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Il caso del caso Moro ep. 7
Complotti di ieri e di oggi
di Davide Carrozza
In quel mare magnum impazzito che rappresenta l’epopea del complottismo sul caso Moro, in quella selva di teorie strampalate e di scienza incompiuta, a cui è dedicata questa serie di articoli, ci occupiamo oggi di due teorie complottiste (chiamarle così sembra quasi un complimento) di ieri e di oggi. La loro dislocazione temporale (1995 e 2025) contribuisce alla comprensione della vastità del fenomeno e di quanto duratura sarebbe stata l’eredità storica di quel tragico evento. Mi viene in mente Cassio davanti al corpo di Giulio Cesare, appena pugnalato a morte dai congiurati, che esclama “In quante epoche future questa nostra scena solenne verrà recitata di nuovo, in nazioni ancora non nate e in lingue ancora sconosciute”. Vera fu questa premonizione per il Giulio Cesare di Shakespeare e per il regicidio più famoso della storia. Altrettanto vera potremmo dire sarebbe questa affermazione per il più famoso “regicidio” della nostra storia repubblicana, il sequestro e l’assassinio dell’On. Aldo Moro, evento per il quale in 47 anni si inonderanno fiumi di inchiostro, si produrranno centinaia di migliaia, secondo alcuni milioni di pagine di documenti ufficiali (spesso ignorate) e si racconteranno una serie innumerevoli di balle con vari scopi funzionali (per le molteplici motivazioni del complottismo si veda l’episodio 2 di questa serie). Le due storie potrebbero annoverarsi fra quelle che non ce l’hanno fatta, il cui eco è stato talmente irrilevante da non potersi annoverare forse nemmeno realmente fra le teorie complottiste “ufficiali”, talmente insensate a volte da non convincere nemmeno chi le aveva sdoganate, in uno dei due casi per ammissione stessa del suo creatore, quelle che Vladimiro Satta con un tocco un po’ romantico chiamerebbe romanzi d’appendice del caso Moro.
Complotti di ieri
Nel lontano 2000 l’ex agente dei servizi segreti Antonino Arconte, nome in codice G-71, viene attraversato da un’improvvisa epifania, ricordandosi a 22 anni di distanza di essere stato destinatario di un compito delicatissimo e urgentissimo attinente al caso Moro.
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L’Italia al fronte. Destre globali e conflitto sociale nell’era Trump
di Mimmo Porcaro
Introduzione
«La fabbrica della guerra» è un ciclo di incontri organizzato a Modena, ospitato dal Dopolavoro Kanalino78, con l’obiettivo di cercare chiavi per comprendere e afferrare la complessità della fase storica in cui siamo immersi, nella quale eventi sempre più accelerati fanno sfuggire la leggibilità del presente. Come coordinata interpretativa abbiamo voluto usare la guerra perché pensiamo sia il grande fatto sociale centrale, la determinante che sta riorganizzando tutto il nostro mondo e le altre dimensioni di questo momento storico, la realtà in cui siamo collocati.
La tendenza alla guerra delle società capitalistiche è diventato un fatto innegabile, lo vediamo sempre più concretamente; ed è una dinamica che arriva a toccarci sempre più direttamente; in altri termini, un fenomeno che sta trasformando non solo il sistema internazionale in cui abbiamo vissuto finora, ma anche la nostra vita quotidiana. Attraversati da questa dinamica, cambiano in profondità i nostri territori, le nostre città, i nostri quartieri, e insieme a loro stili di vita, bisogni, aspettative, punti di vista, comportamenti sociali.
Per i militanti è diventato dunque imprescindibile comprendere queste trasformazioni per agirle, e potenzialmente per ribaltarle. Come recita un vecchio slogan: «Chi pensa deve agire». Noi crediamo che per agire bene bisogna prima pensare bene, ed è questo l’obiettivo del ciclo di incontri.
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Il progetto Trump si sta disfacendo?
di Alastair Crooke - strategic-culture.su
La fiducia è tutto. E questo "capitale" si sta erodendo rapidamente
Il conflitto tra Musk e Trump (almeno per ora) ha una qualità decisamente “televisiva”. Ma non lasciatevi ingannare dall’intrattenimento. Il litigio illustra una contraddizione fondamentale nel cuore della coalizione MAGA. È molto probabile che questa contraddizione possa esplodere più avanti e finisca per innescare la lenta decadenza del Progetto Trump.
