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analisidifesa

Ucraina: con gli USA o con la Ue? Il dilemma dopo la rissa alla Casa Bianca

di Gianandrea Gaiani

1439637.jpgIl tragicomico epilogo della visita alla Casa Bianca del presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha riaperto il dibattito in Europa e in Italia circa il posizionamento del governo italiano nel contesto del conflitto in Ucraina.

Da un lato gli USA di Donald Trump intenzionati a concludere il conflitto, ormai perduto sul campo dagli ucraini, per riprendere strette relazioni economiche e politiche con la Russia necessarie a gestire con successo altri scenari di crisi falla Cina all’Iran alla Crea del Nord, come abbiamo illustrato in un editoriale precedente.

Dall’altro un’Europa decisamente schierata a favore di una “pace giusta” in cui l’Ucraina non perda territori che vuol dire in concreto una guerra a oltranza che nessuno in Europa è disposto a combattere, che nessuna forza armata in Europa sarebbe in grado di sostenere, che nessuna nazione europea è in grado di sostenere con adeguate forniture militari all’Ucraina e che vede l’opinione pubblica in tutta Europa nettamente contraria.

A queste valutazioni aggiungiamo che sono ben poche le nazioni europee disposte a schierare proprie truppe i Ucraina (ipotesi su cui Mosca ha già posto il suo veto) senza il supporto di un’America determinata a sganciarsi da questo conflitto e dal confronto militare con Mosca.

 

La rissa

In questo contesto di alta tensione il dibattito nello Studio Ovale, cominciato in modo garbato e diplomatico ma poi degenerato, ha acceso le polveri, almeno a parole, anche in Europa.

“Abbiamo capito molte cose che non avremmo mai potuto capire senza una conversazione così tesa: ho stabilito che il presidente Zelensky non è pronto alla pace con il coinvolgimento statunitense”, ha scritto Trump su Truth Social, aggiungendo che Zelensky ha mancato di rispetto agli Usa e che “può tornare qui una volta che sarà pronto alla pace”.

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fuoricollana

C’era una volta in Germania

di Antonio Cantaro

9788822053367 0 500 0 0.jpgSollecitata dal sudafricano Elon Musk a fornire risposte emotive e avventate e dalla velenosa provocazione britannica sul “malato d’Europa”, la Germania ha reagito con un’altissima partecipazione al voto (84%) e una indicazione di stabilità. Ma il neomercantilismo tedesco è comunque finito. A volte un sigaro è solo un sigaro, ma qualche volta è qualcos’altro, ha detto un giorno Sigmund Freud. A volte un risultato elettorale è solo un risultato elettorale, ma il voto tedesco di domenica 23 febbraio, svoltosi esattamente a distanza di tre anni dall’inizio della “operazione militare speciale” di Vladimir Putin, è molto di più. È qualcos’altro. Ed è di questo qualcos’altro che si occupano, da diversi punti di osservazione, i diversi e ricchi contributi di questo numero di fuoricollana. Della caduta di un modello politico, economico, sociale, costituzionale. Fine ancora più esemplare in quanto coincide (ma non si tratta di mera coincidenza) con il definitivo esaurimento fine dei due ordini – l’ordine del New deal e l’ordine neoliberale – che hanno retto nell’ultimo secolo gli Usa e grande parte del mondo occidentale. Il nuovo ordine sta nascendo sulle ceneri dei due precedenti ed è per questa ragione che non troviamo ancora la parola giusta per definirlo, se non quella approssimativa di “ordine del caos”. Un ordine del caos – la cui icona è Trump – che ci parla di una epocale crisi della funzione progressiva storicamente svolta dal capitalismo neoliberale.  Quel mondo è finito, ma senza mettere a tema virtù e i vizi di quel vecchio mondo capiremo poco di quanto sta accadendo nel nuovo. Per questo ci riguarda non solo quanto è avvenuto con le ultime elezioni americane e subito dopo, ma ci riguarda anche quanto accade (e quanto non accade) nel Vecchio mondo europeo e, soprattutto, in Germania. In primo luogo, perché la Germania, ancora la prima potenza economica e demografica dell’Ue, è una dei principali bersagli della guerra commerciale e tecnologica tra Cina e Usa. Bye Bye Germany. In secondo luogo, perché il ruolo della Germania, da sempre decisivo per il processo di integrazione sovranazionale, era stato sino a pochi anni fa rafforzato dall’allargamento. Es war einmal in Deutschland. In terzo luogo, perché parlare della Germania significa parlare – per evidenti ragioni storiche, politiche, economiche – anche dell’Italia. C’era una volta in Germania.

