione, i murales con la moschea di Al-Aqsa, i volti dei martiri e il volto sorridente e barbuto di Yasser Arafat – le cui concessioni a Israele nell’accordo di Oslo lo hanno reso, secondo le parole di Edward Said, “il Pétain dei palestinesi” – danno alla Cisgiordania la sensazione di una prigione a cielo aperto. Il muro lacera il paesaggio. Si attorciglia come un enorme serpente antidiluviano fossilizzato che separa i palestinesi dalle loro famiglie, taglia a metà i villaggi palestinesi, divide le comunità dai loro frutteti, dai loro ulivi e dai loro campi, si immerge e sorge dagli wadi, intrappolando i palestinesi in un Bandustan, nella versione aggiornata da parte dello Stato ebraico.

Sono passati più di vent’anni dall’ultima volta che avevo fatto un reportage dalla Cisgiordania. Il tempo sembra non essere passato. Gli odori, le sensazioni, le emozioni e le immagini, la melodiosa cadenzata dell’arabo e i miasmi di una morte improvvisa e violenta che si annidano nell’aria, evocano il male antico. È come se non fossi mai partito.

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collettivolegauche

Intervista ad Ernesto Screpanti sul suo nuovo libro “Liberazione: Il movimento reale che abolisce lo stato di cose esistente”

Ringraziamo Gabriele Repaci per averci concesso di pubblicare l’intervista

maxresdefault.jpg1. Professor Screpanti, nel suo ultimo libro Liberazione: Il movimento reale che abolisce lo stato di cose esistente, edito da Tedaliber e da Punto Rosso (PDF scaricabile gratis da qui: https://www.tedaliber.it/liberazione/), lei contesta la visione della storia come processo di liberazione, cioè di espansione della libertà, definendola una metafisica destituita di ogni pretesa di scientificità. Se in passato, lei sostiene, abbiamo avuto un’evoluzione liberatoria, nulla garantisce che possa andare così in futuro. In altre parole per lei non c’è alcuna ragione per cui la storia debba avere un senso. Quindi, se non ho frainteso ciò che vuole dire, la storia è semmai il campo sterminato di una pluralità di processi, di dinamiche, di una molteplicità di percorsi, che spesso non hanno alcun rapporto tra loro, tanto meno uno di natura causale, ma sono dominati in gran parte dalla casualità e dall’eventualità delle cose.

La tesi che la storia è un processo di liberazione determinato dalle lotte sociali è centrale nel mio libro. È un’interpretazione giustificata da uno studio del passato. Ciò che nego è che esista un senso universale della storia per cui le cose debbano andare necessariamente così anche nel futuro. Sulla base di quella interpretazione possiamo ragionevolmente aspettarci che le lotte continuino ad avere esiti liberatori – possiamo sperarlo ma non possiamo esserne certi. Affermare il contrario equivale a costruire una filosofia metafisica della storia. In un orizzonte temporale ravvicinato possiamo solo dire che in ogni momento si apre una biforcazione tra liberazione e barbarie. In un orizzonte un po’ più lungo possiamo intrattenere quell’aspettativa e quella speranza, se non altro come motivazione della partecipazione alle lotte. In un orizzonte indefinito non possiamo dire nulla.

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lafionda

Ambientalismo e sovranità popolare

di Franco Ruzzenenti

parco velino 690x335 1.jpgLa questione climatica, ancorché sarebbe auspicabile definirla come la questione ambientale o ecologica, che di questa è solo un paragrafo nel quadro di quella che potremmo chiamare la nuova lotta di classe della fase globalista e postfordista del capitalismo occidentale (una fase che auspicabilmente sta giungendo al suo epilogo) e che vede nell’ambiente uno dei suoi campi di battaglia, è sommamente divisiva e controversa.

Propongo qui una riflessione rivolgendomi a quella nebulosa della sinistra sovranista (o se preferite, di ispirazione socialista o più genericamente antisistema, ma mi rivolgo a tutti coloro che, pur dichiarandosi di sinistra, non si riconoscono in quelle forze politiche progressiste, esplicitamente o larvatamente, filo-capitaliste e cripto-neoliberiste) e perché osservo talvolta con divertito stupore, talvolta con preoccupato rammarico, la faglia che si sta aprendo sul tema del clima nell’area politica in cui mi riconosco. Una faglia paragonabile per dimensione ed esizialitá a quella che abbiamo vissuto durante la ultima epidemia e seguenti, controverse, misure sanitarie e presunte tali (e sull’analogia tra le due questioni potrei insistere, ma preferisco soprassedere proprio per evitare l’esacerbarsi di quelle faziosità già dolorosamente vissute da tutti noi).

Questa riflessione aggiunge qualcosa, forse poco, al bel numero de La Fionda, Contro il Green[1], che sviscera l’argomento (della questione ecologica come terreno di battaglia politica) da prospettive giuridiche, economiche e filosofiche con solide e non banali argomentazioni, ma che evita, forse volutamente, di affrontare direttamente la questione climatica e il suo potenziale divisivo in seno alla sinistra anticapitalista.

Mi è d’obbligo oltre che dichiarare la mia affiliazione politica, dichiarare anche quella accademica, onde evitare equivoci o precipitose conclusioni circa i titoli che si hanno o meno per esprimersi su questa annosa e divisiva faccenda.

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doppiozero

Benvenuto in America, Mister Trump

di Alessandro Carrera

Fotografia di Evan Vucci Associated Press .jpgL’inquadratura di Donald Trump che con il sangue che gli cola sulla guancia alza tre volte il pugno e grida alla folla “Lottate!” (Fight!) non è l’unica cosa da osservare con attenzione nel video del suo tentato assassinio. Ma vediamo prima che cosa entrerà nella storia. Qualunque stratega elettorale sceglierebbe la fotografia della Associated Press, scattata mentre Trump scende dal palco. La descrizione che ne ha fornito Benjamin Wallace-Wells sul “New Yorker” (versione online), è da leggere con attenzione. Traduco qui il primo paragrafo:

“Quasi subito dopo gli spari al comizio di Donald Trump a Butler, in Pennsylvania, l'ex Presidente ha avuto un sussulto sul palco, si è portato una mano al viso ed è caduto a terra. Negli attimi di caos che sono seguiti, Trump è stato aiutato a rialzarsi dagli agenti del Servizio Segreto e ha dato una prova definitiva di vita: ha alzato il pugno destro verso il cielo e ha urlato alla folla "Lottate!". Nella foto circolata poco dopo, scattata da Evan Vucci dell'Associated Press, Trump è stagliato contro un cielo azzurro e limpido, mentre quattro agenti del Servizio Segreto lo stringono. Uno di loro guarda dritto nell'obiettivo, gli occhi protetti dagli occhiali scuri. Una bandiera americana sembra quasi veleggiare sulla scena. Trump ha le labbra serrate, gli occhi stretti e il mento un poco sollevato. Strisce di sangue colano dall'orecchio destro e sulla guancia. Lo sguardo è rivolto ben oltre quello che la macchina fotografica può catturare – al pubblico, al futuro – ed è uno sguardo di sfida. Chiunque abbia cercato di ucciderlo, ha fallito. È già l'immagine indelebile della nostra epoca di crisi e di conflitto politico” (The Attempt on Donald Trump’s Life and an Image That Will Last | The New Yorker).