Un momento cruciale delle ultime elezioni americane era stato quando gli oligarchi tecnologici ultra-ricchi della Silicon Valley erano passati dal sostegno ai Democratici a quello a Trump. Questo aveva portato sia denaro, sia la tanto agognata possibilità per l’America di conquistare il monopolio dell’archiviazione globale dei dati, dell’IA e di quello che Yanis Varoufakis chiama il “capitale cloud“, ovvero la presunta capacità di estrarre una rendita (cioè tariffe) per l’accesso alla presunta enorme riserva di dati dell’America e alle piattaforme associate delle Big Tech. Si riteneva che un tale monopolio dati avrebbe conferito agli Stati Uniti la capacità di manipolare il modo in cui il mondo pensa e decide i prodotti e le forme di pianificazione considerati “cool”, alla moda.
L’idea era anche che un monopolio sui centri dati potesse essere potenzialmente redditizio quanto quello statunitense del dollaro, utilizzato come principale valuta commerciale, [un monopolio sui centri dati] che avrebbe potuto generare importanti afflussi di capitale per compensare il debito.
La caratteristica esplosiva di una coalizione tra oligarchi tecnologici e populisti MAGA, tuttavia, è che entrambe le fazioni hanno visioni inconciliabili – sia per affrontare la crisi strutturale del debito americano, sia per il futuro culturale dell’America.
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Il genocidio di Gaza tra decolonizzazione e competizione vittimaria
di Fabio Ciabatti
Pankaj Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Milano 2025, pp. 320, € 20,00.
Sentimento di impotenza di fronte alla tragedia, senso di “colpa metafisica” per non aver fatto tutto il possibile per evitare l’abisso, sensazioni di vertigine, di caos e di vuoto. Il libro Il mondo dopo Gaza ci descrive queste angoscianti emozioni del suo autore, lo scrittore e saggista indiano Pankaj Mishra, di fronte al terrificante destino riservato ai palestinesi. Reazioni più che giustificate se è vero che la posta in gioco, politica ed etica, non è mai stata così alta come quella che ci propongono le vicende della martoriata Striscia di terra tra Israele ed Egitto: le atrocità commesse a Gaza, approvate senza vergogna dall’élite politica e mediatica del cosiddetto mondo libero e sfacciatamente rivendicate dagli israeliani, non si limitano a minare la nostra fiducia nel progresso, ma mettono in discussione la nostra stessa concezione della natura umana, soprattutto l’idea che essa sia capace di empatia.
L’antisemitismo, oramai lo sappiamo, è stato cinicamente trasformato nella foglia di fico dietro cui si nasconde la ferocia di un genocidio trasmesso in diretta. Ma “La narrazione secondo cui la Shoah conferisce legittimità morale illimitata a Israele non è mai apparsa più debole”.1 Infatti “molta più gente, dentro l’Occidente e fuori, ha iniziato ad abbracciare una contronarrazione secondo cui la memoria della Shoah è stata pervertita per consentire degli omicidi di massa, mentre al tempo stesso si oscurava una storia più ampia di moderna violenza occidentale al di fuori dell’Occidente”.2
Come è possibile che tanta atrocità abbia un appoggio internazionale così ampio, nonostante il comportamento israeliano neghi alla radice qualsiasi forma di autorappresentazione della civiltà occidentale? Certamente ci sono fondamentali ragioni di natura geopolitica. Ma c’è anche qualcosa di più che ha a che fare con il fatto che il cosiddetto mondo sviluppato si rispecchia in qualche modo nello stato sionista.
Tra i movimenti maggioritari c’è un forte senso di identificazione con uno stato etnonazionale che scatena la sua forza letale senza alcun vincolo. Questo spiega, molto meglio di qualsiasi calcolo di interesse geopolitico ed economico, la sorprendente complicità di molti occidentali in quella che è una trasgressione morale assoluta, vale a dire un genocidio3.