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lantidiplomatico

Come il comunismo sta surclassando il capitalismo

di Indrajit Samarajiva*

vjcpoingbpxNon è ironico? Non credete? Un centinaio di aziende di veicoli elettrici sono fiorite sotto il comunismo, mentre il capitalismo sovvenziona uno spaccone che produce quattro veicoli e un fermacarte. Una start up ha addestrato un'intelligenza artificiale per 5,5 milioni di dollari sotto il comunismo, mentre l'intelligenza artificiale del capitalismo richiede 500 miliardi di dollari di aiuti governativi. Tutto ciò che i capitalisti vi hanno detto sul capitalismo erano solo stronzate per vendervi altro capitalismo. Il comunismo è in realtà molto più innovativo del capitalismo. Fanno di più con meno, e per scopi migliori.

 

Lunga e forse inutile digressione storica

La grande potenza tecnica del comunismo era in realtà nota fin dall'inizio. Russia e Cina si sono industrializzate nel giro di una generazione. Nessuna nazione si è mai sviluppata più velocemente o in misura maggiore, un miracolo economico che la maggior parte degli economisti occidentali ha ignorato, perché il comunismo è un male, STFU [zitto, stronzo!]. La capacità produttiva del comunismo è stata screditata perché l'intera faccenda sembrava crollare con la fine dell'Unione Sovietica, ma non era tutto. Come ha detto Xi Jinping nel 2018:

Lo sviluppo storico non è mai rettilineo, ma pieno di colpi di scena. Alla fine degli anni '80 e all'inizio degli anni '90, il crollo dell'Unione Sovietica, la caduta del Partito Comunista dell'Unione Sovietica e i drammatici cambiamenti nell'Europa dell'Est non solo hanno portato alla scomparsa dei primi Paesi socialisti e dei Paesi socialisti dell'Europa dell'Est, ma hanno anche avuto un grave impatto sul gran numero di Paesi in via di sviluppo che aspiravano al socialismo, e molti di loro sono stati costretti a prendere la strada di copiare il sistema occidentale.

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lantidiplomatico

Perché riarmo?

di Carla Filosa

jfociaebhfyIn questi ultimi tempi siamo entrati nell’ottica di un necessario riarmo europeo, introdotti qualche settimana fa dal “Meno Europa più libertà” di Matteo Salvini al raduno dei “patrioti” alla periferia di Madrid. Sono gli stati dunque a legittimare l’Europa, (quale Europa per altro?) e non quest’Europa indeterminata, o meglio invocata dall’estrema destra, a legittimare gli stati, peraltro profondamente ineguali che la compongono?

L’attualità sembra richiedere lo smantellamento delle istituzioni sovranazionali, se si tifa per l’Occidente, e quindi ci si predispone “liberamente” a un procedere in ordine sparso verso accordi bilaterali, che l’imperialismo del dollaro sta richiedendo con un comando sempre più legato alla persuasione delle armi. Per l’Europa in questione non c’è problema, dato il suo stato ectoplasmatico buono solo a garantire l’uso di superiore e indiscutibile richiesta di leggi essenzialmente atte all’erosione del salario sociale di classe, nella cosiddetta sovranità appartenente al popolo. L’Europa riunita in questa settimana invece a Parigi, e non a Bruxelles, deve decidere se diventare maggiorenne dal tutorato Usa ed entrare nell’ottica bellicista alla pari con i massimi imperialismi mondiali, o relegarsi definitivamente nella subalternità non solo difensiva, ma soprattutto nell’ulteriore sviluppo produttivo in un asfittico mercato mondiale, in cui l’esportazione di capitali dev’essere pilotata dalla politica dell’alleato sovrastante.

