
Le pressioni di mercati e UE su una Francia in crisi
di Domenico Moro
Le elezioni francesi hanno restituito una assemblea nazionale (il parlamento francese) spaccata in tre blocchi, nessuno dei quali in possesso della maggioranza su cui far nascere un governo con un chiaro colore politico. L’incertezza su quale sarà il futuro governo del secondo paese della UE e unica potenza nucleare europea sta preoccupando i mercati, o, per dirla in altri termini, il grande capitale finanziario francese ed europeo. Del resto la Borsa francese all’indomani delle elezioni è calata dello 0,63%. A destare preoccupazione, una volta sventato il pericolo rappresentato dalla estrema destra, temuta per il suo euroscetticismo e per le posizioni sulla guerra in Ucraina, è la vittoria relativa del Nuovo fonte popolare (Nfp) e in particolare l’egemonia che all’interno di esso esercita il partito di estrema sinistra de La France Insoumise (LFi) guidata da Melenchon. Infatti, il programma di Melenchon metterebbe in crisi il percorso di austerità iniziato dal governo Macron, che ha raggiunto il suo apice con l’approvazione della legge sulla controriforma delle pensioni, che è stata varata senza il voto del Parlamento, un autentico vulnus alla sovranità popolare esercitata attraverso il legislativo. Senza contare che LFi ha posizioni tutt’altro che allineate sulla guerra in Palestina e in Ucraina. L’obiettivo dei mercati è quindi quello di far fuori Melenchon e LFi e puntare su un governo di coalizione guidato o da un politico di cui hanno fiducia, come il socialista ed ex presidente della Repubblica Hollande, o da una figura “tecnica” come si fece in Italia con Monti e Draghi.
Una cosa però è chiara: qualsiasi governo verrà formato avrà sul collo il fiato della finanza francese e internazionale. Il problema è che la Francia è un paese non solo in grave crisi sociale, come provano le numerose e imponenti lotte di massa che si sono succedute in questi anni, ma anche economica, politica, e geopolitica.



Una cosa che si può dire dell’Amministrazione del Presidente Joe Biden è che, quasi ogni settimana, c’è qualcosa di nuovo ed emozionante di cui discutere. Di recente, la sua demenza galoppante ci ha regalato un discorso di abdicazione durato 11 minuti, in cui Joe ha annunciato che non si sarebbe candidato per un altro mandato presidenziale. Ha farfugliato che stava facendo questo passo nonostante il suo desiderio di continuare. Il Presidente, che ha 81 anni e che negli ultimi tempi si è fatto notare soprattutto per il suo carente stato mentale che lo porta a cadere dalle scale, 
I risultati degli incontri della Meloni in Cina
Incombe la fase finale delle elezioni americane. Ogni quattro anni viene riproposto questo spettacolo dai toni profondamente religiosi del duello tra ‘messia’. Un giudizio di Dio accuratamente imbastito da mani sapienti. Con gran rullo di tamburi, il “popolo” viene chiamato a scegliere quale front man si dovrà fare carico di rappresentare la disgregazione che nutre il cuore dell’impero occidentale. Esiste, probabilmente, un nesso funzionalmente necessario tra questa disgregazione e la ciclica riproduzione di una guerra civile ritualizzata capace di fornire l’alias di un sistema di valori comunitari rispettivamente orientati gli uni contro gli altri. L’assenza di autentici elementi di connessione comunitaria, in un ambiente ultra-frammentato sotto ogni profilo, e nel quale la promessa della prosperità (unico sostituto plausibile della salvezza ultramondana nella quale collettivamente non si crede più) per troppi si allontana generazione dopo generazione, rende, in altre parole, necessario per poter funzionare quanto basta da conservare il proprio auto-attribuito ruolo mondiale, che sia messo in scena un sostituto. E allora si cerca la salvezza mondana non già nell’identificazione di nemici collettivi scelti dall’effettiva gerarchia sociale operante (ovvero, in quello che una volta si chiamava il ‘nemico di classe’), quanto in presunti nemici della ‘nazione’. Nemici, che sono, insieme all’identificazione di ciò che è la ‘vera’ nazione, interni e trasversali. Contro questi si alza un messia.
Immediatamente dopo il tentativo di assassinare Trump, ancora prima di conoscere esattamente cosa fosse successo, su internet già fiorivano decine di differenti ipotesi “alternative” che ci davano avviso di quanto le cose potessero essere diverse da come apparivano. Ancora prima che ci fosse una “teoria ufficiale” da smentire, già la smentivano.
La Germania era definita fino a poco tempo fa la locomotiva dell’Europa, ma le cose stanno cambiando, e molto rapidamente.
Essendo fortunosamente scampato all’attentato a Butler, Trump veleggia verso una assai probabile vittoria alle presidenziali di novembre. Ed è assai probabile che anche l’America sia scampata – almeno per ora – allo scoppio di una guerra civile; se fosse morto, le possibilità che si innescasse una reazione a catena erano davvero forti.
Ramallah, Palestina occupata: Ritorna di colpo, la puzza di fogna, il gemito dei diesel, i lenti veicoli per trasporto truppe israeliani, i furgoni pieni di nidiate di bambini, guidati da coloni dai volti pallidi, certamente non di qui, probabilmente di Brooklyn o di qualche parte della Russia o forse Gran Bretagna. Poco è cambiato. I 
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La questione climatica, ancorché sarebbe auspicabile definirla come la questione ambientale o ecologica, che di questa è solo un paragrafo nel quadro di quella che potremmo chiamare la nuova lotta di classe della fase globalista e postfordista del capitalismo occidentale (una fase che auspicabilmente sta giungendo al suo epilogo) e che vede nell’ambiente uno dei suoi campi di battaglia, è sommamente divisiva e controversa.
L’inquadratura di Donald Trump che con il sangue che gli cola sulla guancia alza tre volte il pugno e grida alla folla “Lottate!” (Fight!) non è l’unica cosa da osservare con attenzione nel video del suo tentato assassinio. Ma vediamo prima che cosa entrerà nella storia. Qualunque stratega elettorale sceglierebbe la fotografia della Associated Press, scattata mentre Trump scende dal palco. La descrizione che ne ha fornito Benjamin Wallace-Wells sul “New Yorker” (versione online), è da leggere con attenzione. Traduco qui il primo paragrafo:
Dunque, anche il secondo turno delle elezioni legislative francesi è alle nostre spalle. I giornaloni enfatizzano la sconfitta del Rassemblement National (RN) e la relativa tenuta di Macron. Il clima è di scampato pericolo: l’Ue può andare avanti con Ursula Pfizer von der Leyen ed il fronte anti-russo non perderà pezzi. Sacrifici e guerra son dunque garantiti. Questa la sostanza del sospiro di sollievo dei media del regime.
La verità è quella che appare? Si può essere rivoluzionari senza la teoria e la pratica della “preveggenza”? I comunisti debbono essere rivoluzionari e lavorare per la rivoluzione? Tre domande preliminari per un più vasto dibattito.
Una compagnia di spettri si aggira per l’Europa odierna, ma a capitanarla non è di certo una larva in fez e camicia nera, anche se qualche politicante e schiere di imbonitori mediatici sostengono allarmati (rectius: allarmisti) il contrario.
Dopo una battaglia durata 14 anni, 5 dei quali trascorsi a Belmarsh, famigerato carcere di massima sicurezza alla periferia di Londra, il fondatore di Wikileaks Julian Assange ha dunque inaspettatamente ottenuto la libertà.


