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I volenterosi carnefici di Gaza
di Marcello Faletra
Bambini col cranio forato, intere famiglie cinicamente massacrate, ambulanze colpite da missili, un intero popolo ridotto alla fame fino a crepare, ospedali bombardati senza scrupolo, giornalisti deliberatamente uccisi (oltre 200), navi umanitarie sequestrate in acque internazionali...cos’altro ancora dopo quasi 60.000 morti accertati e 170.000 dispersi, di cui 21.000 bambini? Nonostante ciò, la mattanza continua con la volontaria complicità del civile Occidente, che invia armi e sostegno morale per concludere la mattanza (Stati Uniti, Germania e Italia in primis).
Nel 1996 lo storico Daniel J. Goldaghen pubblicò un corposo pamphlet il cui titolo provocò un forte dibattito tra gli storici: I volenterosi carnefici di Hitler. La tesi del libro consisteva nel fatto che per capire il passaggio all’atto dell’eliminazione degli ebrei non erano sufficienti teorie che si basavano sulla coercizione all’eccidio (i militari erano costretti a uccidere), ne tanto meno che la responsabilità cadesse ai soli organizzatori dello sterminio, “meschini burocrati”. Ciò che restava ancora da indagare in modo approfondito, era la partecipazione individuale di intere masse popolari, di singoli intellettuali, di figure appartenenti agli apparati propagandistici di stampa, e indotti a promuovere la necessaria eliminazione degli ebrei. Il libro indagava il passaggio dall’astratto al concreto: dietro una struttura burocratica vi sono eserciti costituiti da singole persone, le quali interiorizzano gli ordini, vestono le idee, praticano i pregiudizi e li mettono in opera. Un intero sistema votato alla violenza fino allo sterminio, che non potrebbe esistere senza questi volenterosi carnefici.
Per fare un genocidio occorre una complessa macchina non solo burocratica (statale) e militare, ma si rende necessaria la partecipazione attiva di tutti i singoli individui, che chiamiamo astrattamente “pubblico” o “masse”, oppure “popolo”. A ciò, naturalmente, si aggiunge il lavoro della macchina astratta, incarnata dal politico, dal lobbista, dal propagandista, dal giornalista.
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Da lontano. Diario sulla distruzione di Gaza
(Istanbul 15 ottobre 2023 – Roma 15 maggio 2025)
di Ludovica Maura Santarelli
[Ludovica Santarelli è una giovane studiosa che ha da poco discusso all’Università di Roma Tre una tesi intitolata: Guerra, violenza mediatica e censura. Il caso Palestinese. Una parte del suo lavoro di ricerca si è svolto tra Istanbul e Roma. E proprio muovendosi a cavallo fra queste due città cosmo, le due antiche capitali del mondo, ha scelto di scrivere queste poche pagine, un diario intimo e allo stesso tempo politico, sulla distruzione di Gaza. Il suo sguardo, severo, tragico, privo di risarcimenti narcisistici, è quello di una generazione consapevole di trovarsi senza riparo in un’età ormai estrema. (Daniele Balicco)]
Istanbul, 15 Ottobre 2023
L’aria attorno alla stazione metro di Maltepe sembra essere tesa. Appena accanto alle scale mobili, un signore ha posizionato un mucchio di bandiere della Palestina e altri striscioni da vendere; sarà solo il primo di una lunga serie di venditori che incontrerò sulla strada per raggiungere il luogo della protesta. Poco più avanti noto i primi poliziotti; sul lato della piazza alcuni di loro si erano sistemati davanti alla camionetta, coperti da uno scudo. Mentre aspetto il mio collega, penso che abbiamo fatto bene a stampare dei tesserini da giornalista con i nostri nomi: “se si mette male, li indossiamo” mi aveva detto lui. Dal nostro punto di vista europeo, rispettivamente italiano e spagnolo, un evento del genere aveva tutte le carte in regola per sfociare in un’insurrezione; il fatto che fossimo in Medioriente non ci sembrava meno pericoloso. Ma i timori si rivelarono presto infondati.
La Turchia infatti, e in particolar modo il suo presidente Recep Tayyip Erdoğan, non ha mai nascosto il suo supporto alla nazione palestinese.