Le recenti dimissioni dall’OMS, invece, e dagli ultimi accordi di Parigi sul cambiamento climatico da parte Usa, l’attacco ai giudici italiani promosso da Musk, seguito da quello del governo italiano alla Corte penale internazionale comunitaria hanno già trascinato il nostro stato – da tempo colonia statunitense – nell’obbedienza all’indebolimento di un’Europa mai nata politicamente, ma da usare in modo surrettizio nelle forme servili di capitali da fondere o acquisire da parte dei monopoli più forti.

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giubberosse

Il Nord Stream e il fallimento dell'amministrazione Biden

di Seymour Hersh

9079f806 32d3 450b 9f5d 5ecf9da6ad59 3000x2001 2048x1366.jpg“Un presidente addormentato al volante ha portato disastri al mondo e Trump è tornato alla Casa Bianca, questa volta con Elon Musk”, scrive Seymour Hersh. A distanza di due anni dal primo esplosivo articolo sul sabotaggio dei gasdotti Nord Stream, che per la prima volta chiamò in causa gli Stati Uniti citando informazioni di intelligence, Hersh torna sulla vicenda confermando nella sostanza la sua teoria iniziale e aggiungendo alcuni dettagli: l’operazione, pianificata dagli USA ancor prima dell’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022 anche se realizzata sette mesi dopo, fu resa possibile dalla decisiva collaborazione della Norvegia: le mine furono innescate da “un aereo della Marina norvegese che volava a poche centinaia di metri sopra le onde. L’aereo sganciò il sonar a bassa frequenza e la connessione funzionò”.

Siamo ormai a tre settimane dall’inizio della seconda presidenza di Donald Trump, che ha praticamente consegnato il Dipartimento del Tesoro e più di una dozzina di altri dipartimenti e agenzie del Gabinetto a Elon Musk e al suo team di giovani avvoltoi digitali. Sono in procinto di calpestare la Costituzione mentre raccolgono dati economici e intelligence su tutto ciò che vedono, presumibilmente inclusi i dettagli sui vasti rapporti commerciali di Musk con Washington dall’interno del governo. Trump, che ha settantotto anni, ha persino parlato della sua ricerca di un terzo mandato. Eppure, molti in America e persino al Congresso plaudono il caos.

La chiave del successo di Trump, come tutti sappiamo, è stata la vera e propria scomparsa di Joe Biden, i le cui défaillances fisiche e mentali sono state tenute nascoste al pubblico americano per (a quanto ne so oggi) due anni prima del suo disastroso dibattito con Trump lo scorso giugno.

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sinistra

Sinistra, centro e destra ieri e oggi. E domani?

di Carlo Lucchesi

centro destra sinistra altredirezioni.jpgPer capire quanto sia cambiata la politica nel giro di un paio di decenni, approssimativamente gli ultimi del secolo scorso, basta mettere a confronto cosa contrapponeva fino a quel periodo le maggiori forze politiche con ciò che le contrappone ai nostri giorni.

 

Ieri

Per quanto si possa sostenere a giusta ragione che il PCI non aveva l’obiettivo della rivoluzione e che la DC era un coacervo di forze che rendevano difficile coglierne un’identità definita, non si può negare che, in ultima istanza, l’oggetto più profondo del conflitto che ruotava attorno a questi due grandi partiti era l’alternativa fra socialismo e capitalismo. Ciò è vero anche se non era chiaro a nessuno, neppure al gruppo dirigente del PCI, che cosa potesse essere concretamente il socialismo che si evocava. Non a caso era concepito come il graduale compimento di un lungo processo di transizione di cui si indicavano soltanto le primissime tappe, per altro del tutto compatibili con il capitalismo. Ma, di sicuro, il messaggio col quale ci si rivolgeva alla classe lavoratrice era quello di un cambiamento sostanziale della situazione in cui viveva, e così le masse lo percepivano.

Dall’altro lato, la DC e le forze che le gravitavano attorno, pure attraversate da sensibilità e idealità diverse, convergevano senza il minimo dubbio sulla superiorità del capitalismo non solo sul piano dell’efficienza, ma persino su quello morale in quanto tutt’uno con la democrazia, mentre, al contrario, il socialismo, a loro parere, esisteva e poteva esistere solo in forme dispotiche.