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The Donald, O Guappo ‘e Cartone
di Salvatore Minolfi
Come nella proverbiale figura della commedia napoletana, Trump finge di avere un potere di cui non gode neanche all’interno della sua Amministrazione. La sua teatrale aggressività tradisce l'impotenza americana dinanzi ai nuovi equilibri del potere
A pochi mesi dall’esordio della seconda Amministrazione, i caratteri del trumpismo (la sua forza e i suoi limiti) emergono senza le sorprese che caratterizzarono la prima esperienza di governo tra il 2017 e il 2020. All’epoca, la mera esibizione di una “teoria del pazzo” (mutuata, peraltro, da Richard Nixon) poteva contare sull’effetto novità che, nelle intenzioni del Presidente, avrebbe spinto gli interlocutori a fare concessioni che altrimenti non avrebbero mai fatto[i]. Con ogni evidenza, il bluff oggi non basta più e i parametri per giudicare i successi o i fallimenti del trumpismo saranno inevitabilmente ancorati ai risultati reali effettivamente conseguiti per rimediare alla grave crisi dell’impero americano: crisi che proprio Trump sembra plasticamente riepilogare nella sua condotta erratica, nella sua ossessiva ricerca del clamore e in quella peculiare inconcludenza, che sgonfia un po’ l’immagine dei “massimalisti” che vedono nel Presidente americano l’agente o il tramite di un’improvvisa rottura storica “che si tratti della trasformazione del sistema partitico, della distruzione della democrazia americana o dell’implosione dell’ordine mondiale liberale”[ii]. E poiché di risultati veri, al momento, ancora non c’è traccia, il dibattito scatenatosi dalla fine di gennaio si è interamente modellato sui fuochi di artificio che hanno sostanziato le prime mosse della nuova Amministrazione. Tali, in effetti, devono essere considerate le sue principali iniziative internazionali: le contraddittorie posizioni assunte nel contesto della guerra russo-ucraina, nel quadro di una sostanziale continuità del supporto bellico a una guerra che Trump continua, nondimeno, a definire non sua; l’ininterrotto appoggio alla guerra di sterminio del Governo di Netanyau in Palestina (aggravato dalle sbalorditive visioni distopiche sulla “riviera” di Gaza); l’incapacità di emanciparsi seriamente dalle politiche neoconservatrici sull’Iran, nonostante la sua avversione alla prospettiva di una guerra; la parallela esibizione di una “dottrina Riyadh” basata su un “transazionalismo personalizzato e incentrato sul commercio, che rasenta il clientelismo”[iii], per la gioia delle ricche monarchie del Golfo; le minacce al Canada e alla Danimarca; l’attacco generalizzato alle pratiche del libero commercio, con la raffica di tariffe, in un’alternanza di provocazioni e ritirate tattiche; e tanto altro ancora.
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Warfare... E’ tempo di darsi una mossa!
di Carlo Lucchesi
In politica è buona regola agire sulle contraddizioni dell’avversario. Per farlo, però, occorre un’analisi chiara della situazione, e quella presente la rende particolarmente difficile perché le variabili da decifrare sono veramente tante. Quello cui si dovrebbero dedicare quanti stanno nel campo opposto all’imperialismo USA, alla Nato e a questa Europa russofoba e del riarmo è tentare un’interpretazione più vicina possibile alla complicatissima realtà delle cose.
1. Fino all’arrivo di Trump la situazione era abbastanza chiara. La guerra in Ucraina era stata programmata da tempo dagli USA e provocata col rifiuto di ascoltare le sacrosante ragioni della Russia. L’obiettivo era duplice: destabilizzare la Russia fino al collasso e riportare l’Europa sotto il tallone degli USA annullandone l’ambizione a essere la terza grande potenza del pianeta. L’amministrazione democratica ha fallito il primo (ma probabilmente i suoi strateghi non l’hanno abbandonato), mentre ha raggiunto pienamente il secondo, almeno fino a quando è stata in carica. Nel percorso compiuto, dal punto di vista degli USA le varie tappe sono state linearmente coerenti con i propositi. Accanto all’ininterrotta escalation nella consegna all’Ucraina di armamenti sempre più offensivi, le sanzioni, il sabotaggio del gasdotto Nord Stream e la partita degli approvvigionamenti energetici sono stati i passaggi più emblematici. Se guardiamo le cose dal versante dell’Europa, invece, non si può fare a meno di chiedersi perché ha deciso di farsi tanto male sottomettendosi incondizionatamente alla volontà degli USA. Si possono abbozzare solo supposizioni ripercorrendo gli avvenimenti. Poche ore dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina, Macron e Scholz hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche nelle quali dicevano che era possibile e auspicabile ricercare una composizione del conflitto. Dopo altre pochissime ore hanno assunto una posizione opposta, quella che hanno mantenuto e confermato da allora in avanti lasciando di fatto la linea politica dell’Europa nelle mani dell’UK, che dell’UE non faceva più parte.
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Le coordinate per individuare la possibile teologia politica di Leone XIV
di Gerardo Lisco
A partire dall’elezione di Papa Giovanni Paolo I, passando per Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco I e oggi Leone XIV, ciò che mi ha sempre colpito è che a ogni elezione opinionisti, commentatori, ecc. hanno interpretato le prime dichiarazioni del neo eletto pontefice alla ricerca di risposte a domande personali. Solo in seconda battuta si sono soffermati sull’aspetto teologico politico e anche in merito a questo tema l’approccio mi è sempre sembrato molto legato ai desiderata di chi commentava piuttosto che a una analisi svestita dei panni mondani nel senso di parte. Capisco che spogliarsi della mondanità è una cosa molto difficile da farsi, per cui non escludo che io stesso sono alla ricerca di risposte a domande personali che attengono il senso dell’esistenza, lo stare al mondo, l’escatologia della Storia. In attesa di leggere le prime encicliche ci sono un paio di dichiarazioni che lasciano intendere su come, il nuovo Papa, vorrà condurre la Chiesa. Prima di riportare le dichiarazioni alle quali intendo fare riferimento mi preme sottolineare che il Papa ha la doppia veste di monarca assoluto di uno Stato eletto da un numero ristretto di membri, a loro volta cooptati dai Papi precedenti, e di capo di una religione che annovera 1,406 milioni di fedeli, dato in crescita rispetto al 2022. Doppia veste da non sottovalutare.
Leone XIV ha 69 anni per cui è il Papa che guiderà la Chiesa almeno fino alla metà del secolo in corso, anni che vedranno il mondo cambiare radicalmente. Ai cambiamenti contribuirà con il suo Magistero il nuovo pontefice. Partendo da questo dato un agostiniano che diventa Papa scegliendo un nome antico come appunto quello di Leone non può che richiamare alla mente il contesto storico e politico nel quale matura la teologia di Agostino di Ippona, il Padre della Chiesa per eccellenza. Per inciso Agostino di Ippona era di etnia Berbera, quindi un nord africano. Fatte queste premesse la prima dichiarazione che mi ha colpito di Papa Leone XIV è relativa a quando appena eletto, rivolgendosi in inglese ai cardinali, ha dichiarato << Dio, chiamandomi attraverso il vostro voto a succedere al Primo degli Apostoli, questo tesoro lo affida a me perché, col suo aiuto ne sia fedele amministratore a favore di tutto il Corpo mistico della Chiesa; cosi che essa sia sempre più città posta sul monte, arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo.(…). >>.
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I primi cento giorni di Trump: la guerra civile fredda
di Alfonso Gianni
I primi cento giorni di Trump meritano certamente un primo bilancio che si compone di vari aspetti, tutti significativi e coerenti con il profilo che il tycoon ha voluto delineare di sé sia negli anni della sua prima presidenza che durante la rumorosa campagna elettorale che lo ha riportato alla Casa Bianca. Non si può certo dire che Donald abbia perso tempo fin dal suo primo giorno da presidente. Il suo attivismo frenetico ha prodotto, dal 20 gennaio al 29 aprile, 143 ordini esecutivi, di cui 26 solo nel primo giorno, 42 proclamazioni. 42 memorandum, oltre a provvedimenti relativi all’anno fiscale in corso.
Secondo non pochi commentatori questa sovrabbondanza di atti, tutti tesi a destrutturare l’ordine preesistente, sia a livello interno che internazionale, qualificherebbe la sua come una “presidenza rivoluzionaria”, perché “se si prescinde dal caos, dalle fughe in avanti e – talora – dalle marce indietro, si vede delinearsi sullo sfondo un progetto politico potenzialmente rivoluzionario”1. Giusta sottolineatura, a patto che ci si intenda sul fatto che qui siamo nel campo di una rivoluzione restauratrice, un ossimoro, più volte usato in questa rivista,2 che serve a indicare la forza travolgente e la frenesia dell’azione e, allo stesso tempo, la sua direttrice di marcia all’indietro.