Guardando ai massimi sistemi, dunque, il conflitto era radicale. Ad attenuare tale radicalità provvedevano due presidi. Il primo era la Costituzione, che segnava i confini entro i quali tale conflitto si doveva svolgere. Non mancarono da parte della DC tentativi di valicarne i limiti, ma furono respinti.

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lantidiplomatico

Rilanciare l'Ecuador: il programma strategico della Rivoluzione Cittadina

Geraldina Colotti* intervista in esclusiva Irene León

nvoaibubrngòxSedici candidati, due donne e quattordici uomini, si candidano alle elezioni presidenziali in Ecuador di domenica 9 febbraio. Il 7 si è chiusa una campagna elettorale segnata, oltre che dagli altissimi livelli di violenza, dai piani di Trump per l'America Latina. L'attuale presidente, l'imprenditore neoliberista ultra-securitario, Daniel Noboa, scalpita per mettersi nell'orbita di Trump. Ha accolto con entusiasmo la proposta di deportare i suoi connazionali migranti, e si è addirittura offerto per ospitare nelle carceri ecuadoriane i “delinquenti” statunitensi. Se venisse rieletto, stenderebbe il tappeto rosso ai piedi del suo idolo nordamericano.

Non a caso, ha ritenuto “storico” l’invito a presenziare all’insediamento del magnate per il suo secondo mandato, insieme a personalità dell’estrema destra latinoamericana, come l’argentino Javier Milei, il salvadoregno Najib Bukele e, seppur dietro le quinte, Edmundo González Urrutia, che aspira a essere il nuovo presidente “autoproclamato” del Venezuela, nonostante le elezioni siano state vinte da Nicolás Maduro.

Noboa ha accolto a braccia aperte il nuovo Segretario di Stato americano, Marco Rubio, portavoce dei settori più reazionari di Miami, nel primo viaggio in quello che Trump vorrebbe tornasse a essere il suo “cortile di casa”. Non per niente, uno dei primi decreti da lui emanati è stato quello di reinserire Cuba nella lista dei Paesi che “sponsorizzano il terrorismo”, chiudendo il breve periodo in cui l’amministrazione uscente Biden l’aveva rimossa dall’assurda lista.

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carmilla

A proposito di internazionalismo

di Sandro Moiso

cartolina di Garibaldi.jpgBenedict Anderson, Anarchismo e immaginario anticoloniale, elèuthera 2024, pp. 446, 24,00 euro

Evviva la «zagaglia barbara» («Il Programma Comunista», 24 marzo 1961)

Mentre la centralità dell’ordine occidentale del mondo inizia a venir meno anche in quei settori, come quello ricollegabile allo sviluppo dell’AI, in cui si sentiva più sicuro e mentre la presidenza Trump 2.0 contribuisce a rendere più incerto il sistema delle alleanze che lo hanno garantito negli ultimi ottanta anni, la pubblicazione del testo di Bendict Anderson sulle origini dell’internazionalismo “rivoluzionario” attento ai popoli e alle nazioni estranee al contesto europeo e “biancocentrico” serve da stimolo per una riflessione che, ancor troppo spesso, appare scontata nelle sue conclusioni.

Infatti, andando a indagare un periodo in cui il socialismo era rappresentato dalle posizioni della Seconda Internazionale, la ricerca di Anderson rivela un’inaspettata e scarsamente studiata vicinanza tra le posizioni espresse dall’anarchismo e quelle proprie dei primi movimenti nazionalisti nati al di fuori del contesto europeo.

Un contesto in cui la Prima Internazionale o Associazione Internazionale dei lavoratori era nata e si era sviluppata a partire non soltanto dalla solidarietà tra i lavoratori dei vari paesi europei, ma anche da quella nei confronti degli insorti polacchi che proprio in quel periodo si battevano contro la repressione e il dominio zarista sulla loro nazione.