Basta leggere ciò che autorevoli esponenti della nuova amministrazione già scrivevano qualche tempo addietro. Tre anni fa, Russell Vought - uno degli autori del famigerato “Progetto 2025”, il piano per un esecutivo assolutista reso noto nel 2022 dall’organizzazione di destra Heritage Foundation - scelto del presidente Trump come direttore dell'Office of Management and Budget, sosteneva che "la cruda realtà in America è che siamo nelle fasi finali di una completa presa di controllo marxista del paese", in cui "i nostri avversari detengono già le armi dell'apparato governativo e le hanno puntate contro di noi". Conseguentemente a questa delirante diagnosi, i dipartimenti e le agenzie federali hanno ricevuto l’ordine, nel gennaio 2025, di sospendere spese per agenzie, sovvenzioni, prestiti e assistenza finanziaria in tutto il governo federale.
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Israele: quei 700.000 coloni che impediscono la pace
di Giulio Bellotto
Radiografia degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est
Il documentario «The Settlers», mandato in onda dalla Bbc il 27 aprile, ha acceso i riflettori sul fenomeno delle colonie israeliane. A partire dalla Guerra dei sei giorni del 1967, Israele ha costruito un sistema di dominio fondato sulla colonizzazione, alimentata da motivazioni religiose, interessi strategici e sostegni internazionali. Gli insediamenti sono oggi il fulcro materiale e simbolico dell’occupazione, che il governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu continua ad alimentare. E che mina ogni prospettiva di soluzione del conflitto israelo-palestinese.
* * * *
«La gente viene qui perché crede che sia una mitzvah, un comandamento religioso, insediarsi su questa terra». Con queste parole, pronunciate da un’abitante di una colonia israeliana nei territori occupati, il documentario The Settlers della Bbc accende i riflettori su una delle questioni più controverse del conflitto israelo-palestinese: quella degli insediamenti in Cisgiordania.
La dichiarazione rilasciata a Louis Theroux sintetizza una visione che fonde religione, identità e potere. Offrendo una giustificazione religiosa alla colonizzazione, mostra come per molti coloni la fede rappresenti un motore ideologico in grado di trasformare la geografia politica in territorio sacro. In altre parole, rivela come anche in Israele la religione venga sfruttata a fini politici. Non a caso, i padri fondatori di Israele, gran parte dei quali atei, amavano ripetere: «Dio non esiste, ma ci ha dato uno Stato».
Il documentario ha offerto lo spunto a Krisis per realizzare una radiografia del fenomeno. Chi sono i coloni? Cosa li spinge a vivere in territori riconosciuti dalla comunità internazionale come illegali? Quali motivazioni ideologiche, religiose o politiche li animano? E soprattutto, quale ruolo giocano nella perpetuazione dell’occupazione?
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Papa Robert Francis Prevost, un Leone antico per nuovi ponti
di Geraldina Colotti
Dopo l’elezione del cardinal Robert Francis Prevost a papa n. 267 con il nome di Leone XIV, dal Perù è arrivata l’immediata rivendicazione della sua doppia nazionalità – statunitense e peruviana –, la seconda acquisita nel 2015. E, subito, si è scatenata anche la creatività della rete sull’elezione di un papa “più latinoamericano del debito estero”; sull’aggiunta di un nuovo tipo di “papa” (patata) a quelle esistenti, e con tanto di accostamento giornalistico fra Chicago (sua città di origine, negli Stati uniti), e Chiclayo, la diocesi peruviana di cui fu amministratore apostolico. In Perù, dove ha vissuto per circa due decenni, Prevost è stato nominato vescovo dal suo predecessore argentino, Jorge Bergoglio, da poco scomparso, e ha poi svolto importanti incarichi in ruoli delicati e decisivi della Curia.