Non a caso un personaggio fortemente simbolico di quella stagione fu Giuseppe Garibaldi, l’”eroe dei due mondi”, guerrigliero e abile condottiero, ma scarsamente dotato dal punto di vista della visione e della capacità critica politica, così come lo ritenevano sia Marx che Engels. I quali, pur potendo essere considerati, insieme a Bakunin e altri esponenti dei movimenti politici dell’epoca come Giuseppe Mazzini, tra i “padri fondatori” di quella esperienza, sorta nel 1864 e destinata a concludersi nel 1876, ma già avviata alla sua fine a partire dall’espulsione di Michail Bakunin e di James Guillaume messa in atto al Congresso dell’Aja sulla base delle decisioni prese alla Conferenza di Londra nel 1871, ne furono contemporaneamente tra i maggiori promotori e affossatori.

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contropiano2

“Le tre regole di Trump”, o come si fa la guerra

di Francesco Piccioni

tre regole trump.jpegLasciateci, per una volta, segnalare che – pur essendo un giornale solo online, senza finanziamenti né padroni, con redattori “militanti” senza paga – per una volta ci avevamo preso, anticipando di molto i professionisti del mainstream.

Deve essere colpa di quella curiosità che non può albergare nelle redazioni dove “la notizia” è quella che arriva dall’alto… Da un’agenzia di stampa internazionale, da un tweet di un potente, da un ordine della proprietà del giornale…

Però, parlando onestamente e senza alcuna intenzione ironica (per una volta), abbiamo apprezzato che il Corriere della Sera abbia ospitato un pezzo di Andrea Marinelli che prova a dar conto dello “stile comunicativo” di Donald Trump e che gli conferisce – per riconoscimento quasi unanime – il dominio sull’agenda politica: Le tre regole spregiudicate di Trump e chi è Roy Cohn, l’avvocato che gliele ha fornite: «Se vuoi vincere, si vince così».

L’attenzione e l’occasione permettono infatti di precisare quanto avevamo già scritto quasi due mesi fa, subito dopo le elezioni stravinte dal tycoon. E forse abbiamo sbagliato anche noi, allora, a inserire il ragionamento critico sulle “tre regole” all’interno di un articolo più generale, invece di dedicargli un “pezzo a parte”. Rimediamo oggi.

L’articolo di Marinelli è di qualità, ben scritto, coglie molti punti importanti del Trump style. Ma, detto con sincera tranquillità, si svolge interamente dentro i criteri della critica cinematografica, al confine tra fiction e realtà, e quindi non coglie il punto vero – tutto politico – quello che segna un “cambio d’epoca” nella visione politica dell’Occidente collettivo, e che caratterizza l’avanzare apparentemente inarrestabile della destra più reazionaria e suprematista che sia mai apparsa al mondo dalla conquista del Reichstag da parte dei sovietici, il 9 maggio del 1945.

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futurasocieta.png

“Povero” Trump!

di Carla Filosa

La “verità” del broncio minaccioso di Trump è il sorriso felice e il ghigno tracotante e aggressivo di Elon Musk. È lui la vera personificazione dell’imperialismo del capitale e non il presidente della stanza ovale, un figurante prestanome qualsiasi

bbc403a0 9055 11ef b11a eda09aca0cf9.jpg“Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è l’agente involontario e passivo, sostituisce all’isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria mediante l’associazione. Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i suoi propri seppellitori”. (K. Marx, Il Capitale, I, VII, 24)

“Il capitalista non è capitalista perché dirigente industriale ma diventa comandante industriale perché è capitalista.  Il comando supremo nell’industria diventa attributo del capitale, come nell’età feudale il comando supremo in guerra e in tribunale era attributo della proprietà fondiaria”. (K. Marx, Il Capitale, I, 2, 11)

Solerte nel suo nuovo incarico, Donald non ha perso tempo per il bene degli “americani” – da sempre gli statunitensi sono stati chiamati così: il “tutto per la parte”! al contrario – proprio come ormai il “loro” golfo, non più del Messico, finora così insignificante con quel nome! Ha graziato i suoi pretoriani di Capitol Hill, ha promesso di scaraventare fuori dalla fortezza a stelle e strisce gli ultimi immigrati, dato che non si sa chi si salverebbe se si chiedesse agli statunitensi di buttarsi a mare qualora avessero avuto origini migratorie. Il termine “deportation” non lascia dubbi, anche se molti traducono con “rimpatrio” o “espulsione”, al punto che anche la vescova evangelica ha chiesto “misericordia” a Trump nei confronti di chi, emigrato in ritardo con la storia, teme per la propria vita.

Dimissioni dall’Oms, e dimissioni per la seconda volta dagli accordi di Parigi sulla transizione energetica, per “Make America affordable and energy dominant again”, cioè rendere l’America accessibile e di nuovo dominante in ambito energetico! Ripresa devastatrice delle trivellazioni per ottenere petrolio e gas (stimato lo scorso novembre in 4 miliardi di tonnellate in più alle emissioni entro il 2030. D’altronde, le industrie dei combustibili fossili hanno sborsato 75 milioni di dollari per la campagna di Trump!).

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analisidifesa

Dissociati dalla realtà

di Gianandrea Gaiani

Donald J TrumpUna valanga di provocazioni ha caratterizzato la prima settimana alla Casa Bianca di Donald Trump in politica estera, dove la foga di imporre il nuovo corso dell’America “tornata grande” sembra portare il neo presidente ai ferri corti con alleati, vicini e rivali dall’Europa al Medio Oriente, dalla Groenlandia alla Russia, dai BRICS all’America Latina.

Che si tratti di passi falsi o dell’ostentazione della forza che Washington intende utilizzare o forse solo minacciare per dirimere le contese con alleati e rivali solo il tempo potrà dirlo.

Il monito lanciato a Vladimir Putin affinché negoziare sull’Ucraina ha fatto seguito a molti segnali di distensione verso il Cremlino. Se non accetterà di negoziare per porre fine alla guerra in Ucraina, gli Stati Uniti porranno nuove ulteriori sanzioni alla Russia e ai suoi alleati ha fatto sapere Trump due giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, in un messaggio pubblicato su Truth Social.

“Ho sempre avuto un ottimo rapporto con il presidente Putin. Non voglio danneggiare la Russia. Farò alla Russia, la cui economia sta fallendo, e al presidente Putin, un grandissimo favore. Raggiungete un accordo ora e fermate questa ridicola guerra! Non potrà’ che peggiorare!”.

Mostrando aperture verso Mosca, Trump ha aggiunto che “non dobbiamo mai dimenticare che la Russia ci ha aiutato a vincere la Seconda Guerra Mondiale, perdendo quasi 60 milioni di vite umane”. Una gaffe storica non proprio edificante per il neo presidente e il suo staff.

Trump aveva definito l’Ucraina “un Paese raso al suolo dalla guerra”, sottolineando l’enorme tributo di sangue che il conflitto è costato a entrambi i belligeranti auspicando che il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, voglia porre fine quanto prima al conflitto ma, aggiungendo che per conseguire tale obiettivo è necessaria una reale apertura al dialogo da parte di Putin, benché “Zelensky non sia un angelo”, come ha ricordato Trump dando un colpo al cd4rchio e uno alla botte.

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doppiozero

Trump e Musk: in principio è l'azione

di Alessandro Carrera

222021155 d515017f 08fd 4937 871c 18578f9ae6ae.jpgNel film Un volto nella folla (Elia Kazan, 1957) assistiamo all’inarrestabile ascesa di Larry “Lonesome” Rhodes, ex cantante country interpretato da Andy Griffith che, scoperto dalla conduttrice di una trasmissione radio, diventa presto un idolo delle folle, un influencer (allora si diceva testimonial), nonché un aspirante politico. Ma quando Marcia, la produttrice che purtroppo si è innamorata di lui, decide di punirlo dei suoi tradimenti, non deve far altro che lasciare acceso il microfono alla fine di un programma televisivo e poi diffondere la registrazione in cui Lonesome Rhodes, il campione del popolo, dà degli idioti a coloro che lo seguono. Il suo indice di gradimento crolla e la sua carriera politica è finita.

Questo nel 1957, ma oggi non è più così. Il nuovo populista non teme affatto di far sapere al suo elettorato quello che pensa di loro. Quando Trump ha detto: “Amo gli ignoranti” (“I love the uneducated”) non ha perso voti, anzi ne ha guadagnati. Il populista che disprezza il popolo viene osannato da un popolo che a quanto pare disprezza soprattutto se stesso. Ma è proprio così?