Un altro “meme”, ha sintetizzato così la scelta del Vaticano, presa in soli tre giorni di Conclave, giunta alla quarta votazione dei 133 cardinali e dopo tre fumate nere (e con oltre 100 voti, si dice, totalizzati): “Il nuovo papa è yankee, nazionalizzato peruviano e… anti Trump”. Quanto sarà distante dal “presidente più potente al mondo”, il pastore di un “gregge” di 1.400 milioni di cattolici nel mondo, e a capo di un patrimonio stimato (nel 2023) a 5,4 miliardi di euro solo per quanto riguarda l’attività dell’Istituto per le Opere di Religione (Ior), ovvero la Banca Vaticana, si vedrà nel corso del suo pontificato, e nell’evoluzione globale di quella che Francisco ha definito “la Terza guerra mondiale a pezzi”.
Intanto, è circolata con insistenza la notizia – non confermata dal Vaticano – di una donazione di 14 milioni di dollari, che Trump avrebbe potuto elargire, durante la sua visita a Roma per i funerali di Bergoglio, in caso di elezione di un papa Usa. Un’offerta consistente, considerando il deficit di bilancio della Santa sede, valutato a oltre 70 milioni di euro. Una “donazione” che avrebbe potuto aumentare, pare abbia lasciato intendere l’ottantina di super-ricchi che, all’interno di una moltitudine di fedeli (e turisti) ha accompagnato la delegazione trumpista alle esequie bergogliane: addirittura fino a un miliardo di euro.
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La classe dominante statunitense e il regime di Trump
di John Bellamy Foster
John Bellamy Foster riesamina e critica la tesi secondo cui la classe capitalista statunitense non sia una classe “governante”. Il fatto che gli oligarchi della classe dominante – come parte del regime di Trump - stiano ora esercitando il potere sulle scene nazionali e internazionali, dimostra che la schiacciante influenza politica della classe capitalista non sia più in discussione, e che questa convergenza spinga il Paese sempre più verso il neofascismo
Nell’ultimo secolo il capitalismo statunitense ha avuto, senza dubbio, la classe dominante più potente e più cosciente della storia mondiale, cavalcando sia l’economia che lo Stato e proiettando la sua egemonia sia a livello nazionale che globale. Al centro del suo dominio c’è un apparato ideologico che sostiene che l’immenso potere economico della classe capitalista non si traduce in governance politica e che, a prescindere dalla polarizzazione della società statunitense in termini economici, rimangono integre le sue rivendicazioni di democrazia. Secondo l’ideologia che ne consegue, gli interessi ultra-ricchi che governano il mercato non governano lo Stato: è una separazione fondamentale per l’idea di democrazia liberale. Questa ideologia dominante, tuttavia, si sta ora sgretolando di fronte alla crisi strutturale del capitalismo statunitense e mondiale, e al declino dello stato liberal-democratico, portando a profonde spaccature nella classe dominante e a un nuovo dominio di destra, apertamente capitalista, dello Stato.
Nel suo discorso di addio alla nazione, pochi giorni prima che Donald Trump tornasse trionfalmente alla Casa Bianca, il presidente Joe Biden denunciava che una “oligarchia” basata sul settore high-tech, e che in politica si affida al “dark money”, sta minacciando la democrazia degli Stati Uniti. Contemporaneamente, il senatore Bernie Sanders metteva in guardia dagli effetti della concentrazione di ricchezza e potere in una nuova “classe dominante” egemone, e dall’abbandono di qualsiasi traccia di sostegno alla classe operaia in ognuno dei principali partiti.[1]
L’ascesa, per la seconda volta, di Trump alla Casa Bianca, non vuol dire che l’oligarchia capitalista sia improvvisamente diventata influente nel comandare la politica statunitense, poiché si tratta di una realtà di lunga data. Tuttavia, negli ultimi anni, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, l’intero ambiente politico si è spostato a destra, mentre l’oligarchia sta esercitando un’influenza più diretta sullo Stato. Un settore della classe capitalista statunitense si trova palesemente al comando dell’apparato ideologico-statale, in un’amministrazione neofascista in cui l’ex establishment neoliberale sta diventando un junior partner [partner minore].
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Ancora sulla Rerum Novarum
di Carla Filosa
L’elezione del nuovo papa Leone XIV ha scatenato la caccia ai precedenti del nome, come se ciò significasse un sicuro imprinting di questo nuovo papato in un contesto ancora tutto da vivere. C’è chi ha parlato di Leone Magno, chi di Leone III, nel loro ruolo di contrasto o adesione alla politica dominante dei loro tempi, come un’anticipazione predittiva della politica estera di questo presente o forse con un intento, tipico del pensiero dominante di sempre, di indurre da subito una linea politica usabile per inculcare uno pseudo <pensiero> nelle teste “senza idee” delle popolazioni subalterne.
Mediante una malintesa speranza e rassicurazione religiosa, il potere ha sempre saputo far precipitare le masse da sottomettere nella passività, nell’abulia e nel conformismo silenziato, anche attraverso la diffusione capillare della “stupidità informata”, tecnicamente parcellizzata. Sfruttando l’emotività generale dovuta alla perdita di un papa in cui i poveri del mondo si sono sentiti sostenuti e identificati, si è dato l’assalto a una <comunicazione> esteriore che, in uno sbiadito o proprio mancante ricordo storico, si potessero ripristinare i contenuti abbandonati di un’Enciclica del predecessore, Leone XIII, come un rinnovo di quella che fu considerata come innovazione e “dottrina sociale della Chiesa”. Prima di rammentare la Rerum Novarum di Leone XIII, quindi, sembra utile dire qualcosa su questa immediata falsariga del “totopapa” da inserire nei binari di una lotta sulla forma della comunicazione, ormai assurta a occupare una funzione di rilievo, funzionale ad assoggettare all’ipocrisia manipolatrice e perbenista la consueta espressione del dispotismo sul sapere.
Anche se è chiaro che un discorso inaugurale non può che basarsi su concise espressioni universali, senza precisarne i reali contenuti, tipo “pace” o “il male non prevarrà”, l’attesa degli esclusi dal potere è quella di aspettare la concretizzazione di parole che non siano semplice denuncia della banalità di luoghi comuni, ma che indichino le cause reali delle guerre e della pervasività di tutti i mali che si vivono.
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Leone XIV il sacro soglio suonato dal batacchio della crisi
di Algamica*
Il mondo si interroga come sarà e cosa farà il nuovo papa Leone XIV, salutato con grande enfasi, come si conviene dagli addetti ai lavori e in modo particolare dal personale del clero, ma anche – bisogna dirlo senza ipocrisia – dal cosiddetto mondo dei fedeli, oltre, cioè un miliardo di persone in carne e ossa.
In premessa dobbiamo dire che se è vero che i cattolici nel mondo negli ultimi dieci anni sono aumentati, la crescita però è stata accompagnata da un calo di fedeli negli Stati Uniti così come in paesi di fortissima tradizione cattolica quali Francia, Spagna, Belgio, in altri paesi del Nord Europa. Cosa che è dimostrata anche dall’afflusso di fedeli per il giubileo che è ben al di sotto delle aspettative. In sostanza la Chiesa Cattolica che doveva rappresentare i valori occidentali nel mondo, che si è affermata sul globo in virtù dei “successi” dell’Occidente convertendo i popoli a forza di colonialismo, è riuscita per tutta una fase anche a presentarsi come “ecumenica”, ovvero come Chiesa Universale.
Come tutte le cose terrene, questa ha un fine, la Chiesa Cattolica è in crisi di “universalità”. Leone XIV rappresenta il tentativo di rispolverare la forza della fede attraverso la tradizione per rincorrere il gregge occidentale in via di fuga. Ma in buona parte è un gregge, anche per via del populismo rampante, che la vorrebbe specchio di sé, tirando pertanto la Chiesa Cattolica verso una gretta rappresentazione “tradizionalista” che solo rappresenta un grigio Occidente disunito e diluito cui manca la benzina per presentarsi “ecumenicamente”.
Quest’ultima precisazione la facciamo volutamente contro un certo snobismo intellettualistico “anarco-comunista” che ritiene, a torto, la Chiesa cattolica oppure l’Islamismo come sovrapposizioni alle masse del popolo “ignorante”. In realtà dietro questo snobismo si cela l’opportunismo a non interrogarsi sull’esistenza delle religioni e la loro storia. Ci era già capitato in passato di soffermarci sulla tesi di Marx che riteneva la religione come oppio dei popoli.
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