Michael Sandel, filosofo della politica e autore di La tirannia del merito (2020), ha argomentato che i recenti movimenti populisti, negli Stati Uniti e altrove, sono una rivolta delle masse contro le élites di coloro che si ritengono, per nascita e censo, “la metà migliore” (è un’espressione che userò ancora, in un contesto più preciso). Ma non sono sicuro che questo sia ancora vero. Il 20 gennaio 2025, durante l’inaugurazione della sua seconda presidenza, accanto a Trump non c’erano gli ex minatori della Pennsylvania o gli operai del Michigan; c’erano gli amministratori delegati delle grandi tech companies, gli uomini più ricchi e potenti del pianeta, nessuno dei quali ha mai nascosto la propria politica antisindacale e l’assunto in base al quale il miglior amministratore è quello che licenzia di più. Come si è realizzata questa unholy alliance, questo matrimonio osceno di populismo, tecnocrazia e sovranismo?

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lafionda

Dizionario minimo anti-Trump, il nemico che ci voleva

di Alessio Mannino

1: dal tecno-cretinismo a Luigi Mangione

trum musk 3 635x358 1Occidente. Liberismo. Nazione. Atlantismo. Democrazia. Razzismo. Élite. Le categorie con cui abbiamo finora interpretato la realtà sono state travolte dalla valanga trumpiana. Sarebbe da riscrivere un intero vocabolario ermeneutico, dopo la conquista della Casa Bianca da parte di The Donald. I primi 100 decreti immediati – uno “tsunami”, li ha definiti il suo ex stratega Steve Bannon – danno un quadro già abbastanza chiaro dell’onda d’urto che si abbatterà non solo sugli Stati Uniti e sul mondo ma anche, più in profondità, sui nostri paradigmi.

Qui mi proverò nel tentativo di una guida minima, pubblicata in tre parti in rigoroso disordine alfabetico. Un abbozzo di critica del pregiudizio riguardante alcune verità ormai consunte. Una critica, in parte, che è anche salutare autocritica. Di seguito, la prima parte.

 

Democrazia (rappresentativa delle élites, fino a un certo punto)

Non è più vero, o non necessariamente, che il voto alle elezioni sia un passaggio residuale, poco incisivo e non dirimente, rispetto alle decisioni che piovono dall’alto, nelle cabine di regìa dove si fanno e si disfano i veri giochi. Il potere, beninteso, passa regolarmente di mano in mano entro ristrette cerchie che si spartiscono il controllo delle forze istituzionali, economiche, militari e culturali. La paretiana circolazione delle élites è sempre viva e prospera, in ossequio alla legge ferrea dell’oligarchia. Ma se il consenso delle urne esprime un vincitore netto, leader incontrastato della propria fazione che riflette su di sé un campo di egemonia largamente diffusa, allora il rito elettorale può fare la differenza.

È l’identikit di Trump, che tornato da trionfatore nello Studio Ovale con una legittimazione fortissima, è oggi nelle condizioni di parlare, come vedremo, da pari a pari perfino con l’uomo più ricco del pianeta, Elon Musk.

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Il caso Sala-Abedini e gli insegnamenti della Storia

di Fulvio Bellini

Riflessioni di ampio respiro sulla vicenda della incarcerazione e liberazione di Cecilia Sala e di Mohammad Abedini: ciò che emerge è tutt’altro rispetto a quanto propinato dai mass media

abedini sala 2.pngPremessa: Cecilia Sala piccola rotella di un ingranaggio

Lo scambio dei “prigionieri” alla fine si è realizzato: Cecilia Sala è tornata in Italia l’8 di gennaio mentre Mohammad Abedini

è stato liberato e rimpatriato il 12 su iniziativa del guardasigilli Nordio. Da un punto di vista personale entrambi dovrebbero tirare un profondo respiro di sollievo per uno scampato pericolo che, forse, non hanno pienamente apprezzato. Quale? Per esempio, se i due fossero stati imprigionati un anno fa, e non in un periodo di passaggio di consegne alla Casa Bianca, la possibilità che il vecchio e maligno Joe rigettasse senz’appello la richiesta del governo italiano di ritirare l’editto imperiale di cattura nei confronti del cittadino iraniano e di conseguenza negare le condizioni del rilascio di Cecilia Sala, sarebbero state elevate. Abedini sarebbe stato estradato negli Usa dove avrebbe subìto pene detentive draconiane e la Sala sarebbe stata ospite delle carceri iraniane per un lungo periodo. Invece, oggi negli Stati Uniti esiste una “corte di appello” presso la principesca villa di Mar-a-Lago in Florida, dove l’oligarca-magistrato-quasi presidente Donald Trump ha evidentemente accolto l’istanza di Giorgia Meloni, probabilmente facendo pagare un caro prezzo all’Italia. Accenniamo brevemente a Cecilia Sala perché non c’è molto da dire sulla persona: rampolla di una famiglia borghese romana, è una rotella di piccole o medie dimensioni di quel grande meccanismo che è la propaganda di regime che si fa chiamare giornalismo. Nel caso in specie, per chi volesse approfondire il Sala pensiero, suggerisco di vedersi la video intervista su YouTube “Cecilia Sala parla del conflitto a Gaza”1, dove la neoeletta paladina della libertà del giornalismo sfoggia la sua interpretazione del genocidio in corso in Palestina con concetti mai sentiti prima, ovviamente in senso ironico: “conflitto brutale”; “è importante la presenza di giornalisti di terza parte che raccontino i fatti perché le opinioni sono estremamente polarizzate”; “esistono solo soluzioni molto complicate a questo conflitto”; “il presupposto è che non ci siano più il governo più di destra in Israele e Hamas a Gaza per iniziare un percorso che abbia come fine la creazione dei due Stati” (sic); “serve un nuovo piano Marshall per Gaza e la Palestina, in cui la solidarietà e la cooperazione, le Ong, le associazioni sul territorio saranno fondamentali”.

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carmilla

La rivoluzione come una bella avventura / 4

Germania e Stati Uniti 1918-1934 (e oltre)

di Sandro Moiso

Paul Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 174, 18 euro

Mattick Avventura.jpgSi spiega in questa occasione la scelta del titolo di una serie di articoli che, probabilmente, ha fatto arricciare il naso a diversi elettori. L’accostamento di Rivoluzione e Avventura può infatti aver dato l’idea di una forzatura letteraria e ideologica nei confronti di un tema serio, o almeno ritenuto tale da coloro che del grigiore politico hanno fatto uno schema esistenziale immemore di tutta la gioia, la passione e di tutto il coraggioso slancio soggettivo insiti e necessari all’interno di un reale e vitale movimento rivoluzionario.

A far comprendere tutto ciò cui si è appena accennato è proprio l’”autobiografia” di Paul Mattick uscita alcuni anni or sono per l’editore triestino Asterios nella collana “in folio” con il numero 21 e precedentemente pubblicata in Francia nel 2013 con il titolo La Révolution fut une belle aventure. Des rues de Berlin en révolte aux mouvements radicaux américains (1918- 1934). Edizione da cui è tratta la postfazione di Laure Batier e di Charles Reeve dell’edizione italiana curata da Antonio Pagliarone che è anche autore della prefazione alla stessa. Prima di addentrarci nella lettura dell’avventura rivoluzionaria di Mattick occorre però inquadrare il comunista tedesco nel periodo in cui visse.

Paul Mattick (Slupsk, 13 marzo 1904 – Boston, 7 febbraio 1981) può essere collocato all’interno del comunismo di sinistra, in cui rappresentò uno dei maggiori esponenti di quello cosiddetto consiliarista, critico infatti sia del bolscevismo che dello stesso Lenin il cui pensiero e azione politica erano stati rivolti, a suo dire, sostanzialmente all’ascesa di un capitalismo di stato, controllato attraverso le maglie di uno stato estremamente autoritario e, per certi versi, prossimo al fascismo.

Nato nella Pomerania polacca, al tempo facente parte dell’impero guglielmino, crebbe a Berlino in una famiglia operaia sindacalizzata e politicizzata. A 14 anni, entrò a far parte della Freie Sozialistiche Jugend, la frazione giovanile della Lega di Spartaco fondata da Rosa Luxemburg e Karl Liebnecht.